L'angolo dello scrittore

Costruire mondi comuni. Crisi finanziaria e democrazia_II parte

di Andrea Inglese

L’incarnazione dei subprime

Le opere che, dallo scoppio della crisi ad oggi, hanno contribuito maggiormente a costruirla come “cosa pubblica” e “discorso appropriabile” sono probabilmente alcuni documentari. Penso in modo particolare a Cleveland versus Wall Street dello svizzero Jean-Stéphane Bron (produzione francese, 2010), a Debtocracy, dei giornalisti greci Katerina Kitidi e Aris Hatzistefanou (autofinanziato e pubblicato gratuitamente in rete nel 2011[2]) e soprattutto a Inside Job[3] prodotto, scritto e diretto da Charles Ferguson nel 2010 e Oscar per il miglior documentario nel 2011.

Se considerati nell’ottica del semplice discorso critico sul genere del documentario, ognuno di questi lavori può prestare il fianco a diversi rimproveri od elogi. Qualcuno criticherà il carattere partigiano, che governa la selezione e l’esposizione dei fatti; altri, evidenzieranno approssimazioni, forzature, inesattezze. Altri ancora, considereranno l’approccio politico come ciò che valorizza e contraddistingue queste opere. Pochi, però, noteranno un fatto fondamentale: opere simili contribuiscono innanzitutto a portare la crisi dentro il nostro mondo, non per frammenti irrelati ed enigmatici, ma per articolazioni portatrici di senso, che ci permettono di sollevare delle domande specifiche su di essa, al di fuori della tutela degli esperti.

Il film di Bron mette in scena una class action promossa dalla città di Cleveland contro 21 banche di Wall Street, accusate di aver affibbiato in modo scorretto mutui subprime a un gran numero di cittadini. Nella realtà, le banche ottennero un rinvio sine die del processo, che Bron decise allora di svolgere davanti alle telecamere, coinvolgendo tutti i protagonisti reali in un animato dibattimento. Qui siamo al di là di ogni chiara categoria di genere: il film di Bron non documenta un vero processo, né ne propone la ricostruzione fittizia. Egli ha filmato delle persone che testimoniano, dibattono e giudicano sulla base della loro effettiva esperienza come se il processo fosse reale.

In questo modo, Cleveland versus Wall Street permette che siano formulate le domande fondamentali di pubblico interesse: chi sono le vittime, chi i colpevoli della crisi finanziaria? Ma l’importanza sta meno nella risposta netta che uno spettatore potrebbe trarre dalla visione del film, che dal mutamento di sguardo che egli porterà sulla crisi. Egli assiste, ad esempio, a un fenomeno inconsueto, ossia l’incarnazione del termine tecnico subprime, di cui avrà letto una definizione in qualsivoglia glossario divulgativo sulla crisi. Questo famigerato virus finanziario è ricondotto a una configurazione di relazioni tra persone concrete: il mutuatario, con la sua storia lavorativa precaria, il basso livello d’istruzione, un passato di insolvenze e il mediatore creditizio, giovane e aggressivo, motivato dalle commissioni che ricava sui mutui a rischio concessi per conto delle grandi banche. Di colpo gli eterei mercati finanziari si popolano di biografie innumerevoli e i suoi prodotti appaiono la scia astratta di relazioni asimmetriche tra persone. Un mondo complesso comincia a prendere consistenza laddove regnavano le ombre delle transazioni finanziarie e gli stemmi delle agenzie di credito.

La democrazia delle due ore

Un dibattito politico intorno alla crisi ha diritto d’esistenza solo nel momento in cui essa può venir imputata all’azione inadempiente o malevola di gruppi o persone, e non invece al caso o a necessità naturali. La domanda che verte sui responsabili è dunque centrale, in quanto permette poi di valutare i danni, di avanzare richieste di riparazione, ecc. Ciò che rende “politico” un documentario sulla crisi non è allora un documentario che risponde in modo univoco e definitivo a domande del genere. Se così fosse, il documentario piuttosto che favorire le condizioni di un dibattito politico democratico, le cancellerebbe, ponendosi come perizia e sentenza definitiva. Con questo non si vuol dire che il documentarista non debba avere un’intenzione o una propria convinzione politica, ma il carattere propriamente politico della sua opera sta altrove.

Nel pressbook ufficiale di Inside Job, l’autore, Charles Ferguson, scrive: “Questo film è un tentativo di offrire un quadro esaustivo di un tema estremamente importante e attuale: la peggiore crisi finanziaria dai tempi della Grande depressione (…). Era una crisi completamente evitabile (…). Io spero che questo film, in meno di due ore, dia la possibilità a tutti di comprendere la natura e le cause fondamentali del problema”. Ciò che rende politico un tale lavoro è: 1) lo sforzo per restituire una totalità, senza troncarla o rimuoverne degli elementi cruciali; 2) porre la questione delle responsabilità umane – eventi non accaduti per caso o necessità, ma per scelta o omissione; 3) assemblare tutti questi elementi in un prodotto della durata non superiore alle due ore. L’ultimo punto, che appare il più ovvio, è per certi versi quello decisivo in termini politici. Inside Job non è l’unico prodotto culturale che è stato in grado di fornire un quadro esaustivo della crisi, stabilendone natura, cause e responsabilità. Diversi studi, inchieste, libri hanno realizzato questi obiettivi. Ma difficilmente questi prodotti sono fruibili nell’arco di due sole ore, ossia in quell’intervallo di tempo che una persona qualsiasi è abituata, nel tempo del non lavoro, a dedicare allo svago o a particolari interessi. (Assemblare due ore d’informazioni, in modo approssimativo, arbitrario e caotico, è un esercizio giornalistico molto diffuso; fare la medesima cosa, in modo scrupoloso ed efficace, implica un non comune talento artistico e intellettuale.)

Architetti e guardiani di mondi

Che cosa s’intende per quadro esaustivo? Se il discorso esperto, immergendosi nella foresta dei dettagli tecnici, analizza e disarticola, il documentarista politico sintetizza e articola. Detto più precisamente, allestisce il mondo, che ha permesso a determinati attori di compiere determinate azioni. Non è sufficiente sbattere un Madoff o un Kerviel o qualche altro trader diabolico davanti alle telecamere e dire: abbiamo il peccato e pure il peccatore! Ciò che viene rimosso in queste esibizioni dei grandi colpevoli è proprio il tipo di mondo in cui essi hanno potuto agire, nel quale sono maturate le loro azioni, si sono formati i loro desideri.

Non è sufficiente additare, da un punto di vista politico, l’azione avida, l’agente senza scrupoli. Bisogna delineare un intero mondo, per comprendere come, nel corso del tempo, siano maturate le condizioni di una tale crisi. Ed è quello che Inside Job riesce a fare, permettendo di vedere quali statuti sociali, CV, discorsi ipocriti, stili di consumo, astuzie legali, tracotanze di classe, sotterfugi intellettuali, strumenti scientifici o pseudo tali, alleanze politiche, conflitti d’interesse siano necessari per preparare un crollo mondiale del sistema finanziario.

Ma nel momento in cui un Ferguson riesce a evocare lo specifico mondo che ha prodotto la crisi, anche ci permette di seguire la pista politicamente più feconda: l’individuazione di quelli che, con Frédéric Lordon, potremmo chiamare architetti e guardiani di mondi. Scrive Lordon: “Dobbiamo assolutamente distogliere lo sguardo dagli individui, considerati unici autori dei loro atti e desideri, per cogliere quelle che sono le strutture che configurano, (…) definiscono gli interessi degli agenti e fissano il margine di manovra concesso loro per perseguirli. (…) Poiché, se incriminare la responsabilità degli agenti una volta che sono inseriti nelle strutture è perfettamente vano, ben diversamente risulta la questione della responsabilità di coloro che hanno installato le strutture e di coloro che hanno lavorato alla loro eternità”[4].

Gli architetti della crisi, allora, sono innanzitutto i responsabili della deregolamentazione, coloro che a partire dagli anni Ottanta, hanno contribuito a eliminare istituti e norme che permettevano allo stato di porre limiti e controlli al potere finanziario. La deregolamentazione è una storia di attori politici che cedono a pressioni di lobby economiche e una storia di autorevoli esperti che forniscono legittimazioni ideologiche a questi cedimenti, permettendo che non vengano successivamente messi in questione. Le banche non hanno conquistato il mondo da sole, così come il potere economico non domina su quello politico per intrinseca superiorità: nell’arco di un trentennio, è possibile ricostruire negli Stati Uniti un deliberato ripiegamento del potere politico a favore di quello economico, ossia il passaggio da un regime imperfettamente democratico a un regime quasi perfettamente oligarchico. La deregolamentazione, anche se avviene attraverso piccole e discrete mosse d’ingegneria tecnocratica, è un’opera resa interamente possibile da chi detiene il potere politico.

Necessità dei mondi comuni

Nel 2010 è stato pubblicato in Francia, il Manifeste des économistes atterrés (Manifesto degli economisti sconcertati), firmato da 630 economisti, mobilitati per proporre delle alternative alle politiche di austerità varate in Europa. Nell’introduzione si legge: la scienza economica “deve anche ricordarsi che appartiene ai cittadini, non agli esperti, di determinare in comune, attraverso la deliberazione democratica, gli obiettivi dell’azione economica, i criteri della sua efficacia e i mezzi per approssimarsi ad essa”. Parole sacrosante. Ma politici ed esperti potranno parlarsi tra di loro, e parlare al popolo sovrano, solo in virtù della necessaria collaborazione di artisti, scrittori, registi, che concorreranno a costruire mondi comuni, a partire dai quali abbia senso avviare il dibattito democratico.


[1] Non faccio qui che seguire un ragionamento del sociologo francese Bruno Latour : “composizione progressiva del mondo comune è il nome che attribuisco alla politica”. Si veda in particolar modo “From Realpolitik to Dingpolitik or How to Make Things Public”, in Making Things Public. Atmospheres of Democracy, a cura di Bruno Latour e Peter Weibel, Exhibition at the ZKM – Center of Art and Media Karlsruhe, 2005.

[2] Si può vedere anche qui : www.alfabeta2.it/2011/06/22/debtocracy-sul-debito-greco/.

[3] Disponibile da settembre 2011 nella collana « Real Cinema » di Feltrinelli, che associa al DVD un volume di materiali diversi, tra cui una guida per gli insegnanti.

[4] Frédéric Lordon, La crise de trop. Reconstruction d’un monde failli, Fayard, 2009, pp. 37-38.