L'angolo dello scrittore

Una canzone

racconto di Giorgio Fontana       www.giorgiofontana.com

Era un’estate meravigliosa. Il sole penetrava attraverso ogni cosa. Le mele sul tavolo della cucina erano bianche. Per un processo inverso, la luce prendeva come una tonalità di freschezza. Celebrava l’idea di ore colate con le mani sulla nuca, nei prati dell’università, a guardare i rami. Persino la periferia, dalla finestra di Roy, sembrava lo sciabordare di un’onda metropolitana che veniva da lontano, ma che non per questo aveva perso forza: persino lì, nelle ultime stanze di Brooklyn, c’era l’impressione che si potesse fare qualcosa di grandioso. Un paradosso appropriato, pensò Kit. Stava rimettendo i nastri nella borsa, e ogni tanto gettava qualche occhiata al tavolo e a Roy, entrambi inondati dal pomeriggio. L’intero appartamento era sul punto di trasfigurarsi.
Roy aveva acceso un’altra sigaretta e il suo sorriso sembrava non essersi mosso di un millimetro.
«L’assegno le verrà trasmesso nel giro di qualche settimana» disse Kit, fingendosi indaffarato.
«Non ti preoccupare.»
«Sa come sono i tempi con le università. Io ce l’ho messa tutta a farmi dare i fondi in anticipo, ma…»
«Non ti preoccupare» ripeté Roy. «Va bene così.»
«È che ci tenevo a dirglielo.»
«Certo.»
«Non avrebbe una sigaretta anche per me?»
«Non pensavo fumassi.»
«Ho smesso da tre mesi. Ma vedendo lei mi è venuta voglia.»
«Ho fumato troppo, vero?»
«No, no, non è questo.» Kit sorrise. «Mi è venuta voglia, ecco tutto.»
Roy gli gettò il pacchetto. Kit lo prese al volo. Era caldo. Era rimasto al sole per tutto il tempo. Tirò fuori una sigaretta e se la mise in bocca. Roy raccolse l’accendino per terra e glielo porse.
«Sembra di essere sull’altra costa, vero?» disse.
«Non ci sono mai stato» disse Kit.
«Davvero?»
«Mai. Nato in Canada, vissuto nel Vermont, studente a New York.»
«Rigoroso.»
«In un certo senso.»
«Be’, a me ricorda davvero certe estati di San Diego.»
«I tempi di Blind, no?»
Roy esplose in una risata un po’ fuori luogo. Tossì forte. «Ti ricordi tutto!», disse.
Kit alzò le spalle: «Ho un certo talento per i particolari.»
«San Diego, 1999. Esatto. Il mio terzo singolo. Cristo, bei tempi, quelli. Non facevo un cazzo tutto il giorno. Sai cosa vuol dire un cazzo? Non mi svegliavo neanche troppo tardi. Volevo approfittare delle belle giornate. Mi è sempre piaciuto il sole. Ecco perché in questa città sono triste. Tranne oggi, ovvio.» Spense la sigaretta nel posacenere, gettato a terra. La luce arrivava anche lì, rimbalzando sul linoleum, e attraversava il vetro esplodendo in migliaia di grani trasparenti. «Per le undici ero in piedi. Facevo una colazione leggera, un po’ di frutta, del latte. Cereali. Poi andavo in spiaggia. E nuotavo. E rimanevo lì sulla sabbia, a cuocermi. Più tardi prendevo una birra o due al chiosco, sotto le palme. E ogni tanto la radio mandava Blind. E io pensavo: che cazzo può esserci di meglio. Avere ventisei anni e stare da soli al fresco, in spiaggia, con una Miller e la tua voce che ti ritorna nelle orecchie.» La sua bocca si piegò improvvisamente verso il basso. «Va be’» disse.
Kit annuì. Aveva già sperimentato questo fatto: tutti gli artisti da lui intervistati tendevano ad accumulare aneddoti e ricordi anche quando il registratore era spento. Con Malcolm Bennet, il pittore, era rimasto su fino all’alba a parlare e bere Johnny Walker. Pensò che forse la gente si fidava di lui. Era sempre stato così, fin da quando era piccolo. Magari c’entrava col suo volto, con la squadratura del suo mento — c’era qualcosa che ispirava onestà, nel suo mento, e le persone tendevano naturalmente ad aprirsi, con lui, a raccontargli dei segreti.
Oppure, pensò, quella era gente che aveva solo bisogno di sfogarsi.

L’idea per la tesi gli era venuta qualche mese prima. Aveva parlato con il suo professore — un vecchio hippy mezzo rincoglionito — e aveva ottenuto l’approvazione, e un piccolo fondo spese, senza difficoltà. Questo gli aveva dato una sensazione di idiozia, come se tutta l’università americana fosse semplicemente un grosso gioco. Ma non era una sensazione spiacevole. Essere idioti in fondo non era male. E la sua idea stava nel giusto mezzo fra una banalità polverosa e qualcosa di brillante. Intervistare una serie di artisti falliti, con un’unica restrizione: che il motivo del loro fallimento fosse una donna.
Kit pensava che avrebbe avuto solo l’imbarazzo della scelta. Invece scoprì che i personaggi davvero adatti alla sua indagine erano sorprendentemente pochi. A malapena un paio per ogni campo artistico. O forse, rifletté, era soltanto colpa sua e della sua scarsa voglia di fare ricerca. Questo non gli impedì di sprofondare, col tempo, in un’autentica galleria di perdenti, per la più parte distrutti dalla bassezza della gente, dall’amore per lo scandalo e il pettegolezzo.
Malcolm Bennet, che aveva ritratto centinaia di volte la sua amante: scoperto dalla moglie (una vera volpe), e sconfessato dal suo agente. In miseria e alcolizzato.
Robert Dubois, di origine francese, attore. Si era innamorato della figlia di un politico, giù in Carolina. Minacciato da un paio di tizi in giacca e occhiali scuri (dinamiche non chiarite, vuoti nei nastri), ora insegnava in un piccolo liceo di provincia.
Eleanore Dwayer, una perla da non farsi sfuggire: cantante d’opera lesbica, dal nome bellissimo, rovinata da alcune foto scandalose e da una lunga collezione di barbiturici.
E gli altri.
In questo panorama, Roy Stone era un elemento singolare. Per questo Kit l’aveva relegato all’ultimo posto della lista. C’era qualcosa di strano e onesto nel modo in cui aveva varcato i cancelli dell’inferno. Non gli era successo nulla di grave. Non aveva mentito né era stato tradito né si era esposto al pubblico ludibrio. La sua storia era così semplice…

«Vuoi una birra?»
La voce apparve quasi fisicamente — quasi dotata di corpo e spazio, come un fumetto, come i fumetti che leggeva di notte nel campus — sopra la sua testa.
«Eh?» disse Kit, sbattendo le palpebre. Era rimasto come assente, la mano infilata nella borsa, la sigaretta ormai un cilindro ben composto di cenere, abbandonata su un lato, e la bocca riarsa.
«Una birra» ripeté Roy. «Ti va una birra?»
«Oh. Sì, certo. Grazie.»
«Ne prendo due, allora.»
«Grazie.»
«E di che.»

Kit riandò mentalmente ai nastri che aveva appena riposto. Nel 2001, durante l’incisione del suo secondo album, Roy aveva scritto una piccola ballata per chitarra acustica, The end of the word. Era dedicata alla sua ragazza, Jane, ma lei gli aveva proibito di includerla nell’album. Roy aveva spiegato che tutto il suo lavoro dopo il primo album era stato ispirato da Jane. Una sorta di sentimento di completezza l’aveva invaso, come se troppa felicità fosse di colpo irrespirabile, gli stesse dando alla testa: non riusciva nemmeno a dormire, senza di lei.
A Jane però la canzone non piaceva. La trovava troppo autentica, in un certo senso troppo fedele ai fatti. Disse che era come ritrovarsi nuda sulle tracce di un disco. Roy poteva capirla. Era una sensazione che provava spesso, ma quello per lui era lavoro: era anzi la sua vita: ci era abituato. Jane era una maestra d’asilo, quanto di più lontano si potesse immaginare dal mondo dei musicisti.
La storia finiva secondo copione. Roy decise di registrare la ballata — canzone numero dodici — e Jane lo lasciò. Sulle prime Kit era rimasto quasi scandalizzato da quella reazione, ma poi l’aveva accettata come un fatto naturale: dopotutto, era tipico materiale della sua indagine. Comunque, l’album di Roy non era ancora stato mixato. Lui tornò sui suoi passi e fece cancellare la canzone. Il suo produttore cominciò a innervosirsi. Chiamò Jane da Buffalo e le disse che The end of the word non esisteva più. Non c’era più niente. Scomparsa, svanita. Fine. Potevano tornare insieme. Ma Jane disse di no. L’album uscì e vendette pochissimo, come se si portasse dietro la maledizione di quella storia. E Roy, all’improvviso, smise. Si negò a tutti. Rescisse il contratto e perse centinaia di migliaia di dollari.
Si ritrovò catapultato a New York, da solo, senza più nessuno pronto a dargli retta, e senza più voglia alcuna di cantare.
Tutto. Così. Semplice.

«Adesso che fai?» gli chiese Roy porgendogli la birra.
«Non so. Pensavo di fare due passi a Manhattan e sbobinare l’intervista con calma, più tardi.» Guardò l’orologio. «Ho un appuntamento con un amico fra un paio d’ore» mentì. «Ristorante giapponese.»
«Buono.»
«Sì.»
«Ne mangiavo spesso, tempo fa.»
«Davvero?»
«Sì, sì. Il migliore. Ne andavo matto. Ora invece non mi va più.»
«Curioso.»
«I gusti cambiano. Cambia la vita, cambiano i gusti.»
«Già.»
Ci fu un attimo di silenzio.
«Magari puoi restare qui un altro po’» disse Roy. «Fare due chiacchiere, non so.»
«Non so» rispose Kit.
La luce si era ritirata appena verso la finestra. Kit prese un sorso di birra e chiuse la zip della borsa. Poi guardò fuori. Il cielo cominciava ad arrossarsi. Era così bella, quell’estate. Si sentì malinconico in un modo molto ragionevole, patinato, come gli era già capitato altre volte. Adesso quell’uomo gli dava fastidio.
«Non so» ripeté. «Mi sa che devo proprio andare.»
«Certo.»
«Davvero, è che ho quest’impegno.»
«Non ti preoccupare.»
Ancora un filo di silenzio.
«Ah, ma a proposito» disse Roy. «Tutto questo gran parlare, e non ti ho ancora fatto sentire The end of the word.»
Kit alzò le sopracciglia.
«Come?»
«La ballata. La canzone per Jane.»
«Ma… Credevo l’avesse cancellata.»
«Dall’album, sì. E da qualsiasi altro supporto. Non ne troveresti una copia nemmeno a pagarla oro.» Sorrise, si battè un pugno sulla tempia destra. «Ma non penserai che l’abbia cancellata dalla mia zucca.»
«Ma non avrà più voglia di cantarla» disse Kit.
«No» disse Roy pensieroso. «In realtà no. Ma talvolta lo faccio ancora. Per due motivi» spiegò. Alzò un pollice: «Primo, perché è utile ricordare i propri errori.» Alzò un indice: «Secondo, perché è una bella canzone.»
Poi sorrise e appoggiò la birra sul tavolo, e prese la chitarra che dormiva contro il muro. Kit ebbe voglia di dire che doveva assolutamente andare: non voleva che la storia di Roy continuasse. La sua ricerca era compiuta, i suoi doveri esauriti. Fosse stata la voce penosa di Malcolm Bennet, avrebbe accettato. Fossero state le lacrime chiocce della Dwayer, avrebbe accettato. Ma non per quell’uomo. Non poteva dire perché, ma non era disposto ad ascoltarlo più.

«Il mondo è una cosa bella e fragile» disse Roy accordando lo strumento. «E io canto la bellezza e la fragilità.»
«Okay» disse Kit.
«The end of the word. Un buon titolo, no?»
Kit si sforzò di sorridere. Voleva turarsi le orecchie come di fronte alle sirene. Pensò alla sua ragazza, su nel Vermont, e alla casa dei suoi, e ai gelati da mangiare in veranda, e al fresco buono degli abeti, e alle canne fumate di notte sul greto del fiume.
Di colpo, tutta la luce della stanza sembrava essere scomparsa dal buco della serratura, ai margini della finestra, e fuori verso la città, e poi l’oceano, come a bagnarsi gli atomi d’azzurro e scomparire lontano, ritirata all’improvviso da quel luogo che adesso era solo una stanza spoglia fuori Brooklyn, angolo cottura e linoleum, lo spazio dove un artista consumava la sua fine per un’idiozia, una delle tante fini e delle tante idiozie che attraversavano quella terra sconfinata e la sua anima bianca.
«La minore», disse semplicemente Roy, e iniziò a cantare.