I racconti del Premio Energheia Europa, Premio Energheia Europa

L’usignolo del sud, Penelope Tontou

Racconto finalista Premio Energheia Grecia 2024

Traduzione: Maria Chatzikyriakidou, a cura di: Franco M.T. Gatti

E dissi agli uccelli di cantare più piano per sentire la sua voce. E dissi alle sirene del sud di respirare più piano. Avevo le orecchie ben aperte eppure non avevo mai sentito altra voce più dolce, più familiare della sua. Come se il tempo avesse preso le grazie del cielo e nell’etere avesse plasmato la sua voce. Una vergine pura. E quando tanti esseri vaganti la sentirono, si fecero da parte e stupiti chiesero:

-Quale angelo ti ha esiliato nella terra degli uomini? Quale dea non ha sopportato la tua divina grazia? Oh tu, sorella, rispondici. Qual è il tuo nome?

-E se chiedi ai prati e alle pianure, se senti gli usignoli cantare dei ricordi dell’esilio, veleno più amaro del mio nome non si verserà da una puntura di spina.

E il suo nome: Penelope.

Sui sentieri di pietra battuti dalla tempesta dell’alba, in una modesta casetta, prese vita l’esistenza della figlia di Vanghelis. Bella fanciulla, ambita. Per la sua bellezza e per la sua grazia. Le diedero un nome legato alla pazienza. Eredità e peso eterno. Ma lei, come se avesse spalle da uomo, lo sollevava come uno stendardo e camminava insieme ad esso.

Appena nata, la prima cosa che toccò fu la terra. Per imparare a zappare, a scavare e a far fiorire su di essa come i mandorli che adornavano il loro cortile. Correva qua e là, lasciando svolazzare i suoi capelli al bagliore del cielo e poi abbracciava il mondo intero. Le sue gambe erano i suoi fratelli. La madre e il padre la sua gioia. E con questi sembrava diventare una bestia contro il flagello dei tempi, e resisteva. E andava avanti.

La loro casa era in alto, a Sant’Elia, il profeta. Una casa piccola, comunque comoda per i tempi. Il pavimento di legno, scricchiolava ad ogni passo, con il braciere nell’angolo e le poltrone disposte lontane l’una dall’altra. Che non mancasse comodità né a loro né ai passanti che attraversavano la loro casa.

-Buongiorno signor Vanghelis.

-Buongiorno Liakos.

Dolce uomo, il padre. Protettivo. Aveva lo sguardo di un’aquila, anche se il lavoro nei campi l’aveva stremato. Poche parole, laconiche. Una cosa che ereditò anche sua figlia.

-Le molte parole, quelle dispersive, quelle fugaci, lasciale ai letterati e ai poeti. Tutto è semplice. Noi lo rendiamo complicato.

Così diceva e si addormentava sulla tavola aspettando l’alba. La madre invece, una vera principessa. Da lì prese la grazia. Per quanto fosse cambiato il suo aspetto, per quanto la stanchezza si fosse stretta intorno al suo collo come un cappio, quella nobiltà, per quanto si cercasse, non si era mai vista uguale.

Sul tavolo di gelso condividevano ciò che la campagna offriva loro. Gli uccelli non si avventuravano nel cortile quando scuotevano uno straccio. Quali briciole avrebbero trovato? Le raccoglievano una ad una con la punta delle dita e le passavano come comunione attraverso le loro labbra intorpidite. Quando il latte non scendeva più dal seno della madre, Penelope prendeva un cece, lo macinava tra i denti e, come un uccellino, nutriva il suo fratellino con la bocca. Per non farlo piangere e per saziarlo almeno un po’.

Poi arrivava l’ora della scuola. Indossava il grembiule, prendeva la lavagna, il gesso e un panno con un pezzo di pane avvolto. Prestito non restituito dal forno di zio Lefteris. Andava verso la scuola e i suoi occhi brillavano mentre assorbiva le parole del maestro. E imparava le imprese di Troia, le gesta di Alessandro Magno e sentiva parlare di un Ulisse che nei suoi anni d’infanzia era sconosciuto.

Una volta, tornando a casa, la madre la mandò a prendere l’acqua dalla fonte. Si fermò un po’ a guardare il suo riflesso. Si vedeva stanca e un po’ più vecchia rispetto ai suoi anni. Ma rideva. Rideva sempre. I suoi capelli scuri cadevano davanti ai verdi campi che aveva per occhi e tracciavano strade, fiabe e storie. Da un angolo, Narciso la guardava anche lui incantato. Abbandonò per un momento l’arroganza della sua esistenza e si fermò. Ma lei rimase immobile. Aveva riempito il secchio e tornava a casa.

Dopo sette anni, andò con il padre. Finì la scuola. Sentiva le suppliche degli insegnanti che consideravano un peccato lasciare una mente simile incolta. Oh, se sapessi, amore mio, quanto le piaceva studiare! Non si stancava mai. Appena faceva buio, usciva sul balcone con le stelle come fari e una piccola lampada che bruciava piano, per esorcizzare l’alba. Non sapeva cosa avrebbe potuto portare. Leggeva di luoghi lontani, di rivoluzionari, di idee e ideali. Voleva essere pronta a rispondere, protettrice di sé stessa. Protagonista.

– Nostro padre ha bisogno di aiuto. Giannis è ancora piccolo e mia sorella fa la parrucchiera. Tu, mamma, hai anche la schiena. Io non lo lascio solo. Basta.

Severa nelle parole e un leone nella volontà. Suo padre ne era segretamente orgoglioso. Era la sua debolezza. Ma per quanto volesse nasconderlo, può essere nascosto il riflesso quando guardi allo specchio?

Guarda, era la seconda figlia di zio Vanghelis. Sua sorella maggiore aveva mostrato interesse per il mestiere di parrucchiera fin da piccola. Lavorava anche in un negozio, quello di un’amica di sua madre, che le dava anche un po’ di soldi. Poteva contribuire anche lei alla famiglia. Ogni tanto ci andava anche Penelope. Non restava tanto. Solo per farle compagnia e chiacchierare. La sorella più giovane, Spyridoula, era un vero diavolo. Ascoltava di nascosto le sorelle maggiori e, se per sbaglio scappava qualche segreto, poverine loro! Lo raccontava subito alla madre, e poi la signora Vassiliki le rimproverava. Lei si nascondeva nell’angolo e rideva delle loro marachelle. L’unico maschio della famiglia era ancora nella culla. Quindi era prevedibile che Penelope andasse nei campi con il padre.

Si alzavano all’alba. Prendevano il carro che aspettava i lavoratori e scendevano fino a una collinetta, dove poi, a piedi, andavano verso Gouria. Lì, il latifondista della zona aveva molti uliveti, tabacco, aranci e tutto ciò che si può immaginare. Le sue ginocchia erano insanguinate dalle pietre e dalle cadute accidentali nelle pozzanghere. Ma mai una lacrima le era scesa dagli occhi. La considerava una debolezza. E questo sarebbe diventato il suo talismano in molte battaglie. Ma il lavoro era duro, le sue mani esauste e quel tabacco le aveva lasciato un malanno nei polmoni.

E qua e là, riuscivano a guadagnare la paga giornaliera. In quei giorni, quando la chiesetta di San Giovanni suonava le sue campane, arrivò l’Ulisse che attendeva pazientemente. Un giovane alto e forte. Viaggiatore lungo le rive del fiume Acheloo. Non temeva le acque tempestose, non temeva i vortici. Si chiamava Dimitris.

Ragazzo valoroso, Dimitris. Di una famiglia povera, ma tutti sulla via del lavoro. Soffiava il vento contrario? Allentava la corda che teneva la vela. E se si sfilacciava, loro la rattoppavano e ricominciavano. Era una persona molto sincera. Per questo motivo il padrone lo aveva messo a capo del campo. Una volta qualcuno osò molestare una giovane e lui, come un leone, si lanciò:

Se tocchi di nuovo una ragazza, davanti o alle mie spalle, ti taglio la mano. Vengono per la paga giornaliera e tu cerchi di palpeggiarle. Vergognati.

Vide Penelope. E Penelope vide lui. Non per il suo aspetto, ma come persona. Gli piaceva molto. Così silenziosa com’era, e anche se era una peste, non si arrendeva.

Un giorno come tanti Penelope andò dalla sorella parrucchiera. Fecero il caffè e, visto che non c’era gente e la signora Elpiniki era assente, presero due ricami, commissione di una vicina, e scherzavano.

-Penelope, guarda chi arriva qui? Dimitris da Gouria.

-Hai voglia di scherzare, Maria, mi sembra.

-No sorella, è vero, guarda.

E infatti era lui. Aprì la porta e chiese a Penelope di parlarle in privato. Lei rispose con grande coraggio:

-Che parliamo in privato o davanti a mia sorella, è lo stesso. Non ho segreti con Maria.

-Penelope, voglio sposarti.

Rimase sbalordita. Un approccio molto diretto da parte sua, ma lei non gliene aveva dato motivo. Era stata gentile con lui, non gli aveva fatto promesse, non gli aveva nemmeno preso la mano. Solo una volta era caduta nel campo e lui era andato subito ad aiutarla. Anche allora si era ritratta arrossendo. Ma erano altri tempi.

-Ascolta, Dimitris. Non ho dote, né posso offrirti aiuto. Solo queste mani. Se ti bastano, chiedi il permesso a mio padre. Non a me.

Ma a lui bastavano. Quelle due mani, di cui tocco più caldo, che arrivava fino al midollo, non si era mai sentito, gli erano sufficienti.

Così fece. Mise il suo vestito migliore, raccolse un mazzo di fiori, dono dei campi, e andò verso la casa di Penelope. Non lo aspettava, pensava che si fosse impaurito. Rimase stupita. Lo vide e impazzì.

-Penelope, vai nella tua stanza. Parlerò io con il ragazzo.

Così disse il padre, e lei scomparve. La stanza le stava stretta. Anche se avesse avuto tutto il mondo davanti a sé, non sarebbe bastato per camminarlo. Aspettava, aspettava, e poi un fragore la risvegliò dall’oblio.

-Penelope, lo vuoi?

-Padre, prenderò chiunque mi darai.

-Lascia stare queste cose, figlia mia. Lo vuoi?

E come poteva nascondere un tale sorriso, come poteva nascondere uno sguardo così pieno di attesa.

Ogni cerchio si chiudeva. Ne iniziava un altro, nuovo. Migliore? Peggiore? Dolceamaro? Solo il loro cuore lo sa. E da ragazza, la fanciulla divenne donna.

La casa diventò grande. Anche il loro mondo. Vivevano ormai per i loro quattro figli. E ciascuno di questi aveva la propria grazia. Legata a una lotta, che partiva da punti diversi che aveva molta strada da fare. A Gouria iniziarono a scrivere le loro pagine. Una tela bianca e loro la dipingevano a volte con colori brillanti, il rosso della passione, a volte con colori più scuri. Il cavalletto resisteva. Non mancavano feste e gioie, non mancavano le canzoni. Ma per quanto nettare si beva, prima o poi finisce. Dimitris cavalcò un Bucefalo e consegnò le armi. Galoppava lontano, in luoghi da sogno. E la sua Penelope lo guardava in una foto e sospirava. A volte, nelle feste, gli sorrideva, cantava per lui. Aspettava una carezza, un abbraccio. Ancora, anche solo per un po’. Perché non aveva mai dimenticato e sempre ricorderà.

E dunque decise di dare il battesimo di fuoco. Nelle sue viscere. La prima figlia la battezzò con la saggezza di Atena. Perché fosse coraggiosa, intrepida. Perché sopportasse i conflitti e trovare la luce con la diplomazia. Per non cedere e, come sua madre, anche lei infondere coraggio. Alla seconda diedero la salsedine di Poseidone. Affinché portasse in tutto la giusta sapidità. Perché, ne basta un po’ di più, e può diventare pericoloso. Per salpare, come una sirena, scansare gli scogli e poi imparare a soffocare la tempesta, a non annegare. In altri mari, oltre il suo, navigare, ma sempre tornare. Al terzo, l’unico maschio della famiglia, diedero la fiamma di Ares. Per lanciarsi nella battaglia della vita, per non sentirne il dolore. Per andare avanti. Quando Penelope lo guarda, nel suo volto vede riflessa l’anima di suo padre. Quando alza le mani al ritmo del tamburo e alla melodia del flauto, danza con vigore. In un giro dopo l’altro, Dimitris dall’alto piange. Vi entra anche lui. Nel silenzio lo senti cantare, applaudire. Alla quarta e ultima, il calore di Estia divenne la sua forza. Innocente la mente, all’inizio. Ma il suo cuore lo sa che il suo petto è diventato impenetrabile. Per lei e poi per i suoi figli. I loro figli. Perché queste grazie sono state ereditate. Trasmesse di generazione in generazione. E tutto diventava esempio. E tutto diventava favola.

Questa Penelope l’ho chiamata figlia, sorella, madre, nonna. E sulla poltrona accanto al caminetto, vorrò sempre sentire le sue preziose parole, molte o poche che siano. Grazie a questa donna ho conosciuto fermezza, acciaio ardente e quando cala la notte, insieme a lei cercherò una nuova Troia. Parlare tanto e fare poco è una vera malattia. Meglio tacere. Ma quando non hai nulla, quando le tue mani sanguinano nel bisogno quotidiano, ricorda che tutti noi nascondiamo dentro di noi una Penelope, un Ulisse. Che trasformano il no in sì e la disperazione in speranza. E anche se le sue mani sono ormai avvizzite. Emanano lo stesso calore. Non è così, nonna?