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Quel mistero chiamato Bob Dylan: a 80 anni è ancora sulla strada di Carlo Moretti

Un lungo viaggio di oltre sessant’anni iniziato nel 1961 con l’arrivo a New York. E in una delle ultime canzoni, ‘I contain multitudes’, c’è forse la risposta che volava nel vento in ‘Blowin’ in the wind’

A quindici anni Bob Dylan sognava la sua vita come si sogna un’odissea, una lunga strada da percorrere per poter tornare a casa: “Non sapevo dove si trovasse questa casa eppure sapevo di esserci già stato” ha spiegato Dylan, “e tutto ciò che ho incontrato sulla strada è esattamente ciò che mi aspettavo di trovare. Non è successo per seguire un’ambizione” ha aggiunto, “è solo che ero nato lontano dal posto in cui volevo stare e sentivo il bisogno di tornare a casa”. Chissà se ora che festeggia i suoi ottant’anni e gli oltre sessanta di incontri lungo la strada, Dylan sente di essere arrivato a destinazione in quella sua casa ideale che ha tutta l’aria di chiamarsi musica. O se, invece, si sente ancora nel mezzo del viaggio. Del resto la strada era scritta nel suo destino, l’Highway 61 che Dylan ha cantato in una sua famosa canzone unisce davvero il freddo Minnesota alle calde terre del Sud, alla foce del Mississippi, dove la terra ribolle di blues. Ma “How many roads must a man walk down…”, quante strade deve percorrere un uomo prima di potersi chiamare uomo?

Quando ebbe imparato un numero sufficiente di accordi sulla chitarra e di terzine al pianoforte il giovane Robert Zimmerman cominciò a pianificare la fuga da casa: non sopportava più Hibbing in Minnesota, dov’era cresciuto, zona di paesaggi brulli sventrati dalle ruspe per farne miniere di ferro, il caldo che ti soffocava d’estate e un freddo d’inverno che ti entrava nelle ossa, da andare a letto con i vestiti ancora addosso. Il giovane Bob inseguiva un sogno, che era anche un sogno di gloria. Per qualche tempo si finse Bobby Vee, con il quale aveva suonato per qualche mese nella vicina Fargo: agli amici e ai parenti, ignari, diceva di essere lui ad aver cantato Suzie Baby, piccolo successo regionale. All’università di Minneapolis, dove si era iscritto, girovagava per le aule senza seguire i corsi, innamorandosi di ragazze dai nomi strani, Gloria StoryEcho: per loro scrisse le sue prime canzoni d’amore, gliele cantava facendo loro serenate.

In quei giorni Dylan amava soprattutto le canzoni stravaganti e multiformi di John Jacob Niles, sentiva che nel folk c’era già dentro tutto ciò che era necessario dire, quella musica coincideva con il modo in cui anche lui parlava della vita, delle persone, delle istituzioni, delle ideologie. All’inizio di tutto, però, a dargli la spinta di cui aveva bisogno non poteva che esserci il blues, in particolare il blues percussivo di Odetta, potente figura di cantautrice nera che lo ispira come nessun altro artista ascoltato finora: “Suonava un ritmo particolare con la sua chitarra, non le serviva la batteria, mischiava ritmo tex mex e altri suoni dal Sud degli Stati Uniti, udii quel ritmo e pensai di poterlo usare per qualsiasi cosa”. Bob imita e assimila, qualcuno che l’ha conosciuto in quegli anni parla di lui come di “una spugna”.

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Affamato di tutto, non solo di soldi e di fama, ma anche di viaggiare e di conoscere attraverso la musica, a un certo punto il giovane Zimmerman si rende conto di aver completamente dimenticato chi era, non pensa più a nulla che lo riconduca alla sua precedente vita, non ricorda la città delle miniere di ferro, i pochi momenti di gioia quando arrivava il circo, non pensa più alla sua famiglia. Un giorno a New York, dove si è trasferito a vent’anni all’inizio del 1961 partendo in autostop poco prima di Natale, chitarra in spalla, una mattina che peraltro nevicava, gli viene del tutto naturale l’idea di cambiare il cognome in Dylan, forse un omaggio al poeta Dylan Thomas o forse no, forse solo semplicità o un modo per dissimulare le origini ebraiche del suo cognome, in un paese in cui è ancora fortissimo l’antisemitismo. Dylan in quei giorni racconta su di sé storie sempre diverse, dice di non avere i genitori, di essere un vagabondo, di aver lavorato in un luna park.

Si imbatte nella musica di Woody Guthrie, nel suo stile radicale, uno che con le sue canzoni va dritto all’obiettivo: “Questa macchina uccide i fascisti”, c’è scritto sulla sua chitarra, e Guthrie non ha soltanto un suono particolare, dice sempre cose interessanti utilizzando quel suo suono particolare e per questo lo affascina. Grazie anche al libro di Guthrie Bound for glory che un amico gli aveva regalato all’università, Dylan comincia a pensare che Guthrie conoscesse tutti i segreti della vita, trent’anni prima aveva raccontato nelle sue canzoni la devastazione della Grande Depressione. Dylan comincia a vestirsi come lui, gli assomiglia anche un po’, un giorno a Brooklyn bussa a casa sua, conosce la sua famiglia, lo va a trovare in ospedale, una domenica pomeriggio Guthrie è nel New Jersey a riposarsi a casa di amici e Dylan ha finalmente l’occasione per poter suonare le sue canzoni davanti al suo eroe.

In quel momento Dylan non aveva ancora un contratto discografico, aveva suonato l’armonica in un disco di Harry Belafonte, la chitarra in uno dell’amica Carolyn Hester, si era esibito di spalla a John Lee Hooker eppure sei mesi dopo il suo arrivo a New York nei locali del Village veniva già presentato come “il sensazionale Bob Dylan”, uno “pieno zeppo di talento”. Tutto senza aver ancora scritto nessuno dei grandi successi per cui è famoso. John Hammond, il leggendario talent scout della Columbia, vide in lui del potenziale da contrapporre al successo di Joan Baez con la Vanguard Records. Di lui si interessò l’impresario di Chicago Albert Grossman, da poco chiamato a lavorare per il Newport Folk Festival. Eppure al suo primo concerto importante, in una sala della Carnegie Hall, arrivarono per Dylan solo 75 spettatori. Nel primo album, registrato in 3 ore come fosse un concerto sotto la direzione di Hammond, solo due canzoni sono originali, Song to Whoody, cantata da Dylan con il cuore in mano e non poteva essere diversamente, e Talking New York, il resto erano cover di classici blues e folk: l’album vendette 5 mila copie, per molti alla Columbia Dylan era “la follia di Hammond”.

Serviva un nuovo incontro lungo la strada per raggiungere casa, avvenne grazie a Suze Rotolo, una ragazza italoamericana ventenne come lui, cresciuta in una famiglia liberal che l’aveva incoraggiata verso l’attivismo politico. Suze aveva lavorato per il Congresso per l’uguaglianza razziale, lo spinse a seguire il movimento per i diritti civili, diventò la sua ragazza, andarono a vivere insieme. Arrivarono così, parlando e discutendo con lei, le sue prime canzoni politiche: The Ballad of Emmett Till, su un ragazzino afroamericano ucciso per aver fischiato a una ragazza bianca, Let me die in my footsteps sulla Guerra Fredda, Talkin’ John Birch Paranoid Blues sulla caccia ai comunisti da parte della destra americana.

Con l’estate però Suze lo lasciò per andare a studiare in Italia, a Perugia, Dylan aveva perso la sua musa. Con il dolore per la sua partenza arrivarono altre ispirazioni, Bob era un fiume in piena: “Quelle canzoni sgorgavano in un modo quasi magico”, raccontò anni dopo. Canzoni d’amore come Don’t think twice, it’s alright ma anche fortemente politiche come Masters of war e A hard rain’s a-gonna fall, sulla crisi missilistica cubana. Fu però Blowin’ in the wind che apriva il secondo album The freewheelin’,  con la foto in copertina di lui e Suze abbracciati in una strada di New York, a fargli fare il salto di qualità. Dylan aveva copiato il giro armonico di No more auction block for me che aveva conosciuto grazie a Odetta, l’aveva velocizzato e in meno di mezz’ora aveva scritto un testo dal senso misterioso che poteva essere interpretato in modi diversi: la frase chiave era The answer is blowing in the wind, la risposta soffia nel vento, ma nessuno poteva interpretarla come la soluzione contro la minaccia nucleare, la povertà o le ingiustizie sociali.

Nella stessa canzone c’è quella domanda: quante strade deve percorrere un uomo? E quanti incontri deve fare prima di potersi chiamare uomo? Dylan in questi sessant’anni ha continuato a fare il suo viaggio per tornare a casa. In mezzo ai temi politici e sociali che ritornano nelle sue canzoni, la sua stella polare è rimasta la stessa, quella del ritorno in un luogo conosciuto da sempre ma diverso da quello in cui il destino ci ha fatto nascere; la ricerca di se stessi e lungo il percorso l’incontro con gli altri. Forse la risposta che volava nel vento alla fine Dylan l’ha trovata, forse si trova in una delle sue ultime canzoni pubblicata l’anno scorso a metà aprile, I contain multitudes. In cui, ispirato da una poesia di Walt Whitman, Dylan canta così: “Vado dritto al limite, vado dritto fino alla fine, vado dove tutte le cose perdute vengono rimesse in sesto, canto canzoni d’esperienza come William Blake e non ho scuse da chiedere, tutto scorre nello stesso momento, vivo sul viale del crimine, guido macchine veloci e mangio fast food, sono un uomo di contraddizioni, sono un uomo di molti stati d’animo, contengo moltitudini”. Forse è proprio vero che Dylan cercando se stesso ha trovato il mondo intero.