I racconti del Premio Energheia Europa

Viktor e la passeggiata, Saša Srakar

Vincitore Premio Energheia Slovenia 2023

è finito il pane. Sto in piedi a guardare la cesta vuota e penso Stasera c’è la premiazione,  penso Chiunque si sarebbe accorto prima che non c’è pane e penso Vorrei andare a casa, ma ignoro quest’ultima idea, non ha senso, è solo un pensiero in fondo al cranio che ogni tanto rimbalza e riecheggia nella testa, ma poi va meglio. Semmai, a casa ci sto troppo…e sarebbe ora di lavare le finestre, fra l’altro; ma lo farò domani, domani.

Prendo le scarpe, quelle vecchie, che mi stringono meno e penso Alla premiazione non devo dimenticare di sorridere, l’ultima volta la foto è venuta deprimente. Mi chiederanno cosa significa il titolo, alzerò le sopracciglia in modo enigmatico e dirò Quello che preferite, l’arte si rivela ad ognuno in modo diverso, sì, aspe’, è un buon verbo rivelare, riveste, rivestire, vorrei andare a casa, ok, e avanti. E mi chiederanno da dove prendo l’ispirazione, e questa è una domanda difficile, dirò Dalle passeggiate in mezzo alla natura e penserò ad un certo matrimonio negli anni ’80 dal quale, comunque, mi sono già ripreso tempo fa.

Vado, dimentico la borsa per la spesa, quella di tela, buona per l’ambiente, la dimentico ogni volta, bene, vado avanti, al panificio avranno delle borse, no? Vado, non mi guardo intorno, gli alberi sono alberi, niente di speciale. Le scarpe mi stringono, il matrimonio non fu poi così orribile, questo è il punto. Può darsi che sia stato bello, la musica, la torta e tutto il resto. Le foto sono belle. I colombi tubano sempre allo stesso modo. Non mi piace, mi angosciano, sono nostalgici, ognuno sta appollaiato su un albero o un camino o sui cavi della luce e non sanno cosa fare di sé stessi, non mi piacciono, sono troppo diversi da me, non riesco a empatizzare.

La campanella sulla porta del panificio è sempre la stessa già da decenni. I banconieri cambiano ogni due settimane, questa volta c’è una ragazza dal sorriso dolce, gli occhi stanchi, Cinque pagnotte per favore, dico, mi fanno male le spalle, mentre aspetto le muovo, provo a sciogliere la tensione, stasera devo essere come nuovo, gli altri poeti alla premiazione saranno più giovani, non avranno idea di quale cruccio sia camminare così, oppure, e sarebbe ancora peggio, lo intuirebbero e mi compatirebbero in silenzio. Povero vecchio Viktor, poverino, gli fa male la schiena ancora, gli stringono ancora le scarpe, signore, vuole sedersi? Pagnotte, sollecita la banconiera, pago, non faccio in tempo a voltarmi che la porta tintinna di nuovo, la vetusta campanella in genere non mi disturba, solo che stavolta mi giro e penso Campana a morto, perché sull’uscio c’è Renata, si guarda intorno e non mi vede, continua a non vedermi, voglio nascondermi, poi mi nota, esita prima che sul viso le compaia un sorriso. Saluta, Oh, da quanto tempo, come stai, come va con la scrittura, vai avanti?

Va, va, mi sforzo di sorridere. Non accenno al matrimonio, non mi ricordo nulla, però mi hanno mostrato le foto, Renata è più vecchia di lui, si vedono dei ciuffi grigi e non è molto elegante, sebbene gli abiti da ceremonia ai matrimoni siamo la norma, per quanto ne so. Trent’anni, aggiungo, perché lei probabilmente non tiene più il conto.

Sì, sì, trent’anni, conferma, distoglie lo sguardo. La ragazza ne approfitta, Cosa desidera, signora? Un chilo di pane bianco, per favore, grazie.

Guardo il pavimento.

Ho visto il giornale, non hai pubblicato un nuovo libro recentemente?

Non è niente di speciale, dichiaro, non ne vale la pena di leggerlo.

No, davvero, mi interessa…

Credimi. Cerco di fare in modo che non mi si legga in faccia quante mie poesie nominano la Marcia nuziale. Non leggerlo.

Mi guarda, annuisce. Tace.

E voi due invece? Finalmente prendo coraggio. Tu e Roman…come va?

Il viso di Renata si spegne, per un momento, un orribile, perfido momento, spero che dica è finita, ci siamo lasciati, statisticamente accade spesso…

Oh, Viktor, dice invece Renata e la sua voce, nell’aria stantia del panificio, risulta flebile. Mi sono dimenticata di chiamarti.

Le gocce di sudore per la camminata mi corrono ancora lungo la schiena, le scarpe stringono, vorrei andare a casa, afferro la borsa con le pagnotte. La ragazza quasi sgattaiola sotto il bancone. Come ha fatto a dimenticare, com’è possibile?

È morto tre anni fa, dice Renata quasi con tenerezza. Ha avuto un ictus, nessuno se lo aspettava, era in salute…

Le sue parole mi si confondono nella testa. Ictus, ripeto e sento il peso della parola sulla lingua.

Mi dispiace tanto di non averti chiamato, avrei dovuto…

No, no, va bene, dico o penso di dire, non ne sono sicuro, tutti i rumori, le ombre e le foto  si fondono l’uno con l’altro. Va bene, va bene.

Non so, mi sentivo molto…ero confusa, ho dovuto organizzare tutto…

Va bene, non preoccuparti, le mie condoglianze.

Renata si mette quasi a ridere, ma sembrano singhiozzi. Oh, Viktor, le mie condoglianze a te, sottolinea. So com’è andata fra voi due, so che…

Non è andata. Pronuncio le parole in modo sistematico, marcandole troppo, vorrei andare a casa, Signore, vuole sedersi? Le fanno male le gambe? A noi non è andata, è andata che lui amava te…solo che ho sempre pensato, non so, forse sperato, che sarebbe stato bello se magari ci fossimo rincontrati, se…se fossimo diventati di nuovo amici. Tutti e tre. Come prima.

Renata sorrise tristemente. Sì, annuisce, sarebbe stato bello.