I racconti del Premio letterario Energheia

La Patetica Vita di un Orfano, Jennifer Patricia Kiss_Matera

Finalista Premio letterario Energheia 2023 – sezione giovani

Menzione Premio Energheia 2023

Era da solo, aveva bevuto, non abbastanza da essere ubriaco ma abbastanza da avere la testa leggera. Apprezzava la solitudine seppur a volte si faceva opprimente; stava passeggiando per le vie semplicemente osservando ciò che aveva intorno, osservando gli ubriachi, i cani, i vecchi che giocavano e scommettevano, quelli che ridevano e quelli che imprecavano, osservando ognuno di loro per trovare qualcosa di interessante. Era ormai diventato un passatempo cercare di comprendere dai particolari la loro occupazione e quanti soldi avevano nel portamonete dagli abiti, dai calli sulle mani, dalla muscolatura, da cicatrici e da qualsiasi dettaglio, anche se al momento non aveva bisogno di soldi e non aveva voglia di arrischiarsi giusto per avere qualche moneta bucata in più, dato che in

quel contesto di sicuro nessuno possedeva molto più dell’altro, persino chi aveva vinto a carte quasi certamente non aveva fatto vincite che ne valessero la pena.

Nelle vie fiocamente illuminate dalle lanterne e dalla luna, quella notte stranamente non

offuscata da nuvole, Ezri decise di avviarsi nei vicoli più angusti alla ricerca di silenzio senza un particolare motivo, ma semplicemente per la voglia di rimanere più solo di quanto già era in mezzo alla gente. Continuando a camminare per i vicoli il suo sguardo indugiò sul bordo sudicio laddove vi è lo stacco tra la strada e gli edifici e, dato che non c’era nessuno, si avvicinò e raccolse il frammento di uno specchio; era sporco di terra, ci sputò sopra per poi pulirlo con l’orlo della casacca, era lievemente graffiato di forma triangolare di circa otto centimetri per lato con un bordo irregolare. Non era stato cauto nel raccoglierlo e di conseguenza si fece una piccola incisione nel palmo, poco sotto

l’indice e ne sgorgò del sangue, che macchiò la punta degli stivali. In quel momento, nello specchio si riflettè il volto di Ezri: era sottile, di un taglio quasi orientale, gli occhi erano anch’ essi sottili, seppur con la doppia palpebra, tipici dell’etnia caucasica, alla quale apparteneva, erano di un verde scuro, più chiaro verso il centro, il pallore della sua pelle creava un contrasto nel buio e gli occhi erano velati dai ciuffi dei capelli mossi e tendenti a un nero molto cupo, come se fossero stati bruciati.

Erano di una lunghezza media e sfibrati sulle punte, indice che erano stati tagliati con un coltello; aveva un fisico piuttosto sottile, asciutto, per via della denutrizione di cui aveva sofferto per tutta la vita, comunque forte e quasi muscoloso per la vita passata in strada in cui risse, tetti e corse erano ormai familiari, e nell’insieme gli conferivano un aspetto molto androgino. Intascò il frammento assicurando grossolanamente i bordi; passò un’altra ora a camminare, la nave sarebbe partita circa alle dodici del mattino, ed era approdata al porto di Radon verso le sette di sera.

Il capitano aveva dato a tutta la ciurma denaro sufficiente per alcol scadente e prostitute, ma Ezri ne aveva conservato buona parte che sarebbe andata ad aggiungersi ai suoi risparmi. Aveva avuto il turno proprio durante l’approdo, quindi lo avrebbe riiniziato solo nel pomeriggio, perciò avrebbe potuto dormire dopo, mancavano ancora otto ore alla partenza per il porto di Astiane. Un gatto nero si strusciò contro le sue gambe, al che fece un lieve sorriso, si chinò per accarezzarlo, aveva gli occhi arancioni e le pupille dilatate, ma mentre faceva le fusa aveva gli occhi chiusi. «Sembra che tu sia solo come me, eh?» Tornò alla nave in silenzio, quel gatto era stato come un piccolo unguento per il

suo cuore ferito, lo stesso che non sapeva di esserlo, e che ogni volta si sorprendeva di scoprirlo per poi continuare a dimenticarlo.

*

“…non voglio morire, non voglio morire, non voglio morire…”

Un tonfo, il bambino perse conoscenza e cadde sul fianco, vicino alla porta della chiesa ove stava chiedendo la carità, un uomo prese il bambino inerte tra le braccia. Ai passanti non interessava, se non per i pochi sguardi dati dal fetore dell’infante. Nel corso della sua vita avrebbe rinnegato spesso l’ultimo pensiero che ebbe prima di svenire di stenti, seppur avrebbe realizzato più tardi che anche allora era stato dettato dalla paura e dall’istinto. Rinvenne, aveva il fiato corto e nonostante la cagionevolezza del suo corpo, il suo cuore riuscì comunque ad essere tachicardico.

Ero sdraiato, aprendo gli occhi, la prima cosa che vidi fu un soffitto, il terrore provocatomi dal non sapere dov’ero mi assillò. Mi alzai di scatto e a fianco al letto nel quale mi trovavo, vi era un uomo, e seppur fosse seduto si notava la sua altezza e il suo fisico massiccio; era calvo e il suo viso buono, anche se ciò non mi rassicurò. «Eri svenuto per strada.» disse, «Questa è casa mia.» continuò, mentre lo guardavo confuso e spaventato; «Tieni, sarai affamato.» concluse, abbozzando un mezzo sorriso che pareva più che altro una smorfia. Lo stomaco mi dava fitte di dolore, di conseguenza non me ne preoccupai, mangiai, forse sgraziatamente, la misera zuppa di farro che mi venne offerta; cercai di

mangiare più in fretta possibile, temendo di venir cacciato, mi sporcai, ma tanto lo ero già, non me ne riguardai. Finii la zuppa, alzai lo sguardo temendo di essere colpito. Mi sorrise. «Ne vuoi ancora?»

*

Verso le due del pomeriggio del giorno seguente, approdarono ad Astiane; il capitano fece riunire tutti sotto l’albero di trinchetto, il sole era alto e nonostante fosse solo maggio era comunque cocente.

«Siamo qui per comprare scorte, ripartiremo tra cinque ore, andremo nel Mar Zulio, passando per lo stretto di Burco, approdando al porto di Erden. Il viaggio durerà tre mesi circa.»

Ezri era nato lì, e adesso era un momento perfetto per tornare, si può dire che si era imbarcato su una nave pirata proprio per potersi spostare facilmente, e con po’ di fortuna nei posti giusti, e quella volta, di fortuna ne aveva avuta molta.

*

Erano passate alcune settimane, non mi aveva ancora cacciato, aveva continuato a darmi cibo, seppur quello più misero, ma una volta mi diede persino della carne. Entrammo in una locanda, la temperatura all’interno era più alta per via delle persone che l’affollavano, perciò mi avvicinai di più all’uomo che adesso conoscevo come Simon. Ci sedemmo a un tavolo, puzzava di vino e birra che vi si era versato le sere precedenti e che il legno aveva assorbito. Simon ordinò, anche se non sentii cosa, dato che cercavo di ascoltare ciò che veniva detto intorno; la donna ci portò due piatti, sgranai gli occhi quando vidi della carne: era tagliata in pezzi con delle patate lesse a fianco; mi fiondai velocemente sul cibo a testa bassa. Mentre mangiavo, Simon mi afferrò per i capelli, costringendomi ad alzare la testa, avevo le guance piene di cibo e le sentii diventare calde, provai a ingurgitare e soffocai i colpi di tosse.

«Vedi quell’uomo laggiù?» Chiese Simon, annuii.

«Che lavoro fa?»

Rimasi in silenzio.

«Ti ho fatto una domanda.» Disse liberandomi il capo.

«No lo so…» Sussurrai con un filo di voce guardando per terra.

«Certo che non lo sai ma almeno apri gli occhi, diamine!»

Guardai di nuovo l’uomo, rimasi in silenzio.

«Che cosa indossa?»

Dopo alcuni secondi di esitazione risposi: «Una camicia, dei pantaloni marroni e degli stivali»

«Grazie, ma lo sapevo già che avessi gli occhi. Cos’ha al collo?»

«Una pelliccia»

«Di tasso, sì, gli altri vestiti come sono, pregiati o miseri?»

«Miseri»

«Se si potesse permettere una pelliccia si permetterebbe anche abiti migliori, no? E se l’avesse rubata non la indosserebbe, ma l’avrebbe venduta. E allora, che lavoro fa?»

«Il cacciatore?»

«Allora non sei completamente stupido.» Disse mentre mi riporgeva il piatto, stavolta mangiai più lentamente quella carne stopposa. Mi sdraiai per terra ai piedi della porta dove Simon mi aveva detto di dormire da qualche settimana, lui si era già addormentato, il suo letto era molto spoglio ma abbastanza confortevole, me lo ricordavo da quando qualche settimana prima ero svenuto e mi aveva accolto in casa sua, non so perché mi permise di dormire lì.

Passarono le settimane e facemmo più volte quel gioco, divenni abbastanza bravo. «Vai lì e vomita». «Cosa?» replicai istintivamente, quando mi aveva indicato un punto della piazza, per poi pentirmene subito dopo per lo sguardo iracondo che ricevetti; non volevo essere cacciato, non ero mai stato trattato così in tutta la mia vita, gli ero grato per avermi accolto in casa sua, era logico che non avrei dovuto replicare. Non avevo mai vomitato di proposito, spesso avevo vomitato per il dolore, ma mai di proposito. Vomitai, non seppi neanche come, gli occhi mi lacrimavano violentemente e non sembravano intendere fermarsi, lo stomaco mi faceva male e sentii la gola in preda agli acidi. Alzai lievemente lo sguardo, tuttavia offuscato da lacrime, avevo gli occhi addosso, la piazza era affollata e le persone che prima mi passavano a fianco allora si allontanarono, formando una sorta di cerchio e altre persone, non vedendo cosa succedeva, cercarono di sbirciarci attraverso.

Vidi Simon in mezzo alla folla. Non mangiavo da due giorni anche se lui sì, probabilmente già sapeva che quel giorno mi avrebbe fatto vomitare, in questi giorni mi aveva dato solo dell’acqua. Guardai il mio vomito, non vi era nessun pezzo solido, esclusivamente acido. Il mio corpo non resse oltre e svenni. Mi svegliai sul pavimento della casa, vidi Simon che mangiava, mi lanciò una coscia di pollo che però non riuscii ad afferrare, dissi grazie, e mangiai. Avevo paura, non volevo che si arrabbiasse, però la curiosità era troppo forte. «Perché mi hai detto di vomitare?» la sua unica risposta fu di rimanere in silenzio mentre tirò fuori da un cassetto due borsellini e dopo aver ingoiato disse «Ti ho usato come diversivo, hai attirato l’attenzione mentre ho preso i borsellini di due stolti.» continuò a

mangiare e una volta finito disse:«Domenica andrai in piazza della giustizia, durante le impiccagioni.

Se devi tornare senza un portamonete, fai prima a non tornare affatto.» il suo tuono di voce era completamente piatto, tranquillo.

«Se vengo preso dalle guardie o se qualcuno se ne accorge?»

«Se vieni preso dalle guardie sarai appeso domenica prossima, se qualcuno se ne accorge, corri e dormi fuori da qualche parte». Mi svegliai, Simon dormiva ancora, non volevo svegliarlo, appena si svegliava era sempre di cattivo umore.

Le persone urlano, si esaltano, insultano e lanciano verdura e frutta marcia sopra il patibolo su cui erano posizionati sei individui con una corda al collo. Non era la prima volta che assistevo a un’impiccagione, anzi, era comune per gli orfani venire qui per rubare la frutta e la verdura marcia in stato migliore o per chiedere la carità. Spesso avevo fatto risse con altri orfani per prendere qualche punto della piazza. Sul patibolo c’era un uomo dal fisico tarchiato e grassoccio, con una folta barba rossa e i capelli lunghi fino alle spalle; il secondo aveva un aspetto massiccio e forte, aveva uno sguardo fiero, come se non rimpiangesse ciò che aveva fatto o di essere qui; il terzo era magro e asiatico, continuai a fissarlo a lungo. Era molto raro vedere stranieri; la quarta era una donna, aveva

i capelli di un biondo scuro ed estremamente lunghi, anche lei come il secondo uomo aveva uno sguardo fisso; la quinta era anch’essa asiatica, non avevo mai visto persone di altre razze e probabilmente non ne avrei viste mai più; cercai di imprimere nella memoria i loro volti. Il sesto aveva un barile sotto i piedi, era un bambino, avrà avuto pochi anni più di me, piangeva in silenzio, il suo volto era imperturbabile e statico, ma i suoi occhi non smettevano di lacrimare e riflettere paura. Sarei stato anche io lì se Simon non mi avesse preso con sé? Sarei stato lì la settimana prossima? Una guardia in alta uniforme si mise sul lato del soppalco:«Robert Wilson, dichiarato colpevole di pirateria sulla nave Kelsye. Ahimè Padilla, dichiarato colpevole dell’omicidio del nobile Antoine le Grand e di molteplici ignoti. Dalai Gou, dichiarato colpevole di contrabbando ed evasione fiscale, complice

di Akame Wang. Rose Harris, dichiarata colpevole di furto in abitazione di nobili e molteplici ignoti. Akame Wang, dichiarata colpevole di contrabbando ed evasione fiscale, complice di Dalai Gou. Tobias, dichiarato colpevole di furti minori di molteplici ignoti. Per i crimini da loro commessi, sono condannati a morte sotto la giurisdizione del Regno di Sifro, tramite impiccagione.» sentenziò.

Un’altra guardia tagliò la corda, erano appesi. Le persone esultavano, gridavano e lanciavano gli ortaggi marci contro i corpi colpiti dagli spasmi.

Avevo paura, tremavo ma non volevo che Simon mi cacciasse, o peggio, mi guardasse con disprezzo. Mi guardai intorno, chi avrei dovuto derubare? Derubare qualcuno di ricco? Ma erano tutti accompagnati da guardie del corpo o da altri nobili a discutere di affari, mi avrebbero scoperto subito. Dovevo sbrigarmi o le persone se ne sarebbero andate dalla piazza e non avrei più avuto un diversivo: se persino Simon ne aveva avuto bisogno, come avrei potuto non averne bisogno io? Qualcuno di povero non avrebbe neanche avuto un portamonete, la cosa migliore era derubare qualcuno che si trovava nel mezzo, ma chi? Mi guardai intorno, cercai di comprendere i dettagli di quelle persone come mi aveva insegnato Simon; vidi un uomo, aveva la camicia leggermente sporca di sangue, la

carnagione molto abbronzata e segnata dalle macchie del cancro della pelle, probabilmente era un pescatore; erano le dodici, e se avevo ragione, a quell’ora avrebbe già venduto il pescato e avere dei soldi. Iniziai ad avvicinarmi, a due metri da lui, feci un respiro profondo e trattenni il fiato, sperando in questo modo di passare il più inosservato possibile. Ero sempre riuscito a nascondere la mia presenza, spesso le persone non si accorgevano di me, ero a un metro da lui, avevo visto che aveva delle tasche sui pantaloni, sta lanciando gli ultimi ortaggi marci sugli impiccati, mentre mi avvicinavo

allora mi accorsi che stava lanciando con la mano sinistra, e che quindi probabilmente era mancino,mi spostai sull’altro lato sperando di avere ragione a credere che i soldi fossero lì. Infilai la mano nella tasca, sentii qualcosa con la mano, l’afferrai e iniziai a camminare; non avevo neanche il coraggio di guardare cosa avevo in mano, ma la infilai sotto la casacca, così rovinata che non meritava di essere chiamata tale, ancora sporca di vomito.

Mi accasciai contro un vicolo, nei dintorni non c’erano persone, infilai la mano sotto la casacca e tirai fuori ciò che avevo rubato, era un portamonete. Lacrime calde mi solcarono le guance per il sollievo e iniziai a ridere, da quando non sentivo il suono della mia risata? Non ricordavo neanche di esserne capace. «Non è stato poi così male», sussurrai verso me stesso calmandomi e smettendo di ridere.

Passarono le settimane e ogni domenica andavo a rubare e consegnavo i borsellini a Simon, e ogni lunedì aspettavo la domenica successiva. Cercavo di cogliere qualche espressione nel suo volto; la prima volta che gli portai due borsellini, l’unica cosa che mi disse fu solo: «Non rubare due volte di fila nello stesso posto». Rimasi un po’ male, speravo che mi dicesse qualcosa, speravo mi dicesse che ero stato bravo, che mi desse la sua approvazione, ma non lo fece. Un’altra volta derubai un nobile, Simon sgranò gli occhi mentre gli porgevo il borsellino, osservandone l’ottima fattura, lo prese, lo osservò, poi alzò lo sguardo su di me, lo riabbassò di nuovo. «Come… Dove…» Rimase in silenzio.

Andò a sedersi continuando ad osservare il borsellino «Ci farai impiccare; tutti e due, finiremo

impiccati» Farfuglio tra sé, probabilmente solo per sbaglio a voce alta. Neanche allora ottenni la sua approvazione. Passarono le settimane, passarono i mesi. A volte Simon mi diceva che quella domenica non sarei dovuto andare in piazza della giustizia, e ci rimanevo male, e lui lo vedeva.

Simon mi tirò qualche calcio per svegliarmi, «Svegliati, dobbiamo uscire» Camminavamo in silenzio quando Simon disse «Ma quanti anni hai?»

«Non lo so, sette forse» dissi con un filo di voce

«Conosci il mese in cui sei nato?»

«No»

«Allora diciamo che sei nato il primo d’aprile.» sentenziò con un ghigno. Arrivammo dopo un po’ davanti a un edificio; entrando era illuminato e c’era una signora sulla quarantina ad aspettarci. «E’ questo il bambino» disse Simon. La donna gli allungò un sacchetto che

produceva un rumore metallico, monete probabilmente, e allora mi prese per la spalla. «Niente di personale, non sei il primo e ti assicuro che non sarai l’ultimo bambino che venderò a questo bordello» disse allora rivolto a me, e poi esordì la donna:« sempre un piacere fare affari con te» chiaramente più che per educazione, che per sincerità. Simon alzò il cappello in segno di saluto e se ne andò. La donna iniziò a condurmi attraverso un corridoio, prese in mano un mazzo di chiavi ed aprì una porta, mi spinse dentro e sentii richiudere a chiave la porta dietro di me. La stanza non aveva nessun mobile, in alto vi erano delle finestre strette e coperte da delle grate, non era piccola, anzi era molto ampia e puzzava di urina, era completamente vuota, a parte per una quindicina di bambini, uno dei più grandi mi guardò e mi disse:«Quando la padrona ti chiama devi uscire, il suo nome è Janette».

*

Le settimane sulla nave passarono lente e placide, lavorando, mangiando la propria reazione e dormendo; talvolta riuscendo a evitare per un po’ i propri doveri, nascondendosi in qualche angolo della nave se non era già occupato da qualcun altro, con le stesse intenzioni in solitudine o in compagnia. Erano approdati a Buldrof, nel porto di Zenia, la nave sarebbe ripartita dopo due giorni, anche se, probabilmente, Ezri non sarebbe ripartito con lei. Avrebbe voluto poter pensare che gli dispiaceva lasciare la nave, o le persone che vi erano a bordo, ma di fatto, su quella nave era stato un fantasma, e dopo due giorni la nave sarebbe ripartita, ed essa non aspettava nessuno, ma le persone

sì, andando in giro per la città a cercare i propri compagni, amici, amanti, ma nessuno si preoccupa o si ricorda di un fantasma, ed era stato questo il suo obiettivo fin dall’inizio. Stavolta il capitano non elargì nessun soldo, e iniziarono quindi dei giri di prestiti come al solito; Ezri aveva i propri risparmi, avrebbe potuto chiedere un prestito dato che non avrebbe avuto l’occasione di ripagarlo, ma non aveva voglia di fare torti.

Era domenica, sicuramente le impiccagioni non erano ancora state fatte dato che era troppo presto, iniziò quindi a guardarsi intorno mentre si incamminava verso Piazza della Giustizia. Una volta arrivato, mancavano pochi minuti, e la gente cominciava ad arrivare. Una guardia iniziò ad elencare i crimini commessi dai quattro individui con la corda al collo, allora Ezri sentì una leggera pressione sul fianco, si girò per guardare chi dovesse passare, ma alla sua destra c’era solo una bambina con la mano nella sua tasca, la afferrò per il polso e si guardò intorno per controllare se le guardie guardavano in quella direzione, non vide nessuno, posò di nuovo lo sguardo sulla bambina: era terrorizzata e sembrava che non riuscisse a muoversi dalla paura; continuando a tenerla stretta per

il polso, si prese dalla tasca una moneta d’argento e gliela mise in mano, per poi lasciarle il polso, accennando un sorriso per tranquillizzarla, come quello che i bambini più grandi rivolgevano ai più piccoli nel bordello. La bambina iniziò a correre ed Ezri da lontano la seguì, dopo alcune ore constatò che non era associata a Simon, probabilmente, e se ne andò in giro per la città. Erano passati anni, di sicuro Janette non l’avrebbe riconosciuto, eppure, davanti a quell’edificio, sentiva il bisogno di vomitare, tutto ciò gli dava un senso di disgusto e brividi. All’interno c’era la donna, più vecchia di quanto ricordasse

«Buonasera signore, ha il nome di un bambino in particolare, o ha in mente quanto desidera spendere?»

«I soldi non sono un problema»

Janette si mostrò scettica riguardo alla risposta di Ezri, ma continuò:«Allora spero che trenta argenti non siano un problema».

In risposta Ezri mise quanto chiesto sul bancone, e se la donna ne fosse stata sorpresa, non lo diede a vedere.

«Per favore, aspetti qui un minuto». E si incamminò verso il corridoio sparendo dalla vista, ma Ezri sapeva che stava andando a prendere un bambino per portarlo in una stanza singola. «Prego, mi segua», lo condusse attraverso il corridoio, fermandosi davanti a una porta che aumentò il suo senso di disgusto mentre cercava di sotterrare ulteriormente i suoi ricordi, che però continuavano a straripare. «Tornerò tra un’ora» disse la donna che, con ciò, se ne andò. Quando Ezri aprì la porta, dovette trattenere le lacrime avendo davanti una bambina di al massimo sei anni e i capelli rossi che le avevano pregiudicato il fato, probabilmente rapita o venduta dalla propria famiglia. Aveva gli occhi fissi per terra pieni di terrore, e sapendo che era lui la fonte del suo terrore provava ribrezzo verso se

stesso, verso quel luogo, verso Simon. Ezri si sedette contro la porta a gambe incrociate, il più lontano possibile dalla bambina e le braccia distese sulle gambe con i palmi verso l’alto

«Non intendo farti del male, te lo giuro sulla mia vita».

Dicendo ciò, aveva quasi l’istinto di ridere: quanto poco valeva la sua vita? Eppure la bambina non lo sapeva, quindi andava bene così.

«Voglio farti solo qualche domanda, non voglio toccarti», il tono della sua voce era fermo, ma basso per non farsi sentire da Janette; la bambina lo fissava con occhi languidi, in silenzio.

«Come ti chiami?» dopo un lungo silenzio la bambina rispose:«Kerstine». La sua voce era spezzata, le guance segnate dal pianto.

«Chi ti ha portata qui?»

«Non lo so, non ricordo niente prima di qui»

«Sai come sono arrivati qui gli altri bambini?»

Ovviamente no, era tra i piccoli, di solito loro non parlavano del passato, se nulla era cambiato da quando lui era lì. Fece allora un ultimo tentativo:«Il nome Simon ti suona familiare?». La bambina scosse timidamente la testa; sapeva che non sarebbe stato facile, che avrebbe dovuto fare più tentativi, eppure, si infastidì comunque. «Non ti toccherò, fai quello che vuoi io resterò qui ancora per un po’».

Con ciò chiuse gli occhi appoggiando la testa contro la porta, rimanendo nella stessa posizione, riposandosi in parte e cercando di farsi vedere vulnerabile dalla bambina, dall’altra cercando di farla sentire al sicuro, per quanto fosse possibile. Passarono cinquanta minuti.

«Sai piangere per finta?»

La bambina lo fissò e basta, senza dire niente.

«Scusa»

Ezri si avvicinò a lei, le tirò uno schiaffo; ovviamente non aveva usato tutta la sua forza, ma era sufficiente per esser più che certi che si sarebbe messa a piangere. Con ciò tornò a sedersi a terra, mentre la bambina piangeva in silenzio. Dopo pochi minuti Janette bussò alla porta, e dopo qualchedecina di secondi entrò, Ezri uscì dalla porta, nel modo che aveva visto fare decine di volte durante la sua infanzia. Il sapore di bile continuava a bucargli la gola: si riversò nelle strade, cercando di mettere a tacere la propria mente, la voce nella testa che tentava di instillare il senso di colpa, la voce che molte volte c’era riuscita.

La sera dopo tornò di nuovo, disse che avrebbe preferito qualcuno di più grande, il prezzo

diminuì come prevedibile, e ciò contribuì al suo disgusto. Ebbe davanti un ragazzino sui dodici anni circa, appariva meno provato della bambina del giorno prima, e ciò gli fece pena, sapeva bene che non era per abitudine, non ci si abituava mai, ma crescendo si imparava a fingere. Si sedette nuovamente a terra, il ragazzo apparve lievemente sorpreso, rifece le stesse domande.

«Intendi un uomo grosso, calvo?»

«Sì» rispose solamente Ezri.

«E’ lui che mi ha portato qui»

«Sai dirmi dove si potrebbe trovare adesso?»

Il ragazzo gli diede le informazioni di tre anni prima, sperando che non si fosse spostato, anche il ragazzo si sedette aspettando. Dopo che un’ora fu quasi passata, il ragazzo chiese:«Perché vuoi sapere dove si trova Simon?» Non rispose subito.

«Per ucciderlo», il ragazzo sorrise.

Ezri camminava, camminava con un vuoto che lo divorava a partire dallo stomaco fino al sapore di bile in bocca; erano nove anni che si chiedeva come si sarebbe sentito in questo momento, e adesso semplicemente non sentiva niente. Si girava la daga corta tra le mani, passò il dito sulla daga, il sangue scarlatto gocciolò per terra, come per controllare se fosse ancora vivo, se fosse possibile esserlo e provare un vuoto così grande, o forse è meglio dire non-provare.

«Chi sei?» Ringhiò Simon, portando la mano al suo pugnale, ma senza estrarlo.

«Non mi riconosci, Simon?» Rispose scostandosi dal muro su cui era riverso, continuando a girare la daga tra le mani con disinvoltura. Dopo qualche secondo di riflessione Simon esordì con:

«Ah! Sei quel bambino che rubava troppo, qual era il tuo nome? Vieni ti verso un bicchiere», con tono volutamente compiacente.

«Il fatto che io abbia un pugnale in mano, non ti dice niente?»

«Mi dice che se non la smetti morirai e io non ho voglia di sporcare il mio pavimento.» disse con la stessa voce allegra di prima.

«Hai mai avuto anche solo un minimo senso di colpa?

«Non vedo perché dovrei, è stata Janette a darvi da mangiare, senza di me e lei sareste morti di fame molto prima» Disse Simon, abbandonando completamente il suo tono allegro.

«Certo, mentre ci vendeva come merce: grazie, ma avrei preferito morire molto prima» disse, fermando la daga tra le mani.

«Se non porti il culo via da qui, il tuo desiderio verrà esaudito.» A ciò segui un silenzio, Ezri stava pensando a quel ragazzo, pensava alla piccola Kerstine, pensava a sé stesso.

Simon fece uno slancio in avanti verso Ezri, mentre quest’ultimo scivolò di lato, e sfruttando la rotazione del braccio mirò alla schiena di Simon, che però si girò in tempo per deviare la daga, che lo colpì di striscio sul fianco destro. L’affondo deviato sbilanciò Ezri, che fu costretto a buttarsi a terra per evitare un colpo in pieno petto, che però gli provocò un taglio sul braccio sinistro, da quella posizione sfavorevole, colpì Simon al tendine di Achille e lo fece istintivamente allontanare, permettendo ad Ezri di rialzarsi. Il taglio sul braccio bruciava, e la sensazione del sangue copioso e caldo che gli impregnava il braccio e la camicia era sgradevole, ma il dolore sopportabile, seppure la ferita non fosse superficiale, e in un certo senso colmava il vuoto che sentiva. Stavolta fu Ezri che

avanzò per fare un affondo, con il quale Simon subì un taglio profondo sulla vita, altrimenti diretto allo stomaco. Ezri stava perdendo la sensibilità al braccio, aveva perso del sangue, ma anche Simon non era messo meglio, e quest’ultimo riuscì a ferirlo sulla coscia, il che gli strappo un gemito. Con un ultimo slancio Ezri, afferrando la daga con entrambe le mani, la conficcò di peso nel petto di Simon, che non potè evitare il colpo per via della ferita alla caviglia: i suoi occhi si sbarrarono ed entrambi si accasciarono contro il muro; non ebbe la forza di estrarre il pugnale, e dati gli occhi vacui non se ne preoccupò, si lasciò cadere all’indietro e rimase sdraiato sul pavimento. In quel momento, se ne

avesse avuto le forze, avrebbe iniziato a ridere, il dolore dato dal ghignare lo fece rigirare sul fianco e si tenne lo stomaco con il braccio buono. Aveva agognato questo momento, uccidere Simon per così tanto tempo, eppure adesso non provava euforia, non era felice di averlo ucciso, ne era indifferente, al contrario era molto più disgustato all’idea di morire a fianco a lui, ma niente poteva rovinare l’euforia di morire. Aveva agognato la morte per lungo tempo, o meglio, temeva la morte, desiderava scomparire, e la morte è ciò che si più si avvicinava all’oblio. Una vita così squallida non meritava di essere vissuta. Rise, per quanto gli fosse possibile, era felice, l’unico peccato di quel meraviglioso momento, era che mentre moriva non poteva osservare il cielo.