L'angolo dello scrittore

Sulle ossa di Pasolini_I parte

_racconto di Alberto Sonego_

 

Ho scelto il 4 dicembre, ho scelto un giorno qualunque.
Il forte vento della mattina, nel pomeriggio si placa, ed è possibile intravedere nell’aria gli odori dei piatti serviti caldi sulle tavole di quel lembo di terra dove vivo, tra Pordenone e Cordenons. Rincaso tardi al sabato, ma stavolta la tavola era già apparecchiata e le bistecche si stanno cuocendo sul fondo bollente della padella. Mia sorella è di fretta, non ha quasi nemmeno il tempo di salutare che è già di sopra a sistemarsi: alle due e mezza va ad Udine, con amici. Io lentamente appoggio lo zaino, mi levo le scarpe, ed infilato un paio di pantofole mi abbandono tra i braccioli di una poltrona troppo comoda per ritrovar la forza di alzarsi, quando mia madre mi avrebbe chiamato a tavola.
Chissà perchè si agitava tanto quella signora, che nell’auto dietro alla mia, al volante, sembrava impazzire. Più volte aveva tentato di superarmi sulla destra, sulla sinistra, poi di nuovo sulla destra… senza successo. Eravamo imbottigliati nel traffico, perchè non riusciva a capacitarsene? Aveva gli occhi arrossati, iracondi: li riuscivo a scorgere oltre il vetro posteriore appannato, dal riflesso sullo specchietto retrovisore.
Spero sia arrivata a casa sana e salva.
Sento delle pentole agitarsi, ed il rumore della televisione calare… ma oltre a delle voci, non sento parole. L’orologio del dvd player segna: 13:45, ed intanto i passi di mia sorella, dal piano superiore, indicano il nascente affrettarsi collettivo. Le bistecche vengono calate sui piatti bianchi; la bottiglia d’acqua messa a centrotavola; il cane fatto entrare, l’odore di cibo liberato dalle finestre; le tende scostate; le voci e le grida; le andature più svelte. I capelli rossi di mia sorella rallentano sulle sue spalle: ora siamo tutti seduti attorno al tavolo.
Ho scelto il giorno 4 dicembre, ho scelto un giorno qualunque. Ma forse proprio per la sua casualità mi ha investito di una dolce e triste aurea nostalgica.
Ieri si era rifatta viva la Diva, mi aveva chiesto un incontro, almeno per scambiarci qualche parola sugli ultimi fatti delle nostre vite. Un caffè amichevole, e come potevo rifiutare? Era previsto per la serata, ma poi mi ha dato buca. Me lo dovevo aspettare da lei, tuttavia che potevo dirle?
Uno scacco alla noia di essere uguali tra gli uguali, ecco cos’è stato il 4 dicembre. Diversamente uguale: ecco come voglio definirmi. Addentando la carne rossa che ancora spandeva qualche goccia di sangue, mi sono reso conto di essere diventato cannibale di me stesso, ma divorando i pezzetti di grasso cotto ho riflettuto sui miei programmi per l’immediato domani. Solo allora mi sono reso conto che se non l’avessi fatto oggi non l’avrei fatto più, e la mia domenica si sarebbe bloccata ed avrebbe assunto soltanto i ripetitivi retroscena di una serata tra amici. Avrei solo accumulato altre ore di sonno da recuperare, e poi che altro? Una svogliata ripetizione di biografie d’autori, probabilmente seduti al tavolino di un bar, infiacchito dal mio stesso modo di parlare piatto, scollato, mancante. Sarebbe stata una domenica di ulteriore noia, ed il lunedì sarei tornato a scuola con la stessa casacca invisibile, nuovamente uguale tra gli uguali.
Eppure la parte vicina all’osso era così succulenta, piacevole al tatto oltre che al gusto, e la serravo gelosamente tra le mani, ancora parlando e riflettendo allo stesso tempo due ragionamenti differenti.
Dovevo evadere dal sabato sera.
Dovevo evadere da quel rito orgiastico ripetuto con cadenza frequente e puntuale, o almeno provarci. Dovevo riuscire a credere al di là della morte, per garantirmi una vita priva di peccati. Perchè la mia follia non la ricavo dal vino, ma dalla liberazione di ogni mio istinto più mascherato, avendo compreso di essere in realtà contro ciò che è contro l’etica dei benpensanti spie.
Ho scelto il 4 dicembre, sperando che la gelida brezza della mia emotività ormai frantumata potesse in un qualche modo assiderare anche i sospiri nostalgici del mio spirito, ed ho scelto una data qualunque per onorare la mia stessa anonima morale.
Riorganizzando in fretta e furia l’acconciatura e con un trucco appena accennato sul viso, mia sorella era pronta per partire. Toccava a me portarla in stazione, ma già da dieci minuti la attendevo accanto alla mia macchina, e nel frattempo le due sigarette che avevo scroccato a mio padre si erano volatilizzate tra i miei polmoni e la lastra di vetro lucido dell’auto. Era una linea sottile, una bianca lucentezza a separare il finestrino dalla lamiera, e la cenere ci danzava attraverso, colpendolo con sporadiche smorfie di disgusto e disprezzo.
Sul viale di Sclavons non passava nessuno, e non fu difficile ingranare la terza, facendo scalare il cambio sul mio palmo asciutto, quindi accelerare voracemente, divorando la gomma degli pneumatici. Superata la prima curva la mia espressione si iniziò a rivolgere verso il basso, a seguire un tracciato invisibile fatto di percorsi ripetuti quotidianamente, a velocità più o meno istantanee a seconda dei ritardi. Mia sorella mi intimava di spingere il pedale dell’acceleratore. “I punti della patente sono i miei, decido io cosa farne”, le rispondevo. Intanto anche il primo semaforo era passato, a luce gialla lampeggiante. Strano, non ricordavo nessun temporale. Un guasto tecnico, ecco cos’era. Adesso un autobus fa segno di voler accostare. Lo supero, e sono già di fronte alle scuole medie di Torre, ed è la pelliccia sul cappuccio del cappotto di mia sorella che mi indica l’osteria lì vicino, dove i miei mi hanno detto si mangia molto bene.
Tutto il tragitto è quello che di solito intraprendevo per andare a Conegliano, ma la noia è cambiata, è più contenuta. La stazione di Pordenone si staglia fiera preceduta dal capolinea delle corriere. Qui al sabato pomeriggio ce ne sono poche, ed i rari studenti con lo zaino in spalla non si affrettano più scavalcando con un balzo solo le alture dei marciapiedi.
Rido in faccia al segnale “dare precedenza”, mi immetto a gran velocità sulla corsia che incanala gli automobilisti che si dirigono all’ingresso della stazione. Un vecchio signore che porta una borsa in spalla ed un baule appeso al tremore delle sue mani mi ricorda me stesso, quando ero ancora vecchio: simile ad un anziano indugiavo ad abbottonare il kimono dell’inverno greco.
Non c’è la polizia, sebbene di solito un’auto sia sempre appostata davanti al lungo cancello verde che si affaccia sui binari. Anche pochi giubbotti neri di stranieri che sperduti marciano con passo cadenzato. L’odore di fumo dell’abitacolo pervade anche l’esterno quando arrestato il mezzo, mia sorella scende trascinando con sè le ceneri del Friuli: il trucco è respinto dal clima vivace e giocosamente ribelle, le spalle sono strette in un’improvvisa morsa.”Mi aspettano nell’atrio” mi dice, e scompare saltando alla Fosbury il logorato kimono del vecchio.
Più tardi avrei scoperto che quella unta ed appiccicosa stazione fu sputata sulla carta del 1855, quando ancora l’Unità d’Italia non c’era, e qui era l’impero austro-ungarico a levigare le acque del Noncello con le prue delle sue barche.
Ma al di là della sua biografia mi sembrava consumata ieri, quel 4 dicembre scelto a caso tra i tanti.
La mia macchina prese una direzione spontanea, verso i campi che circondano la mia casa: ritornare per prendere il mio taccuino, perennemente in lotta col pc, e quella macchina fotografica digitale che da tempo aveva sostituito i rullini, i negativi e le giornate dal fotografo a far sviluppare le pellicole. Un bel duello continuo, quello che il mio computer combatteva con il quadernetto Quo Vadis, l’uno forte del nuovo, l’altro certo delle sue pagine ideate ancora quando c’era solo il papiro. Me li immaginavo – e non ero neanche all’altezza della rotonda di via Revedole- che si affrontavano piegandosi ed accendendo ogni spia, come del freno a mano, della riserva e delle frecce direzionali sul mio quadrante. Lampeggiavano ognuno con boati diverso, e chi si chiudeva, chi si sfogliava, chi singhiozzava un processore tremendo, chi sbriciolava dell’altro copertina o plastica nera. Traballavano passando da un tetto all’altro delle auto che scorrevano sul tratto di Pontebbana che dovevo attraversare, poi si staccavano dirigendomi un soffio, e la luce verde del semaforo si accendeva.
Mi accompagnarono così fino all’incrocio di via Nogaredo, lì dove sotto il grande noce era già stato fissato un presepe fatto da bimbi ed educatori, poi mi lasciarono proseguire da solo.
Fu in quel momento che scelsi, e scelsi il 4 dicembre. Alla partenza dalla mia via mi soffermai ad osservare il profilo delle montagne, che innevate facevano capolino oltre la sagoma degli alberi, sul vial di Sclavons. Parevano guardare al Tramit. O forse al Pasch?
D’altronde io Cordenons l’ho sempre conosciuta così: un elenco di quartieri (avevo imparato i loro nomi assistendo alle sedute del consiglio comunale) che però non ero (e non sono tutt’ora) in grado di collocare geograficamente. Di ognuno di essi posso accennare ad un raro dettaglio (un luogo o un nome), dettare una sconnessa indicazione, tanto che spesso fingo di essere foresto qualora un passante mi domandi un’indicazione. Ed allo stesso modo, quel paesaggio di fondo non sapevo dove guardasse, o cosa scrutasse del mio paese. Che fosse la punta del campanile della piazza a solleticarlo? Oppure il rumore di palle da basket che rimbalzano al centro sportivo di via Pasch? “Forse niente di tutto questo”, mi dissi arrendendomi. Forse quelle montagne rimanevano lì allacciate alla dura roccia coperta di neve, ed aspettavano. Probabilmente attendevano un esploratore che sorvegliasse i loro boschi, oppure si dolevano per le lame degli sci per le quali rischiavano terribili cicatrici.
Avevano smesso l’abito verde dei prati, le montagne. Con un cappuccio bianco canticchiavano lo Jodel nelle menti dei bambini, eppure per me erano meno attraenti vestite con fiocchi e rami secchi, sepolti.
Erano come un poster steso a coprire un muro sconquassato, perchè il palazzo che era loro più vicino non assomigliava essere pervaso dal gelo, ed il suo mantello stonava col profumo tenue delle nubi acquerellate.
Avendole davanti, ero già sull’estuario, alla foce di un piccolo rigagnolo tra le acque dell’asfalto. Svoltai a destra appena il traffico me lo consentì.
Non riuscivo ancora a credere a quello che stavo facendo: andare a rendere omaggio a Pier Paolo Pasolini. Un sabato all’inizio dell’inverno, declinando inviti ad aperitivi o incontri solitari al Primavera.
Per lui stavo intraprendendo quella in molti mi avrebbero indicato come atto di follia… follia pura follia vera! D’accordo ubriacarsi ed inventare scuse con i vigili per poi scappare via; d’accordo scommettere con il proprio amico di farsi un tot numero di ragazze; va bene rischiare il come etilico in discoteca; più che accettabile suonare ai campanelli delle case per poi andarsene.
Ma rendere omaggio alla tomba di un autore…! Vera follia insomma.
Guardo il Noncello che mi passa vicino, scende da sinistra, s’infila sotto il ponte , e risbuca quando con la mia auto sono già lontano. Non ho tempo di notare il suo modo di adagiarsi sulle grate dell’allevamento di trote, sono a 70 km all’ora.
Mi ero davvero slegato dalla ripetitività del sabato? Un giorno scelto a caso. Ma forse, non del tutto a caso.