L'angolo dello scrittore

Un poeta scrive, la ‘poetica’ la scopre dopo

Pubblichiamo un’intervista inedita con la maggiore poetessa italiana del Novecento, realizzata pochi mesi prima del suo tragico suicidio (febbraio 1996). L’autrice di “Variazioni belliche” rievoca la sua adolescenza e prima giovinezza, la scoperta della letteratura in parallelo allo studio della musica, l’incontro con Scotellaro, i primi testi pubblicati su “Il Menabò” nel 1963 con la presentazione di Pasolini e l’avvio di una carriera subito importante, insieme implicata metricamente con le conoscenze musicali e con una vocazione ‘sperimentalista’ che la fece partecipare al Gruppo 63, anche se trovava i suoi alfieri critici alquanto ‘pedanti’.

 

di Plinio Perilli_

 

Come ti sei avvicinata alla poesia? Come hai esordito? E quali sono state le tue prime letture?

 

Credo molto banalmente d’aver cominciato a leggere poesie l’ultimo anno del liceo, negli Stati Uniti, visto che nel programma c’era, ad esempio, da studiare Robert Frost. Non è che avessi avuto un particolare incoraggiamento a casa: faceva parte dei compiti. E questo poeta mi piacque enormemente. Poi di nuovo il liceo, in Inghilterra. E lì scoppiò la vena…

 

Questo a Londra?

 

Sì, a Londra; ho fatto di nuovo l’esame perché non era valido in Europa il diploma americano. Non era equiparato. A Londra andai in una scuola molto di prestigio, e c’era infatti un insegnante di letteratura inglese che mi affascinò; e mi affascinò il suo modo di insegnare, con riproduzioni meccaniche, anche, per far sentire le pronunce diverse, i dialetti inglesi…

 

Era l’immediato dopoguerra.

 

Il ’47 mi pare. E mi precipitavo a teatro, un giorno sì e uno no, tanto ero innamorata di tutto questo… Io credevo di dedicarmi allo studio della composizione musicale, difatti studiavo privatamente, non avendo un titolo. Già nella composizione ero molto più portata alla teorizzazione dei mezzi, come dire?, e passai col tempo all’etnomusicologia. Ora questo vuoto, vuoto creativo lasciato da tale decisione (non amavo ciò che scrivevo di musica, non l’apprezzavo molto)… E poi

c’erano delle impasses sul piano tecnico-teorico, che pensavo più urgenti che non lo scrivere con mezzi o postdodecafonici o bartokiani, ormai esauriti… E proprio perché sapevo di dover fare un lavoro creativo, passai alla letteratura. Ma senza una netta distinzione, così, da un giorno all’altro.

Leggevo moltissimo. È stato più a Firenze, a Roma… Venni in vacanza da mia nonna. E lei mi dava una certa libertà di studio. Mia madre aveva invece disapprovato queste lezioni private. Come se poi l’Università non costasse anch’essa… In quell’epoca non era tanto costoso studiare privatamente, a Londra. La nonna era più tollerante. Suo marito era stato compositore. E continuai con lo studio del violino, poi col pianoforte. Ma quando io mi decisi a scrivere, proprio l’ho completamente dimenticato. Già a Londra avevo fatto un pezzo musicale per flauto e voce usando una poesia di William Blake in cui comparivano una rosa e un verme, nella rosa. Oggi mi sento apparentemente lontanissima dallo spirito di Blake, ma in quell’epoca mi interessava. E dunque risale ai miei 17, 18 anni.

 

Quindi hai cominciato musicando una poesia di Blake…

 

Sì. E mi ricordo che la mostrai a qualcuno. Doveva essere in Inghilterra: è tanto tipico, il commento –  e mi fu detto: È un po’ morbosa!… E ho continuato con il contrappunto, sempre privatamente. Poi mi sono trasferita a Roma dopo la morte di mia madre, con un lavoro part-time.. Chi m’abbia incoraggiato? Poverino, forse proprio Scotellaro. Un vago ricordo m’è tornato ultimamente: noi in treno, lui che scriveva, ed io che scrivevo con temi – speravo – contrapposti… Sapendo d’essere tutt’altra persona che non Rocco, di tutt’altre origini, questo distinguermi da lui non era competitivo, era invece stimolante… Ma non ho altro ricordo preciso, perché poi Scotellaro è morto, nel ’53, dunque io l’ho conosciuto poco, ma più come due adolescenti che s’incontrano. Contadini del sud è stata la mia Bibbia, per un mare di tempo… proprio linguisticamente, per gli esperimenti che faceva Scotellaro, col linguaggio dell’analfabeta che trascrive. Era una personalità molto originale, fuori dal comune; e poco ambiziosa: in senso mondano ancora meno… Ho conosciuto molti intellettuali, anche a Firenze: Luigi Dallapiccola, che aveva un grande amore per la letteratura. A Roma poi ho conosciuto Carlo Levi, perfettamente paterno, come dire?; e Bobi Bazlen, che era proprio il suo contrario! … Bazlen che tra l’altro mi invitò a vederlo ancora. Poi conobbi Guttuso, e la sua pittura aveva a che fare con temi anche della poesia e della letteratura. Lo

incontravo la mattina, nel suo studio a Villa Massimo… Lui dipingeva parlando con gli amici…

E dopo la morte di Scotellaro?

 

Per quanto riguarda la scrittura, ho avuto qualche dilemma, perché studiavo anche letteratura inglese, americana… Studiavo Faulkner, per esempio: mi ricordo che scrivevo esercitandomi un po’ nel suo stile… Ma sembravo avere un senso critico abbastanza sviluppato, perché sapevo cosa scartare… Buttavo quasi tutto. La prima poesia che amai, di me, era in inglese, e la portai a Bobi Bazlen… Lui era molto severo, nei suoi giudizi. Invece disse: no è buona.

 

Un bell’incoraggiamento. Questo nei primi anni Cinquanta. La conoscenza con Pasolini viene dopo…

 

Molto più tardi.

 

La tua prima pubblicazione, comunque, è stata quella sul “Menabò”, o hai avuto altri esordi?

 

In campo musicologico?

 

No, in campo proprio poetico: prima di Variazioni belliche, da Garzanti, nel ’64…

 

Sono uscite sul “Menabò” appunto quelle 24 poesie che m’hanno chiesto, l’anno prima, il ’63; con una nota di Pasolini molto incoraggiante…

 

Mi interessa ora il tuo discorso linguistico: il rapporto appunto fra le tre lingue che tu padroneggi; italiano, inglese, francese…

 

Ho cominciato col riprendere il mio francese, che era stata la lingua d’infanzia. Divoravo i libri di filosofia in francese, già a Firenze, poi a Roma… Amavo particolarmente Pascal. E anche molto Bergson. Da Bergson in poi però passai allo studio della fisica moderna. Nei libri Einaudi, semidivulgativi… Fui molto colpita anche da Nietzsche, come tutti a quell’età, suppongo… In quanto ad una mia “poetica”, non credo che l’autore possa da solo dare una visione obiettiva del suo scrivere. Un po’ perché c’è sempre ancora troppo immerso. Può conoscere le sue intenzioni, ma è così legato a quello che la Realtàgli offrirà, anche in piena ispirazione… Non è maestro della sua poetica. La poetica va studiata tramite il critico, la poetica è posteriore al 100%. Si parte con un’idea di quello che vuoi, ma non si può chiamarla poetica. Ogni libro avrebbe una diversa poetica, ed è esattamente quello che voglio, per non ripetermi. Il lettore, il critico, perfino io, dopo aver pubblicato il libro, possiamo giudicare con più obiettività… Per esempio,Serie ospedaliera è composta di due parti: tutta la prima parte, scritta a 28 anni, il poemetto “La libellula”, non ha quasi

nulla a che fare, sul piano poetico con le 86 poesie che seguono. Ed è nato così.

Anche Variazioni belliche, ha due parti; la prima, più breve, che è del ’59-’61, è molto lirica, è molto sciolta, non è astrusa. Tutta la seconda sezione, che è forse la più potente, scritta un paio di anni dopo, ha tutt’altra poetica. Il confronto è fatto di proposito. Non è perché noi scriviamo inconsciamente! Sono perfettamente consapevole che si tratta di due “poetiche” diverse! In quell’epoca mi classificavo “sperimentalista”! Un po’ per scherzare e un po’ perché era ovvio… Venni invitata dal “Gruppo ’63”. Dovevano aver visto la pubblicazione sul “Menabò”. Mi servì per aggiornarmi, perché non seguivo i poeti della mia generazione. Andai a tutte e quattro le riunioni del Gruppo. Stavo ad osservare. Mi tenevo un po’ ai margini, apposta. Ho imparato a leggere in pubblico lì, tra tanti altri letterati non tutti legati strettamente al Gruppo ’63. Quell’esperienza mi fu di stimolo per conoscere altri poeti. Però devo dire che li trovavo, specie quelli che rappresentavano

la critica, un po’ pedanti.

 

Invece avevi simpatia per Antonio Porta…

 

In ultima analisi, m’hanno interessato di più le sue poesie, specie quando le ho viste su carta. Alcune mi piacciono molto…

 

Le poesie di Cara, I rapporti…

 

I primi libri, sono i più belli.

 

Parlami meglio del tuo incontro con Pasolini.

 

L’ho incontrato da Moravia insieme a una ventina di persone. Sudando freddo, mi sono avvicinata. Gli ho chiesto se potevo mostrargli un manoscritto di poesie. Il fatto che ci fosse stato l’avallo di Vittorini sarà servito, perché mi disse di sì. E lui stesso, dopo non so quanto tempo, mi telefonò entusiasta del libro, m’invitò a casa sua. La mia impressione di lui? Ottima, tutte le volte che l’ho visto, e non l’ho visto spesso. Molto riservato. Molto “educatore”…

 

Una vocazione quasi pedagogica.

 

Sapeva tirar fuori il meglio da ogni persona. Poi mi sono messa a leggere la sua poesia.

Dopo averlo conosciuto?

 

Sì. Certe cose, è ovvio, mi colpirono molto. Altre meno. Oggi mi piace quasi tutto, perché ho compreso meglio la personalità. Anche lui sperimentava… Non poteva parlare di Gramsci tutta la vita!

 

Poi lui soffriva ma insieme amava tutta la realtà.

 

Ci son dei libri, come Poesia in forma di rosa, del ’63, che mi hanno interessato molto, ma assai più tardi. Noi stessi siamo immaturi, rispetto a certe opere – che non ci servono magari in quel momento e allora le evitiamo. Ma non è un giudizio estetico, assoluto. Magari dopo dieci anni, venti, uno le riprende, e…

 

Cosa pensi della poesia italiana d’oggi?

 

È molto fertile, il campo. C’è parecchio da seguire.

 

Personalmente, continui a scrivere poesie, oppure davvero hai un po’ smesso, come sembra?…

 

Sono più di dieci anni che non scrivo. Una qua, una là, ma… Anche per varie ragioni di salute, che non è il caso che esponga. Mi manca un po’, ma non scrivo più.

 

Ho letto qualche settimana fa una tua poesia credo recente pubblicata sulla nuova rivista di Fofi; dove c’è addirittura una frantumazione linguistica, un joke lessicale…

 

Sì, c’è un alleggerimento, è quasi uno scherzo letterario… Fofi mi aveva chiesto una poesia, e gli ho detto non ti mando quelle in inglese, le uniche inedite.

 

Quelle che non sono confluite in Sleep?…

 

Sì. Lui avrebbe accettato quelle. Poi, a distanza d’un paio di mesi, m’è capitato di scrivere questa poesia, molto scherzosa… E Fofi l’ha pubblicata molto bene, non c’è un solo errore di stampa! Eppure è una poesia difficile, per i refusi, perché è molto giocata…

 

E le tue letture di oggi? Ecco, cosa pensi, ad esempio, di queste ulteriori, ripetitive neo-avanguardie?…

 

Di oggi? È un termine che comincia a infastidire tutti. “Avanguardia”…

 

Paradossalmente suona quasi come passatista…

 

… Di quale “guardia”? Non vuol più dir niente! Si battezzano neo-avanguardia, però direi che le loro idee sono proprio all’opposto, sono dei ritardatari. Qualche volta, invece, c’è magari una bella ebollizione; come dire?, sì, ebollizione

 

giugno 1995