I racconti del Premio Energheia Europa

Judith Simeon, Daria-Ioana Cornea

Menzione Premio Energheia Francia 2024

Traduzione a cura di Antonietta Dartizio

Judith Simeon rivive i momenti più impetuosi della sua vita sul letto di morte. Questa volta, Judith non ha tagliato la testa di Holopherne e nessun paesano si è congratulato per il suo coraggio.

Judith Simeon, è questa donna dell’Europa dell’Est che sognava tanto e che ne ha avuto per… due pagine. Ecco, una vita può riassumersi in due pagine.

Mi chiamo Daria Ioana e mi piace dire che la cosa più bella che possa esserci è un libro, una pagina, una lettera, poco importa, che esca dalla testa di un individuo del quale non si immagina la minima oncia di pazzia che l’abita. Parassita, schiavo della sua penna, lo scrittore ha per automatismo scrivere freneticamente ciò che è incapace di dire.

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Mi chiamo Judith Simeon e rifiuto di dire che l’abito non fa il monaco. Il monaco non porta nessun abito. È nudo! Immaginate, dunque, una ragazza di 20 anni sposarsi per vendetta amorosa con un uomo di cinque anni più grande e già in stato avanzato di calvizie, piccolo come una tazza e non più spesso di un ramoscello, devoto e pudico come una suora che ha dimenticato il suo vestito alla sartoria un giorno di messa. Che guaio!

Un giorno, dirigendomi verso la chiesa per delle spiegazioni su questo sogno che voglio realizzare (il divorzio), ho visto, non lontano da questa, un monaco. Aveva gli occhi color caffè, che avevano di amaro solo la sfumatura, la cui profondità era impenetrabile ma seducente al punto da non poter lasciarli più. Era, comunque, cicciottello, stretto nel suo vestito e si rifiutava di tagliare i suoi riccioli scuri. Allora gocce di sudore cadevano qua e là sulla sua fronte. Le sue guance grassottelle davano una brutta immagine per la sua professione. Non avevo mai visto, fino a quel giorno, un monaco ingordo. Era tutto tranne discreto, un uomo che aveva scelto Dio mi guardava dal basso in alto e oltre. Che colpo di scena! Stavo per morire di questa routine con il cranio stempiato che mi serve da marito!

Il giovane monaco, con la sua espressione viziosa, con i suoi capelli neri e il suo corpo grasso, mi chiede: – Sapete veramente che cos’è l’indumento? Dire che tiene caldo e che la sua utilità è pratica, a volte perfino, quando ci si sente sognatore, si può evocare una funzione artistica, è falso. L’abito serve a nascondere, protegge tutto come racchiude e detiene prigionieri i più grandi segreti della nostra anima… o di un’altra.

Stupita dal volume basso della sua voce e dalla sua intonazione

soave, gli rispondo:

– Lei è un uomo del Signore, un uomo morale, perché mi bisbiglia delle parole che possono condurre all’impensabile?

– Vede, la morale è come il tessuto, si porta solo quando bisogna portarla, quando occhi strani ci esaminano. Ma quando non sono qua a che serve soffocare i miei pensieri al di sotto dei suoi strati?

Questo scambio era arrivato a corrompere i miei valori e, essendo così giovane, non ho saputo dove mettere questo nuovo fantasma. Che cosa avrei dovuto fare? Privarmi di questo entusiasmo?

Le parole si trasformano spesso in baci e qua non ci sono state eccezioni. Io, innocente ma troppo ribelle, curiosa di cose di cui non si parla mai, mi sono abbandonata, scesa la notte, alle brezze dei campi sotto un albero. Eccomi messa incinta. Avevo in me il ricordo di un’avventura effimera tra una bambina e una figura santa, seguita da una vita triste. 42 anni in questo paese la cui malattia più conosciuta era l’artrosi.

Hugo parlava di Parigi, Maupassant della Normandia et Balzac de Tours. Vedevo i loro paesaggi attraverso il loro inchiostro. Il tempo di una pagina, ero altrove, non ero né madre né sposa, non ero né rumena né ungherese. Potevo essere parigina o normanna, una donna fatale e indipendente, chic ed elegante. E, nello spazio di un istante, quando il punto avrebbe chiuso la pagina, ritornavo alla mia vita. La mia vita di donna. Era sempre straziante ritornare dove la mia giovinezza si consumava a vista d’occhio. Là dove la mia pelle nascondeva le mie ossa graziosamente si trovavano ormai dei chilogrammi di troppo che le comari del paese si rallegravano di notare. Ogni giorno che passava, dimenticavo chi fossi, dimenticavo come fossi. Ero là, persa nel mio paese che avrà visto la mia nascita e quella che sono diventata negli anni, più tardi, là dove ho avuto il mio primo cuore spezzato e dove mi sono inflitta questo stupido matrimonio. Ero là a chiedermi se quest’odore di campagna, di animali, di erba secca, di latte di mucca e di allevamento avrebbe avuto definitivamente ragione del mio odore corporeo. – Dov’è? E ho imparato ad accettare che non avrò altre gioie tranne quelle che fingo, che, per quanto cambi paesaggio, arricchirmi e soprattutto avere la fortuna di poter spalmare molta crema antietà sul mio viso, il mio unico rimedio è l’orologio. Ho visto, sentito, toccato, vissuto. Ho letto, appreso, scritto poi dimenticato. Ho ballato, cantato, mentito, pianto a dirotto, e ho dato alla luce dal mio essere un altro. E a questo punto ho capito: l’abito è un nascondiglio, che ha usato nel mettere nel tempo sotto le mie sottane le sue infedeltà clericali. L’ultima porta un nome e dei graziosi riccioli biondi. E si chiama Albina:

– Mamma? Mamma!

– Mamma è morta.

Sono muta come quando ero viva.