Futuro Remoto, I racconti Futuro remoto

E alla fine non ho detto niente_Giorgio Ricci

Credo di non avere mai scritto una storia più bella.

Ma chi sono io, per dare un giudizio del genere?

Me ne sto qui, seduto su una sedia bianca, in un giardino di un palazzo antico.

Fuori, una città meravigliosa che da poco tempo si è accorta di essere un presepe.

Chissà cosa pensano gli altri nove finalisti, mi chiedo se siano agitati come me.

Da qualche minuto mi sto spremendo il cervello: cosa dirò, microfono alle labbra, nel caso arrivasse primo il mio albero capovolto, se alla fine chiameranno il mio nome, se qualcuno della giuria dovesse nominare il titolo del mio racconto?

Non ci sarebbe niente di più facile.

Un racconto è una prova fisica, uno scritto è una propria creazione, un figlio!

Una nuda pagina rivestita lentamente, uno spazio vuoto che ha preso forma.

Comincia a rinfrescare, questa serata di metà settembre è proprio una sorpresa. Anche il Sud, se è altopiano, sa diventare pungente.

Tremo un pochino, sarà il freddo, sarà la tensione.

Ho solo una probabilità su dieci ma devo comunque essere preparato.

Se arrivo in cima parlerò del mio amore per il futuro remoto.

Compiere quei cinque metri per raggiungere la premiazione e sembrare perfettamente lucido, raccontare delle mie fotografie ai casolari abbandonati, di quanto sia attirato dai libri e dai film con le atmosfere più cupe, di come le trame drammatiche e struggenti mi abbiano affascinato fin dalla gioventù.

Di quanto tutto questo abbia contribuito a spingermi verso la scrittura.

Perché il mio è stato un percorso.

Ecco, percorso! Sarà l’elemento chiave, e il resto verrà, sgorgherà come acqua di sorgente, si tramuterà in un fiume di parole!

Già, e se non vinco? Bene, se non vinco il problema non esiste.

Ma fa sempre più freddo e devo ingannare l’attesa in qualche modo.

Tutto è nato da una fotografia. Una sera gli occhi sono andati all’albero specchiato nel canale e l’idea si è illuminata nel giro del mio battito di ciglia successivo.

L’insegnante del corso di scrittura creativa ci assegnava i compiti da svolgere a casa: escogitare un racconto partendo da una fotografia o ribaltare il punto di vista del narratore, oppure ancora svelare agli altri scolari le letture preferite, i libri più amati.

Chissà quante volte avrò osservato quell’immagine…

Una foto in bianco e nero, un albero a testa in giù.

Eppure, quella sera, fu un’altra cosa. Tutta un’altra storia.

Ci dividevamo una sigaretta, lei seduta al computer e io in piedi appoggiato alla finestra.

E tutto si è srotolato.

Le mie malinconie, le visioni apocalittiche che felicemente mi bersagliavano da quando avevo cominciato a leggere La Strada di Corman McCarthy, le mie recenti scorribande alla scoperta di ruderi da fotografare in bianco e nero – e tra loro gli alberi nella nebbia e il mondo disabitato che si specchiava nell’acqua di una fredda pianura – e infine quel sottile pessimismo che mi stava annientando nell’osservare i piccoli gesti quotidiani dei ragazzi, nell’ascoltare le crudeli parole degli adolescenti.

Ecco, tutte queste cose si sono srotolate, quella sera.

Guardando ancora una volta la fotografia, è successo.

Si sono allungate, stiracchiate per poi ricomporsi e fondersi tutte insieme, in uno shakerarsi di riconoscenza.

Ogni cosa si è fusa con ogni altra, l’intreccio definito, l’orgoglio dello scrittore in erba finalmente fuorigiri.

Ho decretato la mia morte.

Ho reso narratrice lei, l’amore della mia vita.

Una donna muta a causa del dolore ma così chiara nel metabolizzare un lutto.

Che scrive con un dito volteggiante nell’aria parole che non hanno più una voce.

Una donna ormai anziana, seduta sulla sponda di un canale, un albero capovolto a specchiarsi nell’acqua sotto un cielo livido, marrone, che invia lampi beige su un mondo ferito da una guerra tra anziani e bambini, un feroce conflitto non spiegato fino in fondo perché un racconto non deve rispondere a domande ma concepire quesiti.

Il ricordo che va al suo uomo, che amava la natura e le stagioni e i profumi di un mondo che non esiste più.

Chissà che effetto avrà fatto ai membri della giuria.

Avranno amato la scena finale, l’incontro della donna con il bambino sporco, denutrito, sconfitto? Avranno scovato un poco di speranza, nel loro abbraccio? Oppure, come me, si saranno crogiolati in una malinconia senza futuro, quella più tiepida, più statica?

Quante cose avrei da dire, se chiameranno il mio nome.

Esplorando, riga dopo riga, il costruirsi della trama, mi ritrovavo col fiato corto e un nodo in gola. Perché questa è stata per me la scrittura: emozione.

Molti, a casa, non hanno capito pienamente il mio Albero Capovolto.

Difficile. Tragico. Criptico.

Ma stasera quello che conta è il responso della giuria!

La presidente, paladina dei diritti femminili e figlia di quell’uomo politico così famoso.

L’attrice bella, bionda e con un giubbotto di pelle nera, che qui ho scoperto essere anche scrittrice e molto più simpatica, profonda ed evoluta di quanto un attrice bionda, bella e con un giubbotto nero di pelle potrebbe sembrare.

E i tre giurati uomini, così seri, indecifrabili.

Che stupide conversazioni tra me e me, quelle che sto facendo per ingannare il tempo!

Così stupide che non mi sono nemmeno accorto che hanno chiamato il mio racconto, aspettano me e io ho solo udito …povolto!

Sono in piedi, una provvidenziale molla mi sta spingendo verso il palco, e il cuore mi balza in gola, le gambe sempre più pesanti, la testa così leggera.

Sono pochissimi questi cinque metri, accorcio i passi ma non serve, sono già qui, di fianco all’attrice bella e bionda che col suo rossetto rosso vivo mi sorride, mi porge la mano, dice complimenti e mi passa il microfono.

Dovrei essere pronto.

Tutti quei pensieri di prima.

Ma non ricordo più una parola.

E mi esce solo un grazie.