I racconti del Premio letterario Energheia

Serra Marina, Agnese Ferri_Matera

Racconto vincitore Premio Energheia 2021_XXVII edizione 

 

Certe volte capitava che una ragazza italiana annoiata dalla piattezza con cui scorre il tempo da queste parti la maggior parte dei giorni si invaghisse di uno di noi. Dopo varie peripezie aveva inizio così una trafila di incontri furtivi fra i campi e nelle pinete dai quali i ragazzi rientravano alla Serra con un sorriso da orecchio a orecchio, spossati come dopo una grande abbuffata, salutavano il resto di noi e fra i risolini e le battute andavano a buttarsi sul materasso, dichiarando finita la giornata. Di solito queste tresche duravano un paio di settimane, un mese al massimo. Succedevano d’estate. L’inverno certe volte, nelle notti fredde, qualcuno ne riparlava per il tempo di pochi minuti nel mezzo di una conversazione che aveva tutt’altri argomenti, nello stesso modo in cui si avvicinano le mani intirizzite al calore di un falò.

Per Mimmo però fu diverso. Si era innamorato. Quando rientrava alla Serra pedalando sulla sua bici scalcagnata aveva una faccia cupa e seria e se qualcuno provava a lanciargli una battuta si infuriava di una rabbia ferina, soffiava, agitava le mani e inveiva nella sua lingua. Spariva dalla circolazione e non lo rivedevamo più fino al mattino dopo. Non veniva neanche a mangiare. Io gli tenevo da parte qualcosa che poi gli lasciavo vicino mentre dormiva. All’alba, quando ci svegliavamo, trovavo il piatto vuoto. Mimmo sorrideva solo a me. Si confidava solo con me. Per gli altri aveva solo frasi di circostanza.

A Serra Marina le biciclette hanno un’importanza cruciale. La bicicletta è l’unico collegamento fra la vita che facciamo qui e il resto del mondo. È ciò che ci salva dalle camminate infinite a bordo strada sotto al sole che picchia sulla nuca o sotto la pioggia battente, ci fa risparmiare tempo, ci permette di sentirci parte di un mondo che sotto tutti gli altri punti di vista ci respinge con tutte le sue forze. Ci salva dal camminare un piede davanti all’altro sul bordo di una strada sulla quale sfrecciano le automobili come macchie indistinte, con dentro persone delle quali non facciamo neanche in tempo a vedere la faccia che certe volte suonano il clacson per ricordarci di stare attenti, di non distrarci mentre camminiamo perché in un secondo potrebbero ammazzarci. Finiremmo sopra l’asfalto sbiadito come le tante carcasse di animali che vedo continuamente. Animali di ogni tipo e di ogni dimensione, volpi, gatti e certe volte perfino i cinghiali, o dei grossi cani, che all’improvviso perdono tutta la loro vitalità e diventano carogne molli come canovacci dentro grumi di sangue e peli, con gli intestini di fuori, in mezzo a nugoli di mosche, con gli pneumatici della auto che ci passano sopra ancora e ancora scavando solchi sempre più profondi al punto che delle carcasse non resta più niente se non la pelle appiattita, spalmata sulla carreggiata, una fettuccia di cuoio, finché la pioggia non lava via tutto. Tante volte mi sono messo a guardare questo tratto di strada. Un pezzo di Appia. Percorrendola dando le spalle al mare arriverei a Roma. Non ci penso, comunque. Lo so che a Roma non ci andrò mai. Do le spalle alla piccola chiesa bianca con la facciata dalla forma strana, sembra un ferro di cavallo rovesciato, è come se l’avesse disegnata un bambino. Mi siedo e guardo la strada. Le domeniche d’estate si riempie di macchine perché le persone dalla città vanno al mare. Oltre la striscia di asfalto ci sono i campi, dove lavoriamo noi. Certe volte vicino e altre ci vengono a prendere con un furgone e ci portano da un’altra parte. All’inizio guardavo fuori dal finestrino e cercavo di leggere i cartelli stradali per capire dove fossimo, poi ho smesso. Tanto, quando sto con la faccia più vicina alla terra che all’altezza di un cartello per tutto il giorno, non ha molto senso sapere dove mi trovo. I campi di pomodori sono uguali dappertutto, che sia qui vicino a Metaponto, o sulla Luna.

Una volta la ragazza di Mimmo si è presentata qui alla Serra. È stato quel giorno che ho capito che cosa Mimmo provasse per lei perché è saltato in piedi e le è corso incontro. Aveva il terrore che lei vedesse come viviamo. Dopo essere riuscito a sistemare la questione, la sera, quando si è steso sul materasso vicino al mio, mi ha detto che era quasi morto quando l’ha vista lì perché non vuole assolutamente che lei veda certe cose, perché una volta che le avrà viste non riuscirà mai più a togliersele dalla testa e anche quando avranno una vita insieme, una vita bella, lei penserà sempre a questo. Allora gli ho chiesto “E tu, allora?”, Mimmo ha alzato le spalle. “Io non importa. Sono abituato”.

Naturalmente Mimmo non si chiama Mimmo. Era il nome che si era dato per rendere le cose più facili agli italiani. Una volta che abbiamo discusso di questo, perché io gli ho detto che non era una cosa giusta non farsi chiamare con il nome che gli ha dato la madre, mi ha confidato che in realtà il vero motivo non era facilitare le cose a qualcun altro, ma facilitarle a sé stesso. “Se mi chiamano con un altro nome, mi sembra di credere di essere un’altra persona. Quando non farò più questa vita potrò dire a me stesso che tutto questo è successo a qualcun altro”.

Lei lo sa?

Che cosa?

Il tuo nome vero.

Sì, sì, certo. Lei lo sa.

Guardo la strada. Il sole mi tramonta di fronte. Quest’estate ha piovuto pochissimo e le cicale friniscono in continuazione. Certe volte mi stendo a terra e me ne sto con gli occhi chiusi finché il sole sparisce completamente. Allora c’è un momento di silenzio in cui le cicale non cantano più e dopo cominciano i grilli. Si danno il cambio. A volte mi addormento così. Certe sere, invece, fa così caldo che le cicale non smettono mai. Quando apro gli occhi il cielo è pieno di stelle, certe volte mi sembra che stiano per cadermi addosso.

Mimmo faceva altri lavoretti quando tornava dai campi. Diceva che gli servivano i soldi perché se ne voleva andare. Non so dove trovasse le forze. O forse lo so, ma non voglio credere che venissero da lì. Si era messo a girare nei dintorni della Serra e bussava alle ville o alle case coloniche e chiedeva se serviva una mano con qualcosa. Da pitturare, da curare i campi, una grondaia da sistemare. Siccome ci andava quando la giornata stava per finire si portava una torcia. Una volta sono passato con la bicicletta vicino a una casa e l’ho visto su un tetto con la torcia in bocca, che aggiustava qualcosa. La teneva con i denti.

È un fenomeno curioso osservare un uomo che si innamora. Somiglia un poco alle piante che crescono. Dalla mia vita osservavo la sua. Certe volte percepivo la sua felicità, l’euforia, perfino la tensione sessuale che cresceva e la quiete temporanea dopo averla lasciata sfogare. Altre volte invece vedevo lo sgomento, l’angoscia, il terrore di non farcela. E io oscillavo fra un meschino senso di invidia e il sollievo, quando lo vedevo abbattuto, di non avere niente di simile nella mia vita, di non avere niente a cui tenessi così tanto da restare ucciso dalla prospettiva di perderlo. Mi chiedevo dove andassero a fare l’amore. Non sarei rimasto stupito se avessi scoperto che in sella alla sua bicicletta Mimmo avesse battuto a tappeto tutto il circondario, percorrendo chilometri, magari, cigolando sulla sua bici in mezzo ai pini, alle auricarie, alle ginestre, agli oleandri, in cerca di un posto sufficientemente dignitoso per fare l’amore senza doversi sdraiare a terra a farsi pungere dal grano e dagli insetti, senza dover sprecare tempo prezioso a scacciare via le zanzare con la mano, a difendersi dalle formiche. Me li immaginavo in qualcosa che somigliava a un capanno degli attrezzi, immaginavo la penetrazione, sentivo il sangue ribollire di un calore che stavo dimenticando, si stava allontanando da me, non mi ricordavo più le carezze, non ricordavo più il corpo di una donna di cui si ha voglia di esplorare gli anfratti più bui senza la fregola arida di un incontro frettoloso durante il quale si fa quello che si è venuti a fare guardando da un’altra parte, toccando con le mani e figurarsi con l’immaginazione qualcosa di diverso da ciò che si stringe. Non riuscivo a immaginare i dettagli perché ne ero privo da troppo tempo, era come cercare di ricordare la voce di qualcuno che è morto da anni.

Perciò un giorno, forse non dovrei dirlo, mentre tornavo alla Serra sulla mia bicicletta li ho sentiti ridere e mi sono fermato. Era il tramonto. Io ero stanco, mi sentivo addosso la fatica dell’intera giornata, la ripetitività dei gesti che avevo compiuto per tutto il giorno con la schiena china sotto al sole. Invece dietro a quelle piante, poco più in là di quel tratto di Appia che sembrava essere stato dimenticato da Dio, qualcuno aveva ancora le forze per ridere; qualcuno aveva ancora un motivo per ridere. Era Mimmo con la ragazza. Mimmo col suo amore che gli levava la stanchezza. Mimmo che rideva e parlava bene l’italiano, con lei; dove l’aveva imparato così bene? Era questo che faceva la notte, quando si addormentava con delle cuffiette recuperate chissà dove nelle orecchie? Con cosa avevi imparato quell’italiano così bello, Mimmo? Con quali canzoni? Chi ti ha parlato di Lucio Dalla? È stata lei, la tua ragazza italiana? Ho frenato e sono rimasto sul ciglio della strada ad ascoltarli. Non avrei dovuto, ma l’ho fatto. Sapevo che era irrispettoso nei confronti del mio amico e sapevo anche che ne avrei sofferto perché io non avevo niente di simile. Ciononostante sono rimasto lì, con la bicicletta ancora inforcata, il gomito poggiato sul manubrio e l’orecchio teso. Loro ridevano e parlavano d’amore al di là della palizzata di fichi d’india, mentre il giorno finiva Mimmo non avvertiva più nessuna angoscia per i giorni che sarebbero seguiti.

Mimmo sulla sua bicicletta deve essersi distratto. Una macchina, una di quelle che non facciamo mai in tempo a vedere, lo ha preso in pieno. Era buio e non l’ha visto. Forse Mimmo si era dimenticato di collegare la dinamo per il faro, forse si era rotta, non lo so. L’automobilista però dice di non averlo visto, che ha sentito solo il rumore e inizialmente ha pensato fosse un cane. Se ne stava con le mani sulla bocca e si dondolava avanti e indietro, guardando la bicicletta di Mimmo che col telaio tutto storto era finita in un campo. Qualche tempo dopo una macchina rossa si era fermata davanti alla chiesa della Serra Marina e la ragazza di Mimmo è scesa e si è guardata intorno. Non sapeva bene cosa fare, io l’ho guardata da lontano e ho pensato che dovevo andare da lei e dirle qualcosa, poi mi sono ricordato che non conoscevo il vero nome di Mimmo e dovevo andare a chiederglielo. Ma è risalita in macchina ed è andata via prima che potessi avvicinarmi.

 

Penso a Mimmo anche stasera. Come tutte le sere, da un po’ di tempo a questa parte. Me ne vengo qua in spiaggia al tramonto, quando c’è ormai poca gente e gli stabilimenti chiudono. Dalla Serra Marina a qui saranno circa dieci chilometri, ma pedalare non mi pesa. Lo faccio volentieri. Vengo qui per ricordare Mimmo perché una volta ci siamo venuti insieme, qua al mare. Era marzo e l’acqua era ghiacciata ma ci siamo fatti lo stesso il bagno e lui mi ha detto “Ci pensi, a quanto sono diverse le cose su una riva da come lo sono sull’altra; eppure il mare è lo stesso. Non è strano?” Era stata una bella giornata quella. Tornando alla Serra avevamo pedalato fianco a fianco e avevamo parlato di molte cose. Non passava nessuno, stranamente. Quando stavo per addormentarmi, mi sono reso conto che mi faceva felice sentire il respiro del mio amico addormentato affianco a me.