Il mare luogo di cittadinanza
Hic sunt leones
Presentato a Matera un Manifesto sui diritti di chi è costretto a migrare
di Giulio Albanese_pubblicato su l’Osservatore Romano 19.09.2025
Chi scrive è stato in questi giorni testimone di una felice coincidenza. Proprio mentre veniva diffuso un video messaggio di Papa Leone XIV per la presentazione della candidatura del progetto “Gesti dell’accoglienza” di Lampedusa come Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, a Matera, nella stupenda città dei sassi, veniva diffuso un manifesto di alto spessore culturale e civile sul mare come luogo di cittadinanza universale, con specifico riferimento proprio anche alla questione migratoria. Ma andiamo per ordine.
Come già riportato da questo giornale nei giorni scorsi, il Santo Padre ha ringraziato la popolazione di Lampedusa per l’accoglienza prestata ai migranti: associazioni, volontari, sindaci, amministrazioni, sacerdoti, medici, forze di sicurezza… tutti coloro che, spesso silenziosamente, offrono attenzione umana a chi sopravvive al viaggio nel mare. Si tratta di uomini e di donne che hanno manifestato solidarietà fattiva nei confronti di tanta umanità dolente, molta della quale proviene dalla sponda africana. Ha poi ricordato con dolore le tante vittime del Mare Mediterraneo — molte madri e bambini — sepolte a Lampedusa, le quali, ha detto, riposano nella terra come semi da cui germogliare un mondo nuovo.
Nel suo intervento, il Pontefice ha affermato che non c’è giustizia senza compassione, né legittimità senza ascolto del dolore altrui. Una riflessione, la sua, carica di significati che è culminata con un appello contro la «globalizzazione dell’impotenza», invitando a non arrendersi alla sensazione che «non si possa fare nulla» davanti a ingiustizie o sofferenze. Ha dunque invocato una cultura della riconciliazione che consiste nel curare le ferite, perdonare, superare divisioni e pregiudizi.
Papa Prevost, che ha espresso il desiderio di poter presto salutare la comunità di Lampedusa in presenza, non solo a distanza, è ben consapevole del fatto che il Mediterraneo, per gli antichi Mare Nostrum, è diventato un vero e proprio cimitero liquido che ha inghiottito un numero indicibile di vittime sacrificali. Secondo l’Iom (International Organization for Migration), dal 2014 al 2024, il numero di vittime (morti o scomparse) nel Mediterraneo è stimato in almeno 24.506 persone: nel solo 2024 almeno 2.452 persone sono morte o sono scomparse nelle acque e molti di loro provenivano dall’Africa. Poco importa che si trattasse di migranti in cerca di protezione internazionale perché in fuga da guerre o regimi dittatoriali o di migranti economici, la loro dignità non può essere misconosciuta.
Ecco che allora il mare è comunque memoria, promessa, paura, speranza di chi lo ha attraversato, di chi vi ha perso la vita e di chi, nonostante tutto, continua a crederlo un ponte tra i popoli e non una barriera. Ed è proprio per questo motivo che è stato presentato, il 12 settembre scorso a Matera, il “Manifesto dei Cittadini del Mare”, diffuso dall’ “Associazione culturale Energheia”, come espressione qualificata della società civile. Non un semplice documento, ma una dichiarazione d’intenti: ridare al mare la dignità di spazio comune, di cittadinanza condivisa, di luogo dove i diritti dell’uomo e la cura dell’ambiente si incontrano.
Il Manifesto è stato pensato come bussola che indichi nuove rotte. A sottoscriverlo e promuoverlo sono figure legate alla cultura, alla politica, al volontariato, ma anche cittadini comuni: uomini e donne convinti che il mare non appartenga a nessuno proprio perché appartiene a tutti. Energheia, da anni attiva con il suo Premio letterario e con iniziative culturali, ha scelto di affiancare alla scrittura narrativa quella civile. Da Matera, dunque, città scavata nella roccia e proiettata verso l’orizzonte mediterraneo, si è levata una voce che invita a ripensare il mare in una prospettiva communionale.
Il Manifesto non usa linguaggi complicati. È diretto, evocativo, volutamente semplice. Dice, in sostanza, che il mare è un bene comune, e come tale va custodito, rispettato e condiviso. Questa prospettiva affonda le sue radici nella lunga tradizione giuridica e filosofica che, dal mare liberum teorizzato dal filosofo e giurista olandese Hugo Grotius nel XVII secolo, giunge fino alle attuali discussioni su beni comuni globali, cittadinanza post-nazionale e diritti ambientali. Pertanto, non siamo di fronte a un’idea nuova anche perché il mare, come spazio aperto e libero è un concetto antico, presente già nel diritto romano e riaffermato in molte convenzioni internazionali. Ma qui l’accento ha una sua singolarità: non si parla soltanto di navigazione o commercio, bensì di cittadinanza. In questa prospettiva, il cittadino del mare non è chi possiede navi o chi esercita diritti esclusivi, bensì chi riconosce nel mare un luogo di incontro, di memoria e di vita. Uno spazio liquido che diventa quindi territorio morale prima ancora che geografico: uno spazio che obbliga a rivedere le categorie classiche di frontiera e di appartenenza.
Tre sono i valori centrali che il Manifesto riprende e rilancia. Anzitutto la solidarietà: nessuno deve essere lasciato solo in mare, né chi viaggia alla ricerca di salvezza né chi lo abita con la propria cultura marinaresca. Vi è poi l’accoglienza: le sponde non devono trasformarsi in muri, ma in porti aperti. E infine il riconoscimento della dignità: chi attraversa il mare, per scelta o per necessità, porta con sé diritti inalienabili che nessuna tempesta politica può cancellare. Il Manifesto non si limita a proclamare ideali. Propone una vera e propria carta di cittadinanza marittima, con diritti (alla mobilità, alla protezione, alla memoria di chi ha perso la vita in mare, alla speranza in quanto promessa per il futuro) e doveri (custodire l’ecosistema marino, rispetto delle culture marinare, coltivare la memoria e costruire ponti).
In questa logica, la cittadinanza marittima non sostituisce quella terrestre, ma la completa. Il mare diventa il luogo che ci ricorda di non essere isole, ma parti di un arcipelago umano. Tra le proposte più suggestive del Manifesto c’è quella di un “Passaporto del Mare”. Non si tratta di un documento burocratico in senso stretto, ma di una invenzione simbolica. Un passaporto che non divide, ma unisce. Un lasciapassare che non controlla, ma protegge. L’idea è di per sé semplice e rivoluzionaria: se esiste la cittadinanza europea, se esistono documenti che aprono o chiudono frontiere, allora perché non può esistere anche un documento che riconosca un’appartenenza più ampia, quella al mare come bene comune, dunque condiviso? Il passaporto del mare diventerebbe, dunque, espressione di un nuovo tassello di affermazione del diritto dell’uomo, anche se è evidente che il nome è appunto simbolico e che un simile documento di viaggio difficilmente potrebbe avere valore legale per varcare una frontiera.
Ma il Manifesto non è stato redatto per proporre leggi immediate. Piuttosto è stato concepito proprio per spingere a pensare oltre i limiti degli Stati e delle frontiere. Il Manifesto dei Cittadini del Mare è, in fondo, un invito a guardare il mare non con gli occhi della paura, ma con quelli della speranza. A riconoscere che nessun essere umano può essere straniero in mare, perché il pianeta blu non conosce confini. Questo documento ideale, in un tempo di crisi planetaria segnata da un disordine globale senza precedenti, in cui il diritto internazionale viene palesemente misconosciuto, si rivela come l’azzardo dell’utopia. Come anche, a pensarci bene, potrebbe sembrare tale anche il magistero di Papa Leone che invoca pace, dialogo e riconciliazione. Ma è bene ricordare che l’utopia di oggi può farsi progetto, può costruire la realtà di domani. Rimane il fatto che è solo valorizzando il ruolo della società civile come vivaio di una nuova umanità che sarà possibile innescare l’agognato cambiamento: in Europa, in Africa e nel resto del mondo.




