Impiraressa del quotidiano, Liliana Gatto, Genova
Finalista Premio Energheia 2025 – sezione adulti
Ho un foglio ripiegato nel taschino della camicia, la tua di camicia, quella che ti piace tanto, la indosso sopra un paio di jeans. Ho dormito così, in un pigiama di stoffe robuste. La scorsa notte ho scelto questa improvvisata corazza tessile, ho pensato di prepararmi, già nelle ore buie, ad affrontare i giorni a venire. Dovrò essere solida, inscalfibile.
Non si è fatto ancora giorno, fuori i rumori di una città che lenta si sveglia sono la voce di sottofondo dell’esiguo traffico cittadino, mi alzo con una finta calma, non voglio cedere alle malinconie dei pensieri e poi è vero che vorrei essere altrove, riflessiva mi avvicino alla finestra; fuori niente mi ricorda di te, lo sguardo si perde nelle linee architettoniche della città, avessi un pennarello disegnerei idealmente la sagoma del porto, delle navi, di qualche insegna luminosa che ancora accesa ruba la scena a tutto, nell’aria umida e salmastra, sotto casa, un cartellone pubblicizza una pensione integrativa: un uomo e una donna, in un abbraccio che vuol rendere solido il loro legame, sorridono sereni, all’incrocio, lì vicino, le luci gialle intermittenti del semaforo regalano un poco di vivacità a quell’abbraccio di cartone, e sfidano la barriera delle mie persiane, entrando con bagliori tremolanti, io divento una sagoma gialla proiettata sul muro della stanza, sono lunga e stretta in attesa di intercettare l’eco dei tuoi pensieri, sono un ombra dilatata e contratta dal fascio di luce citrina disposta a trasformarmi in qualcosa di stabile.
Ferma. Insoddisfatta. Faccio appello a ciò che resta della mia autostima. Per andare avanti, per crederci ancora, cerco di ritrovare l’armonia dei primi appuntamenti, quel fragile equilibrio tra il desiderio e la realtà. Una palpebra si abbassa, poi su, poi giù. L’altra la segue, e quando i movimenti si fanno sincroni mi trovo immersa in un lago nero; il momento giusto per far scorrere una lacrima.
Eretta, resto scalza. Voglio sentire il mio stare al mondo senza intermediari. Passo dopo passo bilancio il peso, sono un bipede in movimento, annuso l’aria, ho bisogno di un riscontro affettivo, un profumo per fare tornare questa stanza un luogo conosciuto ai battiti del cuore. E se il pensiero corre a te, è perché questa casa sa di te. Del tuo andirivieni, dei saponi, degli shampoo, con quelle riconoscibili fragranze in uso negli alberghi, della valigia poggiata vicino alla porta d’ingresso, della tua capacità di essere qui e in contemporanea essere in capo al mondo.
Mi lascio guidare da movimenti primitivi, automatici, fatti senza pensarci. Una gamba dietro l’altra, una geometria in linea retta. La mente si fa bambina in altalena, non ho voglia di pensieri pesanti. Fuori, nella penombra del giorno che nascerà, un alone di luna delicato e malinconico sparpaglia grigi perlati. Sembra non voglia tramontare. Mi assomiglia, quando indugio e non ho voglia di finire le cose.
Il vecchio parquet a cassettoni mi offre un caldo appoggio. Seguo il suo andamento e continuo, passo dopo passo, a bilanciare il mio peso, come un’impiraressa che infila perle, una dopo l’altra, creando una collana di equilibrio, di presenze, cerco conferma nello spazio che mi circonda, da un quadrato all’altro, mi racconto: se non tocco i bordi, non morirò mai; non ci separeremo; non perderò la mia amica più cara nel tempo e nell’inedia dei sentimenti.
A metà corridoio mi fermo, i piedi uniti nel perimetro di un cassettone. A stento, ma non ne tocco i bordi. Sono soddisfatta, ho vinto la mia sfida. Posso smetterla con questo gioco infantile. Da adulta, peso di più, ho meno equilibrio, me lo dicono i miei alluci, mi sento goffa, imbarazzata dai dubbi partoriti nella notte.
La penombra ingigantisce i miei timori, li colora di pessimismo, non voglio accendere la luce e proseguo nel limbo, mi affido ai sensi: posso toccare il tuo libro sul comodino; posso guardarti al cellulare nell’ultimo tuo concerto; posso sentirti parlare con tua madre ormai quiescente ma non cambia nulla, tu resti un ombra lontana.
Faccio alcuni passi indietro, nell’atmosfera dei chiari e scuri di prima, per starti idealmente vicino, torno sagoma citrina proiettata sul muro di casa, raccolgo frammenti della nostra vita, vado a memoria, inanello ricordo dopo ricordo e li lego con un ipotetico filo rosso, ritrovo episodi d’amore, d’intesa complice e felice di cui avevo dimenticato l’esistenza.
Empirica assaggiatrice del tuo modo di fare, prima, navigata fattucchiera d’ alchimie propiziatorie alla nostra convivenza poi, compongo a memoria la sonorità della tua voce, ti sento ancora al mio fianco: “vediamo come va perché – mi hai sussurrato facendo oscillare dolcemente l’orecchino – il sentimento c’è e resiste ai nostri sabotaggi”. Quello in atto, ti vede lontano per un dichiarato impegno di lavoro: hai preso la valigia, hai chiuso con scatto deciso la custodia del violino e sei diventato un uomo nella folla, il tempo scorre veloce se non ti penso, altrimenti non passa mai. Ti sei trasformato in un avverbio di tempo: “dopo” ti chiamo, “poi” ci vediamo.
Stanotte al pigiama di stoffe robuste ho aggiunto il bracciale, sai quello con il gps inserito tra le perle sintetiche, credo di averlo tenuto indossato per ricordarmi che non sempre le mie aspettative sono ripagate dai fatti della vita, che bisogna prestare attenzione ai dettagli, al non detto, alle sensazioni provate al volo. La storia la conosci già, il gps mi aveva illuso di poter seguire, in modo sincero, un delfino nel suo ambiente naturale, con una rotta rilevata in tempo reale, quasi ad esser lì a condividere le onde; ogni traccia sullo schermo del pc, un punto esatto sulla mappa, invece niente di più lontano dalla realtà. Mi sono sentita tradita scoprendo che la rotta del tursiope viene condivisa in ritardo (per ragioni di sicurezza dicono, come se io fossi una minaccia, una che esce di casa con il tridente) e che il sottile inganno era spiegato con un minuscolo asterisco a fondo pagina. Mi ero chiesta lì per lì se la vita stessa non fosse un insieme di piccoli asterischi disseminati a caso, dettagli che dobbiamo imparare a leggere con attenzione per non soffrire, per non dire “non me lo sarei aspettato” o, peggio ancora, “non avevo capito”. Quando ho riguardato le perle e la sagoma del tursiope con il gps al centro ho desiderato che si sfilassero, che si perdessero per sempre; io, navigata impiraressa di mappe immaginarie, mi sono fermata al primo porto, alla prima delusione, stanca di promesse fedifraghe.
E così, ad oggi, siete in due di cui non so l’esatta posizione.
Il tuo è un viaggio sulla terraferma iniziato nel tardo pomeriggio di ieri, una treno preso al volo, una camera d’albergo prenotata in fretta, in una città che sai che io non amo, viali alberati, edifici neoclassici e palazzi neoclassici, la cui vista mi affossa nella storia, vecchi testimoni di un fastoso passato ora frammentato senza cura alcuna, l’aria in città è stantia, plumbea, ma questo non ti tange, tu sei pragmatico, se si deve andare, si va, senza esitazione e ripensamenti.
Torno al mio “adesso”, al foglio nel taschino; come hai sempre asserito, le cose veramente importanti si scrivono, e se io è da un po’ che non lo faccio, ieri ti ho visto scrivere, poche parole, ciò che basta a dare vigore alle tue intenzioni.
Infilo una mano tra i capelli a tastare la mia labile consistenza fisica, un semplice gesto per verificare il mio stare al mondo: scalza, sola, con una camicia in prestito, sono in corridoio, mi soffermo sull’affaccio delle nostre stanze, ritrovo trame amorose negli oggetti che ti appartengono e che ora chiamo, in qualità di testimoni della difesa, a prestare il giuramento a favore dei giorni trascorsi insieme, li rendo partecipi del mio zizzagare per casa e quando mi interrogo sulla tua di consistenza fisica ti vedo in accappatoio, nella tua stanza d’albergo, le sottili ciabatte di spugna con il logo dell’albergo, mentre ti prepari a fare una doccia e nell’aria, qui, rivivo l’odore della tua pelle.
Bipedi, eretti, siamo divisi da mille chilometri, una lingua indoeuropea che declina al neutro, un cielo – con molta probabilità tendente a un grigio plumbeo – che affronta, almeno lui, con coraggio gli albori del giorno. Ci sono stati tanti nostri giorni grigi – poi recuperati – in quella città, sarà che il grigio del cielo si riverbera nei palazzi, nelle strade, ma il nostro soggiorno lì quali apprendisti conviventi mi ha lasciato l’animo mesto, la stessa sensazione che mi ha colto ieri, quando a mezza voce mi hai elencato i tuoi dubbi sulla piega che sta prendendo la nostra relazione, in contemporanea hai fatto scattare con mano sicura la chiusura della custodia del violino, parole ferme e convinte ad anticipare un distanziamento emotivo di cui, francamente, non ne sentivo il bisogno o come pensi tu, non ne capisco il perché; mentre la custodia del violino e la valigia erano già nel vano ascensore, mi sono ritrovata bussola impazzita con l’ago magnetico crocifisso a sud incapace di segnare il nord e trovare una via d’uscita, intenta solo a cercare di dare un senso a questa distanza geografica.
Ritorno alla mia natura d’ impiraressa, inanello ricordi della nostra vita da fidanzati, salto il presente, è solo un nodo tra una perla e l’altra, poi inanello congetture su congetture sul nostro futuro, oscillo tra sicurezze attinte dal passato e l’irrequietezza dei nostri ultimi mesi; senza nemmeno l’ausilio di un sole nascente penso alle distanze geografiche contrapposte alle distanze emotive e all’impossibilità di trasformare la prima persona singolare – quel “io” a volte pronunciato a sproposito – con la prima persona plurale – quel “noi” ora così prezioso – per evitare di perdersi per sempre.
Fuori albeggia, immagino la tua voce declinare verbi e parole nella tua seconda lingua; nei nostri metri quadri di calpestabile vita casalinga rincorro me stessa, e dopo pochi passi mi ritrovo in cucina, il cuore si diagnostica convalescente, i pensieri si dichiarano in prognosi riservata perché è vero che non cambierà niente se penso sempre alle stesse cose e non faccio nulla. Sento l’odore di pulito, quello che lasciano i detersivi con l’aggiunta di disinfettante, quelli che hanno il teschio e la croce d’ossa sull’etichetta per farti capire che a volte morire può essere facile; di questo sentore asettico prendo in prestito la voglia di lavare via ogni errore, ogni colpa dalla nostra unione, voglio eliminare i comportamenti opachi preludio dell’insoddisfazione che ho avvertito farsi avanti, piano piano, subdola, negli ultimi mesi; ne cancellerò ogni traccia, estirperò le radici delle nostre cattive abitudini. Mi domando se saprò cavalcare le sfide della vita, all’improvviso mi sento fragile, indifesa e mi sale un nodo alla gola, riconosco di essere in difficoltà nel pensarti lontano, mi piego su me stessa, a protezione degli organi interni, ho bisogno di sentire il flusso sanguigno regolare, a temperatura costante, trattengo il fiato, una, due, più volte, vado in apnea per non cedere al pianto. Qui. Scalza. Sola.
Non ho bisogno di un’altra mano tra i capelli per sapermi al mondo, basta un accenno di angina pectoris per darmi contezza di chi sono, di come sono. Ho bisogno di una parte di te e d’ossigeno puro, riattivo il ritmo dell’inspirare, dell’espirare: in tante cose della vita dovrei essere più regolare, a mente potrei farne un elenco, in cima metterei l’amarmi con costanza per meglio amare gli altri.
Chiudo gli occhi. Come in un film rivedo altre partenze; un uomo e una donna si salutano, lei tenta di strappargli la promessa di un ritorno con un bacio tonalità rosso corallo, lui sale frettoloso sul treno.
Esamino i contorni dei visi, la familiarità dei loro sguardi, il treno è uno spazio anonimo, solo un involucro rettangolare di materie prime, il tempo scorre nell’illusione di un amore inossidabile. L’uomo resta in piedi nel corridoio, guarda fuori dal finestrino, mentre la donna è sul marciapiede e lo saluta con un leggero movimento del capo e della mano. So che uno dei due ha amato di più dell’altro, uno dei due è stato più sincero con l’altro, a questo punto non mi interessa più sapere chi sono, cosciente di essermi persa nel mio quotidiano confuso, malato di ansie, è probabile che io stia per perderti.
Manchi. Manca l’incedere dei tuoi passi, il brusio del tuo rasoio, la fragranza del tuo dopobarba e il timbro della tua voce sta per diventare il più classico dei ricordi.
Nel primo assaggio della luce del giorno mi trovo con il baricentro instabile, cerco conforto nella tastiera del cellulare, ti scrivo un messaggio e la geografia dei luoghi diventa falsamente elastica, ingannevole come la mappa del delfino; ho l’impressione di esservi vicino ma così non è; tanto vale salvare nelle bozze queste quattro ditate di testo. So di non doverti contattare, di fronte all’ascensore, nell’atto di premere il tasto “terra”, a mezza voce – non abbiamo mai avuto bisogno di gridare tra di noi – hai decretato un temporaneo divieto d’ingerenza, (“lasciamoci liberi di vivere le nostre irrequietezze”) e il vecchio Stigler ti ha sottratto alla mia vista.
Tiro fuori dal taschino della camicia il tuo foglio, lo rileggo (“si vis amari, ama”, se vuoi essere amato, ama) rispecchia il tuo modo di stare al mondo senza inutili panegirici, alieno da sovrastrutture emotive, diretto al dunque delle cose, diretto al cuore delle persone e lì ci sono anche io, ed è da quello che ricomincerò.
Mi serve solo il tempo per fare una valigia e mollare tutto, in questa casa tirata su insieme e che assomiglia sempre più a un castello di carta, mi lascio dietro le spalle i nostri metri quadri di calpestabili compromessi.
Penso a te, al magnifico inganno che abbiamo vissuto.
Fuori il cielo annuncia i colori del giorno. Pronta. In qualche modo pronta. Vestita di tutto punto. Convinta. Parola d’ordine: importante. Sicura di andare incontro a un giorno importante, ho bisogno di credere di essere importante per qualcuno, di fare qualcosa d’importante.
Quando entro nell’ascensore sento tuonare, immagino il lampo a seguire, la sua luce intensa, concorrente sleale dell’intermittenza gialla di prima, che rischiara la superficie del mare. Fuori una pioggia fine, si deposita sulle mie spalle, l’aria satura d’umidità salmastra mi avvolge, passanti frettolosi mi scansano, mentre scruto un orizzonte grigio che si tuffa in mare, le mani trovano un approdo sicuro nel fondo delle tasche della giacca, lì, a tatto un biglietto d’ingresso a teatro, ricordo di una nostra serata, mi fa fare un tuffo nel passato; è la seconda volta oggi che un pezzo di carta parla al mio cuore, ho necessità di ricostruire i tratti del tuo viso, e io, da abile impiraressa, ricucio le tue sembianze: palpebre, labbra, fosse nasali, cuoio capelluto, ora sei come nella fotografia di noi due, in bianco e nero, attaccata sulla porta del frigo: sorridiamo, mano nella mano.
Dammi il tempo di arrivare, di fare un biglietto all’ultimo minuto, regalami l’opportunità di un franco confronto.
Il mio taxi ora mangia l’asfalto, certo non mi immagini, a quest’ora del giorno, già in affanno, piove forte in prossimità della stazione ferroviaria, quando scendo il vento mi piega l’ombrello poi lo gonfia dal sotto e lo rovescia; nel suo piccolo vive il dramma del fallimento. Chiamato a ripararmi dalla pioggia è diventato una tartaruga rovesciata, schiava di un convesso carapace, pesante come gli orpelli del mio passato da adolescente scontrosa, problematica, che mi porto appreso e di cui tutt’ora mi nutro, avida, nelle ore buie.
L’atrio della stazione mi presenta la sintesi di questo primo mattino: umore basso, giacca sgualcita, quando raggiungo il mio posto a sedere vicino al finestrino, si aggiungono un paio di nuvole scure, nessuna traccia di quel lampo di luce sul mare di cui fantasticavo in ascensore; un altro innocuo inganno delle mente che ha immaginato quello che voleva vedere, e perché allora non immaginarti al mio fianco in questo viaggio dove tutto è da reinventare?
Viaggio verso nord, il paesaggio si contrae, i palazzi si confondono nella bruma mattutina, i tetti di ardesia si perdono nell’indeterminatezza. Devo indovinare la geometria delle case, in balia dei confini liquidi di quello che mi circonda d’istinto mi volto indietro a cercare il moto ondoso, come se da qui potessi scorgerlo. Per esorcizzare la mia insicurezza cerco conferme negli oggetti che ho in borsa, la mia penna, il mio tablet, ho portato con me cose inutili, la chiave della cantina, un libro tascabile già letto, ansiosa frugo alla ricerca di oggetti rassicuranti: portafoglio; porta occhiali; portadocumenti con gli angoli consumati; spazzola e uno specchietto. Sicurezza è quello che cerco da tempo. Sei stato una presenza rassicurante nel mio trapassato remoto anche quando non c’eri. Adesso fuori tutto è sbiadito, mi sento come racchiusa in un bozzolo, e vorrei essere già arrivata.
In questa attesa ovattata io ridisegno il mio presente: impiraressa del quotidiano, inanello speranze dopo speranze perché non vadano perse nel tempo, prima di uscire di casa, ho aggiunto un post scriptum (“spero di incontrare per la seconda volta il tuo cuore”) al tuo foglio e l’ho messo vicino alla nostra fotografia in bianco e nero.
Aspettami, la vita ce la coloriamo noi due insieme.




