I racconti del Premio letterario Energheia

Il solco di pietra_Dario Fani, Roma

_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia 1999.

«Penso spesso che se tutte le case e le strade

 avessero un aspetto gradevole e ordinato

 e nobile, la gente sarebbe necessariamente

gentile e amabile.»

H. Hesse “Rosshalde

 

Pietro era diretto a Ceitosa. Era stato scortato fino alla stazione e ora l’aspettavano sei ore di treno. Guardò fuori dal vetro e un languore gli prese lo stomaco. Prima di partire per un viaggio di lavoro lo coglieva sempre un leggero e prolungato senso di nausea, anche quando la missione era breve. Non era il lavoro a disturbarlo, il lavoro gli piaceva, ma il pensiero di dover sopportare la curiosità, le domande e l’eccitazione della gente, questo gli risultava penoso. Lui raramente era capace d’entusiasmo e le novità più che divertirlo lo infastidivano. Sperava sempre di poter fare le sue rilevazioni rimanendo un estraneo. Sognava di arrivare in un paese deserto e in tutta tranquillità realizzare una perfetta demoscografia. Al contrario, malgrado il breve tempo, malgrado la voluta discrezione, finiva spesso nel centro dell’attenzione, soprattutto se si trattava di piccoli paesi. Non si spiegava tutto quell’interesse; in fondo l’unica abilità che mostrava era di piazzare in un luogo adatto il demoscopio e poi azionarlo. Certo, in un primo momento, lo strumento, le sue luci, la varietà di leve, il meccanismo silenzioso e continuo dei rulli potevano destare una certa curiosità. Ma, superato quel momento e le prime giustificate domande, dopo non capiva perché l’interesse non scemasse. La gente restava ad osservarlo per ore e cominciava a sbirciare dentro il mirino e domandava quale scuola fosse necessaria per fare quel mestiere e se potesse farlo solo un agente dello stato, alcuni chiedevano addirittura se era pericoloso. E c’era la velata pretesa che lui rispondesse sempre in maniera esauriente. Poi finiva che lo invitavano a pranzi o cene piene di attesa e a metà pasto, vinto l’imbarazzo, gli chiedevano consigli su un fidanzamento o giudizi su vecchie questioni insolute e al momento di ripartire erano capaci di pregarlo affinché si interessasse alla riapertura di un parco o al restauro di antichi edifici o teatri.

A volte presentavano anche richieste scritte. Gli era capitato anche di trovare, al momento della partenza, radunata intorno al suo vagone, la banda del municipio e una folla di gente che lo salutava con ampi cenni e un po’ di tristezza, quasi partisse un loro conoscente.

La gente non riusciva a capire che lui, nonostante fosse un agente dello stato, nulla avrebbe potuto fare per cambiare la loro realtà, aldilà di portare i risultati delle rilevazioni al CED per evitare eventuali catastrofi geofisiche. Si stupiva anche d’essere trattato come un genio, solo perché gli riusciva a muovere le leve del demoscopio con rapidità e sveltezza e quando spiegava che ormai lo faceva da anni, notava che l’ammirazione non diminuiva, anzi in qualche modo s’amplificava. Pietro rimaneva infastidito di tanta ingenuità. Lasciava quei posti in pieno fermento, senza assaporare nulla dell’entusiasmo collettivo e sapere che era stato il suo arrivo a suscitarlo era un conforto da poco, perché dopo la partenza a lui restava solo la nausea del viaggio. Malgrado il lavoro l’avesse portato in luoghi diversi, anche insoliti e curiosi le cose s’erano sempre svolte in quel modo, perciò si stupì che alla stazione di Ceitosa non ci fosse nessuno ad aspettarlo. Scese dal treno, traversò i binari e osservò lo scorcio di paese visibile. Era un confuso insieme di case basse e tetti rossi che sembravano nascere dal mare, tanto gli erano vicino.

S’intuiva che doveva essere stato un posto un po’ impervio, dove la gente aveva faticato a costruire le case. Lui doveva stimare il pericolo che l’erosione dell’acqua poteva creare alle falde del paese. Ma osservando lo squallore in cui era tenuta la stazione, chiara testimonianza di un abbandono graduale e irreversibile, capì che la rovina di quel luogo non sarebbe venuta dal mare. Guardò istintivamente verso il cielo e poi scrutò ancora intorno a sé. In quel lento osservare fu colpito dall’immagine singolare di un bambino che immobile, col naso schiacciato contro il vetro e gli occhioni sgranati, fissava l’andirivieni dei treni. Sembrava incollato a quel vetro e il suo sguardo era pieno di desiderio. Nella desolazione generale quel volto spiccava per espressività come un Van Gogh fra le immondizie. Il bambino non aveva più d’otto anni, i capelli leggermente lunghi erano chiari, come gli occhi dal taglio rotondo e grande; numerose efelidi, sparse lungo il viso e sul principio del naso ponevano in risalto il chiaro delle gote. Nell’insieme un bel bambino. Pietro rimase ad osservarlo fin tanto che un uomo, avvicinandolo con discrezione, quasi nell’intento di dare una risposta al suo interesse, confidò:

“Si chiama Glauco, è il figlio della vedova, invece di giocare con gli altri ragazzi rimane lì interi pomeriggi. Immobile… Chi lo sa a che pensa… Sembra un idiota, vero?”

L’uomo alla fine abbozzò un sorriso. Pietro non rispose, né ricambiò il sorriso. Anche lui da ragazzo aveva sognato di salire su uno di quei serpenti luminosi e andare lontano: verso un luogo migliore. Sollevò lo strumento sulla spalla nell’atto di andar via e l’uomo insistette:

“E lei il demografo? Devo farle da guida sino alla spiaggia…”

A questo secondo richiamo Pietro osservò con attenzione l’uomo e notò la fascia sul braccio: capì che era una guardia della vigilanza. Divenne allora più cortese.

“Sì, sono io. Ma la spiaggia da qui è ben visibile e così vicina… non si disturbi.”

Pietro non aveva mai avuto enorme simpatia per i vigilanti, neppure dopo il decreto che ne limitava il potere all’ordine pubblico. Inoltre davvero non vedeva pericoli in quella passeggiata.

“Non è un disturbo: è il mio lavoro”, replicò secco l’uomo. Iniziarono a camminare seguendo il solco tracciato sulla sabbia. Senza dirsi altro. Il solco era di marmo e si snodava lungo tutta la spiaggia infilando una dietro l’altra le cabine. Tirandolo per un braccio, a metà del tragitto, l’uomo confidò:

“Ora le dico una cosa curiosa… L’estate la spiaggia è sotto il controllo dell’esercito e l’inverno, per editto, noi camminiamo sempre su queste pietre, non è permesso lasciarle; ragioni di sicurezza, capisce? Così da quando c’è questo solco non conosciamo più la nostra sabbia.” Prese una pausa e ribadì: “L’abitiamo ma non la conosciamo, non la trova una cosa curiosa?” Fin dal principio l’uomo aveva cercato un cenno di intesa, cenno che Pietro non si sentiva di dare, così stornò la domanda curiosando a sua volta:

“Da quanto tempo c’è questo solco?”

La guardia aggrottò le sopracciglia e una smorfia di disappunto gli si disegnò sul viso, poi scosse le spalle e senza rispondere lasciò intendere che non ne aveva idea. Proseguirono senza dirsi altro. Il solco in alcuni tratti diramava sino alla battigia, in altri si apriva in piccoli slarghi di cemento, dove, nel mezzo, s’alzavano alte aste di ferro, sulle cui cime sventolavano bandiere di colore diverso.

“Sa cosa rappresentano quei fiocchi?” chiese l’uomo. Pietro lo fissò un istante poi portò gli occhi verso le bandiere, senza attendere risposta l’uomo proseguì:

“Una contrada. Ogni fiocco rappresenta una schietta…” si fermò, bagnò le labbra e riprese:

“Ogni ventuno di luglio qui a Ceitosa si corre il palio, l’avrà sentito dire no? … È un palio famoso, il regolamento vuole che…”

Pietro fissò il mare cercando in quell’immensità un senso di libertà e le parole della guardia divennero un brusìo indistinto. Una musica che accompagnava le grida acute e pungenti dei gabbiani, in fondo non aveva una voce sgradevole. Solo talvolta, casualmente, in quella voce Pietro ritrovò dei suoni comprensibili:

“… ogni schietta… al principio dell’anno… il diritto a due aste lunghe e due corte… il primo giorno di gara… il fiocco… issato solo sulle aste alte…” camminando, Pietro delle volte alzò gli occhi al cielo preoccupato che potesse piovere: gli erano necessarie almeno tre ore per completare le misure “… per capire il punteggio… palio… passeggiare una sera sul lungo mare… contare… il verde indica… i fiocchi… appuntati ricordando che… al sesto… gara non…”.

Nonostante la voce gradevole, il martellio di quelle parole finì con l’infastidire Pietro e istintivamente cominciò a ricordare l’infanzia, mosso da chissà quale nostalgia, trascurando il resto. In quei ricordi delle volte trovò un sorriso. Continuò a passeggiare tra l’infanzia e la spiaggia sino a quando il vigilante ammutolì improvviso. La completa assenza di suoni ridestò l’attenzione di Pietro. Si voltò e fissò sorpreso l’uomo. La guardia mantenne ancora qualche istante il silenzio, poi domandò con forzata cordialità:

“Ora saprebbe dirmi, contando i fiocchi, come è terminato il palio l’anno scorso?” Dietro l’affabilità c’era la chiara intenzione di capire quanto fosse stato ascoltato. Pietro con l’occhio spaziò su tutte le aste, lentamente, come stesse realmente facendo dei conteggi.

“La schietta rossa”, disse con calma e fermezza. Il vigilante lo fissò sorpreso.

“Bravo!” si sfregò le mani e continuò: “Ma lo sa, senza offesa m’intenda, che non la facevo così attento durante la spiegazione…”

Pietro sorrise, ma non disse altro, neppure che era sua abitudine informarsi sulle curiosità dei paesi in cui era inviato a fare misure e riprese a camminare. Il vigilante si affrettò dietro e iniziò a parlare in modo eccitato, certo d’aver a che fare con un uomo singolare. Poco dopo Pietro si fermò e posò lo strumento. La posizione non era buona per un ciclo intero di misure, ma il suo fu un gesto istintivo: non potendo liberarsi del peso di quella voce volle liberarsi almeno del peso dello strumento.

Ottenne comunque un risultato: il vigilante ammutolì e cominciò a curiosare cercando di capire perché mai avesse scelto quella piazzola fra tutte. Al termine del suo studio disse un po’ incerto:

“Di qua, per quanto cali il sole, l’ombra delle aste non copre mai l’obiettivo, è vero?”

Pietro finse una grossa concentrazione nel montare i rulli, così da non dover rispondere nulla. Il vigilante fece qualche passo indietro nel timore di disturbargli il lavoro e lui cominciò a pulire con cura i focali; ma non si sentiva tranquillo, gli occhi della guardia lo seguivano spianati come la canna di un fucile. Osservava qualsiasi movimento ed era impacciata in quell’ostinato desiderio di essere in qualche modo d’aiuto.

Pietro cominciò a scattare delle prime foto per vincere l’imbarazzo e far scendere il grasso nella ghettiera, ma capì che non gli sarebbe riuscito a lavorare comodamente. Si fermò, strofinò l’occhio con un dito e disse calmo:

“Per completare le misure impiegherò diverse ore…”

“Sì?”

“Mi sembra sciocco che se ne stia qui, avrà certo tante altre delicate faccende da sbrigare…”

Il vigilante lo fissò un momento incerto.

“Ma sì, ha ragione: chi ha tempo non perda tempo. Certo…” borbottò tra sé. Poi tirò fuori della sua borsa nera e lucente un piccolo walkietalkie e lo porse a Pietro:

“Torno in cabina di controllo, ma mi raccomando… di qualunque cosa ha bisogno usi la ricetrasmittente, è sufficiente premere quel tasto verde lì. La spia rossa invece indica che è accesa, se lampeggia vuol dire che si stanno esaurendo le batterie. Ma non dovrebbero esaurirsi, sono nuove. Per chiamare deve solo premere il tasto verde… Ha capito?” domandò.

Poi guardò l’infinita serie di leve e luci del demoscopio e disse ancora tra sé:

“Ma certo, certo che ha capito…”

Detto questo fece per andar via, ma ci ripensò, tornò indietro e disse ancora:

“Mi raccomando faccia attenzione, con quello che sta accadendo oggi, il pericolo è ovunque”, gli diede un colpo sulla spalla e si voltò soddisfatto.

Pietro lo guardò allontanarsi, poi si mise in cerca di una posizione migliore; nella ricerca arrivò fin nei pressi d’una baracca posticcia, costruita vicino la rimessa di barche, rovesciate sulla riva. Era un ottimo posto, i riflessi del sole non arrivano mai a toccare i rulli e l’angolo sul mare era quasi perfetto. Pietro per un momento pensò che l’ideale sarebbe stato demolire la costruzione e metterci lo strumento sopra per guadagnare quei centimetri che mancavano, davvero allora avrebbe realizzato un magnifico lavoro, ma valutò l’impresa e si contentò di sistemarsi di fianco alla baracca. Scaricò tutto il primo rullo e montò il secondo, per riprendere il lavoro in modo ordinato. Iniziò una nuova serie di scatti sul secondo rullo e caricò il terzo. Fece tutto in perfetta tranquillità, come mai gli era capitato prima. Stava per inserire il quarto rullo quando sul principio del selciato vide la testolina bionda del bambino della stazione. Non aveva completamente dimenticato il suo viso pieno di desiderio schiacciato contro il vetro. Stavolta era accompagnato da una donna. Incontro gli si faceva un uomo enorme, dal passo incerto, il bambino non doveva averlo visto prima, perché sollevata la testa s’irrigidì e parve a disagio. L’uomo allargò le mani nell’aria e disse forte:

“Cos’hai Glauco, hai paura di me? Hai paura che ti bastono? Io non sono pazzo, bastono solo se c’è un motivo… Hai combinato qualcosa di male?”

L’uomo parlava e si muoveva in modo scomposto, come avesse bevuto. Il bambino non replicò nulla, si avvicinò semplicemente di più alla donna.

Pietro per il timore d’esser veduto si tirò indietro e sbirciò attraverso una fessura della baracca. Le voci gli giungevano appena, ma in principio l’omone non parve così pericoloso come lasciavano intendere le sue grida. In seguito il tono si fece più basso e minaccioso.

“Dove l’hai raccattato?… era di nuovo a vedere i treni? Dì la verità?.”

“Andiamo a casa.” Replicò lei con decisione.

Era una donna giovane e magra, dai capelli lunghi e scuri, vestita in modo semplice; nell’insieme però aveva un aspetto robusto e mostrava la grinta di chi deve lottare sempre molto per ottenere comunque poco.

“No” replicò l’uomo e afferrò il bambino che aveva tentato di oltrepassarlo.

“No. Questa è l’ultima volta. Stanotte il ragazzo viene con me a Fierni, viene a lavorare in Miniera. Sono stanco di nutrire un idiota che pensa solo ai treni! Dove vuole andare con quei maledetti treni?!”

Parlando scosse il bambino da una parte all’altra, come fosse un cane preso dalla collottola.

“Smettila, sei ubriaco… Andiamo a casa”, replicò la donna afferrando il figlio per una mano e tirandolo a sé. L’uomo lasciò andare il bambino e lei l’abbracciò. Non sembrava gente abituata a discutere. Il bambino immobile con gli occhi sgranati li osservava.

“Smettila?! Certo che la smetto: stanotte quell’idiota di tuo figlio verrà in Miniera e non c’è altro da dire.”

La donna lo fissò decisa, sistemò il giubbotto al figlio, rimasto impressionato da quelle parole, e gli passò una mano fra i capelli, poi disse

amorevole:

“Domattina andrai a scuola, non preoccuparti…”, sorrise per dargli tranquillità.

L’uomo l’avvicinò e la spinse contro la cabina:

“La scuola? E che ci fa con la scuola?! Tuo figlio è un fannullone! E tu lo sai! Ma perché ti ostini tanto a difenderlo?”

Pietro pensò alla stupidità della domanda: si ostinava perché era il figlio.

La donna si ritrasse, come se fosse già stata colpita in passato, ma non mancò di rispondergli.

“Non è più fannullone di voialtri. Voi che dopo il lavoro avete in testa solo il vino e le carte. Che fate di più voi?”

Per un istante parve essere una buona difesa e l’uomo la fissò incerto, ma fu solo un momento, poi rise sgraziato e rispose: “L’hai detto: lavoriamo! E da domani anche lui farà quello che vuole dopo la Miniera. Non li voglio i fannulloni in casa mia!”

La donna portò entrambe le mani sulla testa del bambino e l’allontanò, come per difenderlo da eventuali colpi.

“Stanotte verrai in Miniera.” Sentenziò l’uomo avvicinando il volto a quello del bambino. Ci fu un lungo momento di silenzio. Pietro pensò che il destino di quel bambino fosse deciso, ma prima che l’uomo potesse voltarsi la donna chinò la testa, baciò il figlio e lo rincuorò:

“Non temere amore andrai a scuola…” aveva una voce ferma, malgrado gli occhi fossero velati dalle lacrime. L’uomo si bloccò e fissò la donna. Era incredulo. Deglutì e divenne furibondo. Il volto s’infiammò e nel parlare le vene del collo si gonfiarono.

Gridò con una tale foga che rivoli di saliva gli schiumarono sul mento:

“Basta con le cazzate! Lo so perché ti ostini tanto a difenderlo. Lo so! Te sei come lui: sogni! Sogni e non hai la forza per fare niente! Sogni e gli riempi la testa di cazzate! La colpa è tua se ha in testa i treni! Solo quei maledetti treni! Ma basta! Stanotte io gli insegnerò a vivere!”

Si fermò un istante e poi concluse con un tono che non ammetteva repliche.

“Ricordati che vivete in casa mia e farete quello che dico io, o non farete nient’altro.”

Gli doveva essere stato difficile articolare quel discorso. Sputò e ribadì:

“Verrà in Miniera!”

La donna tremò poi gli si avventò contro cercando di colpirlo. L’uomo la scaraventò sul selciato con un ceffone violentissimo. Nell’impatto con la pietra si ferì e urlò. All’urlo seguì un silenzio di tomba. L’aggressione era stata l’ultimo tentativo di camuffare la sconfitta.

La sua resa era chiara.

“Alzati e va a casa”, ordinò l’uomo con voce più calma, comunque greve. Detto ciò s’incamminò, senza più voltarsi. Certo d’aver dimostrato una soverchiante superiorità.

La donna ripiegò su se stessa e si coprì la testa con le mani per proteggersi da ulteriori colpi, ma l’uomo era già lontano. Infine cominciò a piangere. Il bambino sino a quel momento non si era mosso. Lentamente si avvicinò alla madre e le accarezzò la testa, quasi cercando di infonderle sicurezza. Dietro di loro la spuma dell’onda batteva incessante la scogliera, mentre il sole si approssimava all’orizzonte. La donna continuò a piangere. Quell’immagine si stampò negli occhi di Pietro. Un bambino destinato in miniera, che consola una madre disperata e dietro di loro il mare che batte incessante la roccia arrossata dal sole. Era l’immagine più bieca della disperazione, non la disperazione rabbiosa di chi ha perso, ma quella infinita di chi non ha mai partecipato. Di quell’immagine volle scattare una foto. Sapeva che non sarebbe mai stata veritiera, poiché più della disperazione la macchina avrebbe catturato la poesia di quella disperazione, poesia che nella realtà non esisteva. Ma fu un istinto.

Su quello scatto si sentì chiamare. Si voltò. L’uomo della vigilanza avanzava spedito agitando un foglietto tra le mani. Pietro gli fece un cenno per fargli intendere che non c’era alcuna fretta. Lo vide rallentare l’andatura e la cosa l’incuriosì. Tentò di scoprire quanto quell’uomo fosse disposto verso ogni suo desiderio, così agitò frettolosamente la mano nell’aria e l’uomo riprese a correre di gran carriera. In un altro momento avrebbe riso. Il vigilante alla fine lo raggiunse col fiato pesante:

“Si è spostato signore, quasi non la trovavo più… è un telegramma…” disse posando tra le mani di Pietro una lettera verde e riprese fiato. Era un dispaccio di Stato. Un invito a proseguire per Stidone terminate le misure di Ceitosa, c’erano da fare delle rilevazioni sul magma di quel vulcano. Pietro fu rapido nel leggere il biglietto, ma l’uomo riuscì a darci ugualmente un’occhiata.

“La mandano ancora più a Sud eh? Certo che col suo lavoro non si sta mai tranquilli, sono cose urgenti e delicate…” disse in tono confidenziale e poi aggiunse, in leggero imbarazzo per l’indiscrezione: “…ma, mi dica, se uno si ammala?”

Pareva realmente preoccupato che venisse meno un servizio a suo dire così importante.

“Ci mandano qualcun altro.” Lo rassicurò Pietro.

“C’è qualcuno che può sostituirla?” chiese la guardia incredula.

“Credo proprio di sì…” sorrise Pietro

“E chi?”

“Un altro lavoratore del CED…”

“Uno qualunque?”

“Uno qualunque” concluse Pietro.

“Un lavoratore… un lavoratore qualunque…?” ripeté tra le labbra, in modo dubbioso, la guardia, forse nella speranza d’essere smentita.

“Uno qualunque” confermò ancora una volta Pietro. E pur nella sua logica elementare la guardia capì che scortare una persona qualunque non poteva essere un incarico eccezionale, come aveva creduto. Pietro vide una smorfia di delusione disegnarsi su quel viso. L’intervento l’aveva comunque distratto dalla donna e il bambino. D’istinto se ne ricordò, posò il telegramma nelle mani del vigilante e, voltandosi, infilò l’occhio nella fessura. Non vide nessuno. Si portò allora rapido aldilà della baracca e scrutò lungo il selciato: il bambino e la donna erano scomparsi.

Il vigilante lo guardò con curiosità, cercando di capire i suoi movimenti.

Sulla pietra visibile risaltava la macchia di sangue lasciata dalla donna. Il vigilante non la notò. Nel vedere quel selciato di nuovo deserto Pietro si sentì improvvisamente privato di qualcosa, senza riuscire a capire bene di cosa. Fissò la macchia di sangue sul selciato e immaginò la donna e il bambino stretti, mano nella mano, tornare a casa. Immaginò una casa gretta e scura. Più scura della miniera. Una casa dove vivere era impossibile, perché più dei polmoni la polvere ti guastava i sogni. Il vigilante lo richiamò e l’immagine di colpo svanì. Dopo un istante di incertezza Pietro tornò al suo lavoro. Scattò altre foto scrutando di tanto in tanto intorno a sé. Il vigilante continuò a fissarlo, ma il primo goliardico entusiasmo era spento. Anzi s’avvertiva in lui un risentimento, una lieve indignazione, quella che si genera spontanea ogni qualvolta ci si sente traditi. In fondo aveva capito che gli era stato affidato uno dei soliti noiosi servizi di sorveglianza. Eppure Pietro gli preferì quell’atteggiamento distaccato e severo, fatto di un ostinato silenzio dovuto all’orgoglio ferito, al suo primo stucchevole tentativo di raggiungere per forza un’intesa. Scattò le ultime foto, più per avere la certezza di non perdere coda nei rulli, che per necessità e forse con l’intima speranza di guadagnare del tempo per veder riapparire da qualche parte la donna e il bambino.

Poi chiuse l’otturatore e lasciò sciogliere anche l’ultima piattina di grasso nella ghettiera. Il lavoro era concluso.

“Ha finito dunque?” chiese il vigilante. Lo disse con tono secco e professionale, per mostrare comunque di aver cura del compito che gli era stato affidato, ma solo di quello. Pietro gli accennò di sì con la testa e cominciò a mettere da parte i rulli, il vigilante non si mosse neppure un tantino ad aiutarlo.

Pietro smontò lo strumento e lo ripose nella custodia. Fece tutto con molta calma. Si avvolse meglio la sciarpa lungo il collo e calzò il berretto.

Poi come consueto raddrizzò leggermente la schiena e sbuffò un poco.

Sollevò lo strumento e si avviò lungo il solco deserto. Camminò lentamente, senza pensare a nulla di definito. Aveva terminato un’altra giornata di lavoro e al pensiero che sarebbe dovuto partire subito per Stidone avvertì la nausea del viaggio affiorare. La guardia lo seguiva attenta a cogliere qualsiasi movimento sospetto, nonostante tutto intorno fosse deserto, poi improvvisa si bloccò e imprecò. Pietro la fissò con stupore.

Sembrava realmente preoccupata e scrutava un punto preciso della spiaggia.

Incuriosito Pietro seguì quello sguardo. Andava oltre le cabine. Chiare risaltavano delle impronte sulla sabbia. La guardia era incredula. In quella fredda giornata invernale qualcuno era sfuggito alla sua sorveglianza, aveva lasciato il sentiero: infranto l’editto. Continuò a fissare le orme con meraviglia. Le orme sparivano dietro i cespi selvatici. Pietro osservò quei segni in netto contrasto con la piatta uniformità della sabbia. Era certo che appartenessero alla donna e al bambino e chiaramente erano dirette alla stazione. Istintivamente socchiuse gli occhi e il vento gli trascinò sulle labbra il sapore della salsedine. Nell’aria echeggiò rauco il fischio di un treno. La guardia lo fissò con stupore. Pietro, con gli occhi ancora chiusi, immaginò la donna e il bambino tenersi per mano e salire su uno di quegli interminabili serpenti luminosi. Lievi goccioline di mare gli sfiorarono la pelle e una profonda sensazione di benessere gli attraversò il corpo. Inspirò a fondo l’aria fresca della sera e, mentre la guardia continuava a guardarlo incerta, finalmente s’abbandonò ad un sorriso dolce e sereno.

Solo alla fine di quel sorriso riaprì gli occhi.