I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2023 – Giochi da ragazzi, Corrado dal Maso_Roma

Anno 2023, tema: La primavera

In fondo lui che restava, un ragazzino, oramai era l’uomo di casa, così il padre prima di partire per la guerra  –un gioco da ragazzi aveva detto, con uno strano sorriso sghembo-  gli aveva raccomandato, guardandolo dritto negli occhi: “Attento, Arek, alla fattoria, alle bestie, alla mamma … , ma soprattutto attento alle formiche. A primavera ricompariranno, andranno dovunque, e si mangeranno tutto il legno delle porte”. Era l’inizio dell’inverno, e da allora non era più tornato.

Ma la primavera sì.

Implacabili, improvvisi, i missili le granate le bombe, continuavano a cadere come prima, ma almeno dopo la neve il freddo il buio, ora finalmente c’era il sole, e i fiori tra l’erba, e l’erba sui prati, fresca, grassa, bagnata di rugiada; il cinguettio dei passeri, fremente di vita; le galline, bisbetiche, che riprendevano ad inseguirsi nell’aia, elettrizzate dalla luce nuova del giorno, e tutti gli altri pochi animali rimasti, il maiale, la scrofa già incinta, le caprette, la mucca per il latte. E, pure, un cane. L’aveva trovato abbandonato nella neve qualche mese prima; un piccolo bastardo, già tignoso allora, cresciuto cattivo poi, che lui chiamava Vladimir.

Arek e Vladimir sembravano fatti l’uno per l’altro. In qualche modo coetanei, soli com’erano, giocavano tutto il tempo anch’essi i loro giochi da ragazzi, in quella primavera di sole e di sangue. Correvano e ruzzolavano nei campi, godendo per il tepore che c’era nell’aria come per una cosa smarrita un tempo e ritrovata all’improvviso: in una pietra calda, nell’attimo di afferrarla per farne un proiettile da lanciare contro una bottiglia abbandonata, o nella lamiera schiantata e rugginosa, ma cocente di sole, mentre si arrampicavano tra i cingoli accartocciati di un tank cui le intemperie invernali sembravano aver nociuto quanto il drone che lo aveva fulminato sulla strada.

Felici, feroci, cacciavano gli uccelli, o i topi; il cane soprattutto, con un’abilità tutta sua riusciva a catturarne uno come fosse un gatto, e tornava ghermendolo tra le zanne, con la testa ritta, tutto fiero di sé, fino a che Arek non glielo toglieva con la forza e si metteva a sezionalo col temperino che aveva sempre appresso, tra i guaiti di invidia di Vladimir. Allo stesso modo si litigavano le lucertole, cosicché ad ognuno dei due ben presto restava solo un moncone dell’animale, verdastro, e rosso di sangue, con due zampe per parte, frementi e disperate, che ancora cercavano di fuggire, come se l’istinto di sopravvivenza fosse sopravvissuto alla vita stessa. Poi Arek si metteva a cavalcioni sopra Treka, la capra più grossa, spronandola per farla correre mentre Vladimir la azzannava da dietro per una zampa per trattenerla, e andavano in tondo attorno al pozzo in una giostra grottesca.

Fu proprio Vladimir, come sapesse della missione del suo piccolo padrone e compagno d’armi, a scoprire le formiche. Avevano fatto un nido enorme tra alcuni bassi cespugli vicino alla casa; alcuni buchi seminascosti tra l’erba pingue e la terra umida e granulosa, madre anche per loro, dai quali sciamavano, brulicando operose in gruppi nei pressi del loro fortino. Pareva un’adunata di plotoni che si apprestavano per una spedizione, a caccia di ognichè potessero trasportare nel loro covo e stivare, sbranato e ridotto in poltiglia, nei tunnel sotterranei già predisposti per l’inverno; tanto simili poi a quelli della metropolitana in cui si erano rifugiati gli esseri umani per resistere al freddo e ai missili.

Il cane  addentò lo stivale di gomma del ragazzo e lo strattonò fino al nido degli insetti. Arek si calò un poco, con le mani sulle gambe ed il cane di fianco, ansioso complice, e osservò a lungo, come ipnotizzato, il fervore della vita. Sul volto gli si era tagliato un ghigno e, allo stesso modo del cane, aveva i denti in mostra, e forse il palato umido, quasi pregustasse una preda.

Non era curiosità la sua.

E men che mai si stava domandando se la terra fosse dell’uomo o delle formiche.

Stava solo programmando il massacro. Animato da quell’indole spietata a cui il genere umano ha formato nei millenni, e plasmato per lo scempio, bambini crudeli, cacciatori rapaci, feroci soldati. Per riflesso innato, dunque, più che per la consegna ricevuta.

Avrebbe potuto semplicemente utilizzare uno spray velenoso, pensava. Oppure, con più gusto, affogare tutte le formiche inondandole d’acqua con la pompa, e restare a guardare i corpicini dibattersi frenetici e impotenti prima di soccombere. Ovvero, impartire loro una morte rapida e magnifica, incendiando quel minuscolo quarto di mondo dopo averlo cosparso di benzina, e già si vedeva danzare, e agitare la tanica tutt’intorno e una torcia fiammeggiante, come fosse uno sciamano.

Invece gli venne un’altra idea. Quasi un preliminare. Qualcosa che, senza neppure escludere successive soluzioni, finali ma ovvie, come l’acqua, o il fuoco, aveva in sé un che di ancora più scenografico e selvaggio. Qualcosa, forse, capace pure di saziare qualche po’ del senso di violenza assimilata in quel lungo tempo di guerra.

Così, seguito dal cane che ringhiava interdetto, si allontanò verso la stalla, dove si mise a frugare tra gli attrezzi, e alla fine trovò quello che cercava.

La frusta.

Prima della guerra il padre la usava con i cavalli, che allora erano ancora vivi; e con quella a volte lo minacciava, anche se con lui non l’aveva mai usata, perché lo picchiava col bastone. Senza sapere poi che al bastone il figlio oramai ci era abituato, mentre era la frusta a terrorizzarlo, e sarebbe stata ben più efficace per raddrizzargli la schiena, come il padre gli urlava dietro mentre lo inseguiva. Per questo Arek la prese con circospezione e se la rigirò tra le mani, affascinato.

Ora l’avrebbe usata lui.

Uscì brusco e tornò verso il formicaio, seguito da Vladimir che ansimava contento. Trovò che le formiche, come per un comando misterioso, si erano messe in colonna e sembravano dirigersi verso la casa. Lui gli si puntò davanti a gambe larghe, enorme baluardo, brandendo il cuoio della frusta, che pareva fremere nella sua mano, e menò il primo fendente …. svisccc … sulla colonna. La colpì in pieno, sferzandola, e con quella il terreno, e poi colpì ancora e ancora: tutto il mondo delle formiche cominciò a schizzare impazzito, come per un cataclisma, terra, erba, insetti, mentre quelle che scampavano, terrorizzate, tentavano di disperdersi.

Arek, compiaciuto degli effetti della carneficina che aveva cominciato e del suo potere di carnefice, si fermò, e per la prima volta nella sua vita si sentì grande: le avrebbe sterminate.

Attorno, c’era un strano silenzio, sospeso.

Attimi forse, o un tempo infinito.

Poi, all’improvviso, …. svisccc …, un sibilo, lungo, che crebbe rapido e potente come fosse una delle sciabolate del suo scudiscio: mentre Vladimir abbaiava furioso Arek per istinto alzò lo sguardo e vide il colpo che arrivava. E poi null’altro.

Il missile esplose, e schizzò dappertutto, in brani e poltiglia, la casa, l’aia, gli animali; e con questi Arek, Vladimir, e tutto quell’altro mondo attorno, ben più grande del formicaio.

Ma pur sempre minuscolo. Come il missile stesso, in fondo, null’altro che un baleno nella Storia, in quella primavera di giochi da ragazzi.