L'angolo dello scrittore

Lo stato selvaggio dell’occhio e l’invenzione dell’arte moderna

di Laura Durando_

Si tiene fino al 17 luglio a Palazzo Strozzi, Firenze, la mostra Picasso, Miró, Dalí. Giovani arrabbiati: la nascita della modernità. L’impegnativo sottotitolo evidenzia l’indagine sui tre artisti, durante gli anni della gioventù, che hanno stabilito una linea di cesura definitiva con la storia della produzione pittorica precedente. L’esposizione copre l’arco temporale di un trentennio e racconta, attraverso sessanta opere, un centinaio di schizzi e le accurate e ispirate rielaborazioni testuali esplicative di Ludovica Sebregondi, gli incontri realmente e idealmente intercorsi tra i tre.

Lo stesso Salvador Dalí accenna, ne La mia vita segreta, alla sua visita parigina a Pablo Picasso: «Maestro, sono venuto a incontrare lei ancor prima di visitare il Louvre», Picasso avrebbe risposto: «E hai fatto benissimo». L’episodio è inserito in un testo concepito, come fa notare Eugenio Carmona in catalogo, secondo il meccanismo dell’immagine multipla, ossia del racconto collocato in un altro racconto che è a sua volta collocato in un altro racconto, facente parte «dell’eziologia narcisista del perverso polimorfo arrivato all’età adulta». Non esistono prove sulla veridicità dell’incontro, probabilmente qui è il Dalí personaggio a parlare, con tutto il carico di ambizioni che lo hanno sempre contraddistinto e sulla scia del pensiero di André Breton, il quale, parafrasando Freud, affermava che il reale era contenuto nel surreale e viceversa. Per certo, nel 1926, data presunta dell’avvenimento, la considerazione del Maestro come museo vivente è plausibilissima, all’epoca, infatti, Picasso aveva già attraversato il mare dell’Impressionismo, promosso il più radicale antinaturalismo, estrinsecato cubismo evoluto e neoclassicismo.

Questi dialoghi, in cui reale e immaginario – inteso anche desiderio di – agiscono sullo stesso piano, non sono affatto insoliti: penso all’inconcluso Corazón bleu y coeur azul di Federico García Lorca, dove nei due interlocutori, un «Io», in seguito identificato come «Poeta», e il «Mio amico», poi detto «A», si riconoscono facilmente lo stesso Lorca/«Poeta» e Dalí/«A».  Vi si riflettono conversazioni che avrebbero avuto luogo in Catalogna nell’estate del 1927, attorno al tema della connessione tra le cose, all’elaborazione linguistica, espressiva dell’immagine. L’«Io» difende da subito la propria posizione e spiega come solo attraverso uno sforzo si possa captare il «filo fragile che unisca tutte le cose a ogni cosa e ogni cosa a tutte le altre». Diametralmente opposta e radicale l’opinione dell’«Amico» che rifiuta anche solo l’ipotesi che esista tale nesso e proclama il proprio svincolo dalla pratica metaforica, in favore di un interesse nelle cose di per sé, isolate, sovvertendo le idee convenzionali su ciò che si definiva comunemente poetico: gli oggetti dispongono di «un’estrema bellezza e di una vita propria tanto intensa quanto la tua». Come ci si aspetta, alle contestazioni di Lorca, Dalí reagisce infuriandosi; l’aggettivo arrabbiati non ha chiaramente solo a che fare con la fame provata su più fronti dai giovani in questione. Testimonianze degli alterchi, del fermento e delle costanti prese in giro fra coloro che danno voce all’emergenza del Noucentisme provengono dal carteggio fra i residenti della madrilena Residencia de Estudiantes abitata o frequentata fra gli altri, oltre che Dalì e Lorca, da Luis Buñuel, Severo Ochoa, Miguel de Unamuno, Alfonso Reyes, Manuel de Falla, Juan Ramón Jiménez, José Ortega y Gasset, Pedro Salinas, Blas Cabrera, Eugeni d’Ors e Rafael Alberti.

Il percorso dell’esposizione è a ritroso. Joan Miró nasce dodici anni dopo Picasso e Dalí undici anni dopo Miró. Partendo dal più giovane, la cui fase di formazione si considera terminata all’età di ventuno anni, si avvertirà per prima la ribellione nei confronti del padre che non è solo quello naturale, ma l’Accademia (di San Fernando), la Residencia, gli stessi intellettuali che l’hanno animata. Così Dalí, nella sua attitudine alla disperazione – persino di fronte al rito del tè – imbevendosi di Freud, ridicolizzando i mugugni del genitore/persecutore indignato, e soprattutto desiderando di scontrarsi con l’istituzione putrefatta, cerca di trarre conclusioni positive dall’esperienza cubista, realizzando una serie di opere di ispirazione mitologica, con lo scopo preciso di osteggiare la presunta modernità a favore di un registro classico e oggettivista. Rappresentare la realtà in modo schietto deve poter significare e per tanto contenere i principi della sovra realtà: questa diventa la sua ossessione primaria. Culmine di tale ricerca è la splendida Composizione con tre figure. Accademia neocubista (Il marinaio. Accademia neocubista), del 1926. L’esperienza cubista di Picasso è del tutto assimilata, le figure solide e architettoniche presentano sfaccettature geometrizzanti nitide, va contemplata secondo il tanto agognato lirismo oggettivo dell’artista. Ercole, al bivio tra Vizio e Virtù, con la tunica di Nesso sulla spalla, dalla quale cola a forma aracnoide il sangue del Centauro mescolato con il veleno dell’Idra, è pronto alla disintegrazione finale. Privato dei genitali, è estraneo a un qualunque ruolo sessuale, fugge la sua natura di uomo. Il berretto marinaresco è un’allusione antiartistica alla vita moderna, all’imminente partenza e al tema, molto caro alla generazione dei poeti del ‘27 e negli ambienti dell’«arte nuova», dell’amore libero senza compromessi. Vizio, o disordine amoroso, è puro concetto, coincide con Natura nell’immaginario daliniano. Pur essendone attratto, l’artista autoindotto alla concentrazione non cede alla sua presa. Virtù conta con le dita, seduta, calma misura, è intenta a razionalizzare, sancendo la supremazia dell’arte su ogni forma di sentimentalismo.

La fase di formazione del giovane Miró si conclude all’età di trentadue anni. Per arrivare all’introduzione della spontaneità che conosciamo dovrà sperimentare molto, nonostante in Accademia lo considerino abile nell’uso dei colori, dice di sé di non essere in grado di «distinguere una linea dritta da una curva». Le sue composizioni tardano a essere comprese, troppo distinte dai valori plastici ereditati dal passato, tant’è che la critica non sa come, o addirittura se, considerarlo. I suoi segni sono poco generosi, lontani dall’eloquenza delle maniere conosciute, è una pittura capace che si nasconde, disinteressandosi alla conduzione dell’interpretazione, preferisce evocare le allucinazioni del vero, attraverso distorsioni contemporaneamente elementari e raffinate. Miró sa di affrontare un terreno inesplorato, non riconducibile all’appartenenza geografica, cioè sa che se avrà successo diventerà «l’interlocutore senza geografia dell’avanguardia internazionale», sebbene la svolta psicologica si verifichi in due luoghi determinanti: Mont-roig, dove stereotipa la vernacolarità che gli resterà propria e Parigi, città in cui l’arte può essere autentica e vivere senza radicamento nella cultura e nella società francese. Per Dalí saranno similmente importanti Figueres e Cadaqués.

La calligrafia di Miró, quel modo tutto suo di rapportare la pittura al segno, nasce nel ’23: parte dalla codifica della scrittura pittografica, realizzando davanti a ogni immagine una sorta di logo-gramma, per avanzare verso la condensazione simbolica. Trasforma ciò che vede in sé e nella natura portandolo a un livello di grazia primitiva, ancestrale.

Fortunatamente, c’è posto a sedere sotto il finestrone di Palazzo Strozzi di fronte al quale si trova Pittura-poema (Musica, Senna, Michel, Bataille e me), del 1927: è un quadro bellissimo che sorprendentemente si lascia vedere, ascoltare e anche leggere.  Preannuncia gli equilibri delle sottili composizioni cosmiche future, tutto tornerà nell’amata semplicità dell’archetipo dell’uovo, liscio e riservato, che racchiude il principio della vita e della conoscenza. D’altronde, anche questo è Miró: concedersi di scivolare, confondersi negli sfondi della tela e emergere nel trionfo di colori che utilizza. Non a caso l’intesa con Duke Ellington e Jacques Prévert. È il dono del cerchio che si chiude.

La fase di formazione del giovane Picasso si considera terminata nel 1907, all’età di ventisei anni. Rifiutando la logica del gradevole e del tranquillizzante, in piena Belle Epoque, Picasso propone tele aspre, in cui la scomposizione degli oggetti si spinge fino alla perdita di consistenza della materia, insinuandosi alle soglie dell’arte astratta.  Inizia il suo itinerario di pittore professionista, giovanissimo, firmandosi ancora Ruiz, appena compiuti tredici anni. Eppure, nonostante la precocità, c’è già un dialogo intenso tra i personaggi ritratti e l’osservatore.  

Nel 1901, a diciannove anni, Picasso tiene la sua prima parigina presso la galleria di Ambroise Vollard che ne testimonia lo scarso successo. Per molto tempo non avrebbe avuto migliore accoglienza da parte del pubblico. È un periodo travagliato, vive e lavora tra Parigi e Barcellona, privo di una dimora stabile e in lotta per affermare la propria personalità. Tale instabilità continua fino al 1904, quando acquista una maggiore capacità introspettiva, una più profonda coscienza del proprio linguaggio e delle ferite che accompagnano ogni esperienza umana. I disegni su carta del periodo, descritti da Gustave Coquiot, annunciano che nell’animo dell’artista è successo qualcosa: vira il suo stile per palesare la finalità della sua opera.

Il cambio di registro è da collegarsi alla tragica fine dell’amico Carles Casagemas morto suicida nel febbraio del 1901. Nel corso del 1900 visitano insieme la città, è la prima volta a Parigi per Picasso. La tragedia, rimasta a lungo latente, affiora nell’opera dell’artista qualche tempo dopo, tornato da Gósol. La soluzione camera oscura del suo blu tormento darà origine a una delle più profonde rivoluzioni estetiche della storia.

Casagemas si era innamorato perdutamente della modella Germane Gargallo durante il primo viaggio a Parigi e Picasso aveva deciso di rientrare a Barcellona per riportare a casa l’amico caduto in una profonda crisi depressiva in seguito ai problemi sentimentali. Picasso dice al proprio biografo Pierre Daix: «E’ pensando che Casagemas era morto che mi sono messo a dipingere in blu». Il linguaggio stesso declina nella penombra, la pittura è volutamente trasandata e incostante, solcata da pennellate poco convincenti, vuole deliberatamente regredire per disfarsi della cultura che lo circonda, collocandosi dove la prensilità del suo occhio si trasforma in veggenza. Partecipa alle cose del mondo con un’emozione e una coscienza dirette al cuore stesso della visione. Si concentra a lungo sull’immagine degli indigenti, stando accanto a chi non ha niente. Attori, acrobati, arlecchini che non vengono ritratti sotto le luci del palcoscenico, nell’azione mimica o atletica, ma prima o dopo, durante la vestizione, il trucco o il riposo quando la stanchezza è addolcita dall’amore, ma anche quando la solitudine è resa ancora più amara dalla nostalgia. L’ambiente del circo gli è estremamente famigliare: prende a frequentare in modo assiduo il Medrano che tiene spettacolo fisso a Montmartre, conosce a perfezione le abitudini, il quotidiano di chi ci lavora, da lì provengono le scene di vita spicciola che vediamo. Tutto ciò è raccolto magistralmente ne I due saltimbanchi (Arlecchino e la sua compagna), del settembre-ottobre 1901. Immagine simbolo della mostra e in copertina del catalogo: due bicchieri, il tavolo, Arlecchino e la sua compagna spalla a spalla, uniti dalla tenerezza di quel gesto, eppure distanti anni luce, la direzione opposta degli sguardi ne denuncia l’isolamento, ciascuno nei propri pensieri, l’incomunicabilità perduta in un attimo infinito di blu.  

Picasso si avvale del contributo della coscienza senza ripercorrere la strada di un simbolismo che già nutriva i modernismi catalani e in genere europei.

Nel Cahier n. 7, realizzato tra il maggio e giugno 1907, c’è una violenza inaudita, nei disegni dei volti e nel modo di tagliare i corpi maschili e femminili. È il punto di partenza del linguaggio che elaborerà durante la maturità. Se è vero che la sua pittura non è altro che «un ammasso di distruzioni», come dice il Maestro medesimo, è anche vero che inventa l’arte moderna quando riesce a tradurre il segreto della riflessione sulla forma dai popoli primigeni. Come si legge in Antonio Tabucchi che sulla potenza della transitabilità dell’arte realizza Racconti con figure: «È innegabile che le arti “primitive” (o primaires, come ora le chiamano in Francia almeno da quando il Musée de l’Homme ha traslocato al Quai Branly), abbiano profondamente influenzato la pittura e la scultura del Novecento. Le avanguardie storiche ne furono affascinate e ne fecero un culto: Picasso, Giacometti, Modigliani, un certo Cubismo, il Surrealismo non esisterebbero senza l’Africa».

L’ultima sala è l’epilogo: tre opere superlative. Donna che piange, Pablo Picasso, 1937. Composizione (Piccolo universo), Joan Miró, 1933. Le rose sanguinanti, Salvador Dalí, 1930. È un’altra stagione, ormai.

Nella foto: I due saltimbanchi (Arlecchino e la sua compagna) settembre-ottobre 1901