Il biglietto da visita_Selin Stark
Vincitore Premio Energheia Germania 2024
Traduzione a cura di Cristina Cappellari
Aspettare un autobus che passava solo due volte al giorno poteva sembrare una lunga attesa, soprattutto se la pianificazione del tempo era sbagliata. Il tempo di attesa era reso ancora più difficile dalle condizioni meteorologiche sfavorevoli, dato che la vecchia capanna di legno, che un tempo si trovava lì, era stata sostituita da un cantiere e da un cartello della fermata dell’autobus. Così, a metà novembre, i passeggeri stavano in piedi accanto al cartello, sfidando insieme vento e pioggia. Tra loro c’era una signora anziana con un foulard, indossato per abitudine, non per convinzione, una gonna di stoffa grigia, scarpe ortopediche nere e una borsa di pelle sottile. Nella mano teneva un ombrello grande e scomodo, ma con un manico di legno e una buona apertura. L’apertura, che, con la pioggia, era spesso condivisa con gli altri in attesa.
“Il mio ombrello è abbastanza grande, si metta sotto, giovane uomo”.
Il quarantenne stava in piedi accanto a lei con il cellulare in una mano e una borsa da lavoro ben riempita nell’altra. Era alto, magro e portava occhiali moderni con montatura in corno sul naso stretto. I suoi capelli castano scuro, bagnati, sembravano quasi neri. Sotto il mento, altrimenti rasato, oggi vi erano dei peli di barba. Visibilmente sollevato, asciugava per l’ennesima volta lo schermo del cellulare sui pantaloni del completo, ormai bagnati, e si chinò per fare spazio accanto alla signora anziana.
“Grazie!” sorrise, guardandola dall’alto in basso.
“Vuole tenere l’ombrello? Così non deve chinarsi”.
Il ragazzo accettò volentieri l’offerta e sollevò l’ombrello.
“Di solito vado al lavoro in auto. Ma mia moglie è partita ieri sera improvvisamente con la mia auto, per una vacanza. Quindi oggi devo prendere l’autobus”, interruppe il silenzio sotto l’ombrello.
“Che lavoro fa?”
“Sono un web designer in città. Ho la possibilità di lavorare da casa, ma oggi volevo stare tra la gente”.
“E che fa un web designer?”
Lui sorrise. “Progetto siti web”.
“Allora se ne intende di internet?”, chiese lei.
“Beh, probabilmente non quanto i giovani d’oggi, ma sì, credo di sì!”
“Sa trovare qualcuno su internet?”
“Trovare qualcuno?”, chiese lui sorpreso.
“Sì! Sto cercando qualcuno. Ma oggigiorno nessuno è più nell’elenco telefonico”.
“Beh, tramite i social media si può trovare facilmente qualcuno”.
“Social…?”
Ora non riuscì a trattenere una breve risata.
“Social media. Una sorta di elenco telefonico moderno, se vogliamo. Ha mai sentito parlare di Facebook?”
“No!”
Lei sbuffò piano, strinse la borsa di pelle e cominciò a battere un po’ nervosamente un piede ortopedico sull’altro.
“Chi sta cercando? Potrei cercare su Facebook”, cercò di rialzare l’umore lui.
“Mia figlia!”
Per un lungo momento si sentì solo il rumore della pioggia che batteva sul tetto dell’ombrello. In lontananza, il rombo di un vecchio motore diesel, cresceva.
“Non la sento più da un anno e la Polizia non aiuta, in questi casi. Ho pensato che forse potrei trovarla su internet. Ma i computer in biblioteca comunale sono così confusi”.
“Posso provare io!”
Lei lo guardò sorridendo.
“Davvero? Mi farebbe una gioia incredibile, figliolo!”
Prese la sua borsa di pelle, tirò fuori un biglietto da visita e glielo porse.
“Ecco, questa è il mio biglietto da visita. Mi chiami sul telefono di casa, se trova qualcosa!”
A quel punto, l’autobus girò l’angolo.
L’uomo prese il biglietto.
“Non posso prometterle niente”.
Lei annuì e sorrise di nuovo.
“Certo! Mi servirebbe solo un numero di telefono, sa? Credo che potremmo risolvere tutto, se solo potessimo parlare”.
L’autobus si fermò bruscamente, davanti ai due in attesa. Mentre l’uomo saliva, lei rimase ferma.
“Non sale?” chiese lui, con una gamba già sull’autobus.
“Lei sta aspettando un autobus che non arriva mai”, rispose il conducente, un uomo robusto.
L’uomo si girò sorpreso per tanta severità al mattino e guardò l’autista dell’autobus. L´autista, con le dita sottili, tamburellò nervosamente sul volante, dondolando la gamba e odorando di fumo.
“Anche se mi urlasse addosso durante la conversazione, una cattiva conversazione è comunque meglio di nessuna”, rispose la signora anziana, come se non avesse sentito l’uomo serio. L’autista dell’autobus emise solo un colpo di tosse e chiuse le porte, facendo salire bruscamente l’uomo. Lui le fece un ultimo cenno con la mano, ma si vedeva solo l’ombrello. Un po’ confuso, si sedette su un posto finestrino, nella parte posteriore dell’autobus, lontano dall’autista scontroso. Nella mano teneva ancora il biglietto da visita e pensava alla conversazione confusa di quella mattina presto e alla discussione avuta la sera prima con sua moglie. Dalla sua valigetta tirò fuori una penna a sfera e scrisse sul retro del biglietto da visita, sul quale non c’era un nome, ma solo un numero fisso: “Una cattiva conversazione è meglio di nessuna!”. Durante tutto il viaggio rimase seduto lì, fissando la frase, lasciando che il paesaggio scorresse, guardando fuori solo quando l’autobus svoltò dalla strada principale, verso il centro città e la sua fermata si avvicinava. Scuotendo la testa, posò il biglietto da visita accanto a sé e tirò fuori il suo telefono, ormai asciutto, dalla tasca. Nervoso, compose il numero di sua moglie. Non riuscendo a sopportare il suono del telefono che squillava, si alzò e premette il tasto per fermare la suoneria.
“Sì! Ciao tesoro!” Tossì. “Spero che tu sia arrivata bene in hotel!”
Nel mentre l’autista dell’autobus fermò bruscamente il mezzo alla fermata, l’uomo scese.
“Volevo parlare di nuovo tranquillamente di ieri sera…” Una giovane donna lo superò, spingendosi con impazienza. Scuotendo la testa davanti al comportamento scortese di chi scendeva, salì sull’autobus. Cercando un posto a sedere, passò accanto a un uomo che dormiva con il suo capo biondo riverso sul petto. Con invidia guardò il dormiente e si sedette sospirando su un posto libero accanto al finestrino. Aveva il viso pallido intorno al naso cosparso di lentiggini e occhiaie sotto gli occhi castani chiari. La sua giornata era iniziata in ritardo, senza acqua calda e sotto stress. Il vicino di casa, da destra, stava ristrutturando il suo appartamento da un mese e lei era convinta che ormai forasse le pareti senza un motivo, solo per farla impazzire. Oggi, quel trapano insopportabile aveva raggiunto il suo culmine quando aveva perforato la tubatura dell’acqua calda. Così si sedette infastidita, congelata dalla doccia breve e gelida, con i capelli grassi sul posto accanto al finestrino, appena liberato. Recentemente non aveva avuto fortuna. Prima le continue liti con sua sorella, poi il trapano incessante e infine il suo lavoro, per cui le mancava energia da settimane. Era stanca. Così dormiva. Al lavoro, sul divano, nell’autobus, ma mai nel suo letto e mai la notte. Respirando profondamente, afferrò il suo spesso sciarpone e lo arrotolò in un cuscino. Mancavano pochi minuti alla sua fermata in centro, ma in quello stato, era grata per ogni minuto di sonno che riusciva a strappare. Poi notò il quadrato bianco accanto a sé. “Una cattiva conversazione è meglio di nessuna!” Con la testa appoggiata al finestrino dell’autobus e lo sguardo fisso sul biglietto da visita, pensò a lungo. Di conversazioni cattive ne aveva avute abbastanza, settimane intere con Betti e, infine, settimane intere, di notte, con sè stessa. Posò il biglietto accanto a sè, tirò fuori il suo telefono con lo schermo rotto dalla borsa consumata e compose il numero di “Betti”. Mentre ascoltava il suono del telefono che squillava, strinse il suo sciarpone con le mani.
“Ehi Betti… sono Nina. Purtroppo non ti ho trovata, sicuramente stai lavorando. Sto andando al lavoro e ti stavo pensando. Qui qualcuno ha lasciato un biglietto da visita. Ti sarebbe piaciuto, molto misterioso. C’è solo un numero di telefono, nessun nome. Probabilmente ti saresti inventata mille storie per spiegarlo. E io avrei riso… Beh, mi ha fatto pensare a te, così ho deciso di chiamarti”.
Rimase in silenzio per un po’, prese un respiro tremante e strinse ancora di più il suo sciarpone.
Non voleva piangere, non qui sull’autobus, non di nuovo.
“Era una bugia. Non dovevo pensare a te solo per via del biglietto da visita, penso sempre a te, voglio sempre chiamarti, parlare con te. Betti, non so più chi siamo. Mi manca così tanto papà… e te. Odio il pensiero che ci manchi separatamente. E tutto questo solo perché siamo così, incredibilmente testarde. So che non possiamo fare finta che non sia successo niente, come se non ci fossimo lanciate parole durante il funerale che papà non ci perdonerà mai. Ma forse potremmo cominciare a perdonarci? O almeno a parlare? Per favore, parla con me, per me puoi anche urlarmi contro, ma parlami”.
Chiuse la telefonata e si asciugò le guance bagnate con il suo sciarpone, ormai tutto stropicciato. Quando l’autista dell’autobus gridò: “Capolinea!”, scese. Dietro di lei, una famiglia con quattro bambini piccoli si infilò nell’autobus.
“Ehi! Prima fate scendere! Non spingete! Partiamo tra dieci minuti comunque!”, sbraitò l’autista attraverso il suo altoparlante. L’uomo biondo, che per tutto il viaggio era stato seduto accanto a Nina, nel posto a due, si svegliò di soprassalto dal suo audiolibro. Quando si guardò intorno, si rese conto di essersi addormentato e di aver perso la sua fermata, ora doveva aspettare che l’autobus tornasse indietro. Sospirando, fece scivolare lo sguardo accanto a sé e notò il foglio spiegazzato e saltò in piedi.
“Ehi, ha dimenticato il suo foglio!”, gridò attraverso le porte dell’autobus aperte, tra i bambini che litigavano. Non aveva abbastanza energia per correre dietro alla donna. Stirando il foglio, si rimise al suo posto. “Una cattiva conversazione è meglio di nessuna!” Sorrise, passandosi la mano sulla camicia bianca spiegazzata e pensò a Markus. Markus, che voleva chiamare da settimane, ma non ci riusciva mai. Spesso non aveva abbastanza tempo per dedicarsi a una conversazione con il suo miglior amico, e quando aveva il tempo, perché finalmente il bambino si era addormentato, gli si chiudevano semplicemente gli occhi. Sperava che il piccolo Milo si addormentasse così rapidamente come i suoi genitori. Ma Milo sembrava voler passare il suo primo anno di vita in lotta contro il sonno e con i suoi genitori. Più a lungo non chiamava Markus, peggio diventava la sua coscienza. La conversazione che settimane prima sarebbe potuta durare solo dieci minuti, ora sarebbe durata almeno un’ora, ne era convinto. Un’ora che teoricamente avrebbe avuto, se solo avesse avuto il coraggio di fare quella telefonata.
E così, gli mancava il suo migliore amico, perché pensava di non riuscire a essergli abbastanza vicino, di non riuscire a essere all’altezza di un’amicizia che, da sempre, era fatta in gran parte di silenzi condivisi e pacifici. Scuotendo la testa, rise di sè stesso e chiamò il numero di Markus, mentre l’autobus partiva.
“Ehi! Non pensavo che ti avrei trovato così presto al mattino!”
La risposta di Markus lo fece ridere di nuovo, ora il sorriso arrivava anche fino alle sue occhiaie scure.
“Sì, sono ancora vivo. Ti voglio proprio vedere con un bambino, a malapena riesci a prenderti cura di te stesso”.
Seguì un commento pungente del suo migliore amico, che lo fece ridere a gran voce.
“Sei un idiota. Sono un ottimo padre, quando verrai a trovarmi, anche Milo te lo dirà. Allora potrai vedere cosa succede quando una persona bella si riproduce. Quel ragazzo diventerà un Adone. Sua madre non gli può già dire di no. Se solo dormisse tutta la notte…”
Di colpo si sedette e raccolse le sue cose, mentre il biglietto da visita cadde sul pavimento sporco dell’autobus.
“Accidenti! Stavo per perdere la mia fermata. Appena ti chiamo, la mia vita torna di nuovo un caos…”
Ridendo, passò accanto ai bambini che stavano tranquilli grazie agli iPad e aiutò una signora anziana a sollevare il suo carrello della spesa nell’autobus, prima di scendere a sua volta. La donna spinse una ciocca grigia, che si era scomposta dal suo rigido chignon, dietro l’orecchio, decorato con perline, e sorrise al giovane uomo affascinante.
“Grazie mille!”
Spingeva il suo carrello verde, ben pieno, dopo una visita al mercato settimanale verso i posti a sedere, nel mezzo dell’autobus, riservati agli anziani e alle donne incinte, e si sedette. Dalla tasca anteriore del suo carrello tirò fuori il suo vecchio cellulare a tasti. Mentre cercava “Casa” nella sua lista contatti, il suo sguardo cadde sul foglio sporco ai suoi piedi. “Una cattiva conversazione è meglio di nessuna!” Sorrise, mise il biglietto in tasca e continuò a scorrere nella sua lista contatti fino alla lettera Z. Si fermò su “Welling, Hilde”. Si soffermò un momento e alla fine premette il tasto verde. Dopo una lunga attesa, Hilde rispose.
“Ciao Hilde! Meier, Bärbel qui! Hilde? Mi senti?… Che bello sentirti. Come stai?”
Dopo il monologo di Hilde, si scambiarono le cartelle mediche. Quando ogni piccolo dolore di entrambi, dei loro mariti e di tutti i vicini fu discusso, la signora anziana scese.
“Hilde, ti ricordi del vecchio Konstantin?… Sì, esatto, l’allevatore di cani. Beh, il suo cane da riproduzione è morto. … Hai ragione, l’ho sempre trovato strano come teneva i cani… come se fossero animali. Comunque, ora è finita. I Rübner, che si sono trasferiti nella tua vecchia casa, ora hanno una veranda… i lavori di costruzione sono stati terribilmente rumorosi e sono durati a lungo. Oggi non si trovano più bravi artigiani. Beh, com’è da voi? Vi piace il Sud?”
Mentre Hilde si lamentava del Sud, la sua interlocutrice passò con il carrello accanto a una coppia che stava animatamente discutendo. Una signora anziana, che si appoggiava al suo ombrello, parlò con una giovane madre che spingeva il suo nuovo, ma dall’aspetto retro, passeggino alla fermata dell’autobus.
“Giovane signora, posso disturbarla un momento?”
“Naturalmente!”
La giovane donna si fermò accanto alla signora anziana. Questa si chinò in avanti e sorrise al bambino calvo, vestito di rosa e con un motivo floreale.
“Chi abbiamo qui? Quanti anni ha la piccola?”
“Quasi otto settimane!”
“Congratulazioni, cara! E quanti anni ha la mamma?”
“Quasi trent’anni!”, rise la giovane donna. Le due sorridevano mentre osservavano, per un po’, il bambino che dormiva tranquillo.
“Anch’io avevo trent’anni quando ho avuto mia figlia”. La signora anziana si sollevò un po’ e tirò fuori un piccolo biglietto da visita dalla sua borsa.
“Voi vi intendete di internet, vero?“