I racconti del Premio letterario Energheia

L’ultimo Ulisse, Andrea Rinaldi_Roma

Finalista Premio letterario Energheia 2023 – Sezione giovani

La grande vetrata che costituiva il muro della stazione dava su un cielo vastissimo e limpido:
non c’erano nuvole e brillava quasi l’azzurro. Seduto a un tavolino stava un viaggiatore e
dava le spalle al cielo aperto. Alla sua destra erano disseminati altri tavolini e c’era poi il
bancone del bar, uno dei tanti sparsi in quella immensa stazione. A qualche metro alla sua
sinistra invece era appeso l’imponente tabellone degli orari, stampati sopra lo schermo nero a
caratteri di fuoco. Lettere e numeri scandivano con precisione il tutto: stazione di partenza.
Destinazione. Orario. Anche le imprecisioni erano scandite, anche i minuti di ritardo contati.
Quel tabellone con la freddezza e rigidità dei suoi caratteri di fuoco disegnava una precisa
ragnatela di arrivi e partenze, dal mondo esterno verso la stazione e poi viceversa. E dentro la
stazione? Beh, dentro la stazione si aspettava. C’era un viavai continuo di persone che,
aspettando di partire, si perdevano in quel luogo sospeso tra infiniti altri luoghi. Si potevano
vedere distinte signore che si aggiravano per le librerie, signori che leggevano giornali seduti
ai tavolini del bar, ragazzi e ragazze che giravano per negozi e ristoranti. Una sola era la
chiave comune di tutti quei luoghi: erano persi. Dov’erano? In mezzo a tutto. E dov’è il
mezzo del tutto? E quando erano? Prima di partire. E cosa c’è prima di partire, per un
viaggiatore? Ecco, era lì che stava la chiave di tutto, era lì che stava la chiave del dilemma
della stazione, a cui il nostro viaggiatore, sorseggiando un cappuccino al bar, stava pensando:
in quel momento nemmeno era un viaggiatore, in realtà, era solo uno che aspettava di esserlo.
Posò la tazzina mezza vuota sul tavolino, poi dalla tasca del giaccone che portava prese il
libro che si portava dietro e fece per aprirlo, ma prima sentì il suono che facevano gli
altoparlanti della stazione prima che la solita voce robotica desse un annuncio. Tese
l’orecchio ad ascoltare. Nulla che lo riguardasse, un qualche altro treno diretto chissà dove
era in ritardo. Rimase con l’orecchio teso, in caso ci fosse altro da sentire. E qualcosa si
sentiva: note un po’ stantie carezzavano l’aria. Era una donna che suonava il pianoforte
dall’altra parte della grossa sala rispetto al bar dove stava seduto il viaggiatore. Lui ridacchiò
tra sé. La giovane donna suonava in maniera decisamente amatoriale: lui, nel corso dei suoi
viaggi, stazione dopo stazione ne aveva sentiti di veri e propri concerti! Era come se la
suonatrice, in quel momento, stesse solo studiando. Continuava a inciampare sui tasti, e ogni
volta che sbagliava si fermava, respirava e ripartiva. Pochi si fermavano ad ascoltarla: erano
tutti troppo di passaggio, in un’attesa troppo frenetica per godersi la crescita di quella
bellezza così in fieri, impegnata come tutti loro nella sua propria attesa di diventare qualcosa.
Il viaggiatore decise che si sarebbe fermato lui ad ascoltarla, per solidarietà, perché lui la
capiva, altroché! E così si alzò, lasciò la mezza tazzina di cappuccino incustodita e cominciò
ad avvicinarsi. A ogni passo che faceva, però, qualcosa cambiava, qualcosa si distorceva:
man mano che il viaggiatore si avvicinava la musica lo investiva sempre con più violenza ed
era come se una dopo l’altra le corde del pianoforte si stessero spezzando. Dopo dieci passi
dal tavolo la musica era terribile, assordante. Altri due passi e non fu più la musica a essere
terribile, ma quello che voleva comunicare. Erano frasi violente, terrificanti, in realtà
incomprensibili, che colpivano al cuore e tentavano di spogliarlo. Il tredicesimo passo del
viaggiatore fu all’indietro, in un vano tentativo di schermare il suo povero cuore in attesa. Poi
corse verso le scale mobili che portavano ai binari: eppure la musica lo seguì, corse giù per le
scale assieme a lui e assieme a lui si lanciò attraverso le porte aperte del treno che se ne stava
innocente fermo al primo binario. «Dove va questo treno?» chiese il viaggiatore non appena
ebbe trovato il capotreno, ansando, parlando a voce più alta possibile per provare a coprire un
po’ la musica sua persecutrice. «Dove vuole scendere, signore? Ha il biglietto?» chiese
l’altro. “Va bene” rispose il viaggiatore, e alle ripetute proteste del capotreno continuò a
rispondere che andava bene mentre si allontanava. Non appena trovò un posto libero si lasciò
cadere di peso sul sedile e rimase lì, tappandosi le orecchie con le mani, aspettando che il
treno partisse. La musica non lo lasciava in pace, era come se si insinuasse tra le sue dita e
sotto i suoi palmi per entrargli in testa. Anzi, era come se fosse già lì.
Il treno lentamente si sganciò dalla banchina, poi prese velocità: il paesaggio cambiava, alla
stazione si sostituirono i palazzi della città e finalmente la musica dovette cedere il passo allo
sferragliare delle ruote sui binari. Il viaggiatore tirò un sospiro, si sentì finalmente vuoto e
liberato. Appoggiò lo sguardo al paesaggio che correva indistinto fuori dal finestrino e, in un
momento indefinito, si addormentò.
Difficile dire quanto a lungo dormì. Quando si svegliò fuori era buio, il treno era fermo e tutti
gli altri passeggeri – pochi, per la verità, molti meno di quando lui era salito – dormivano. Il
viaggiatore si alzò, sgranchendosi le gambe e le braccia come se non le muovesse da un
secolo. Quando fu in piedi si accorse che il treno stava vagamente ondeggiando: camminò
piano e con attenzione lungo la carrozza e trovò aperte le porte. Scese: attorno a lui e al treno
c’erano alte pareti di metallo. Sopra, il cielo stellato. Era su un traghetto.
Curioso, salì sul ponte per una scaletta ripida ripida. Il dorso della nave era lucido per
l’umidità raccolta, e col suo riflesso restituiva al cielo la luce delle stelle, e così anche il mare
che con scaglie e frammenti d’argento che rimbalzavano tra le onde restituiva al cielo la luna.
Sul ponte c’era un uomo, appoggiato coi gomiti sul parapetto di poppa. Il viaggiatore si
avvicinò a lui: lui lo sentì arrivare e si girò. «Ti sei svegliato, allora» gli disse sorridente.
«Pare di sì». «Ma il biglietto, quindi, ce l’hai?» chiese. Il viaggiatore si bloccò e
cominciarono a tremargli le mani. Non andava bene. Non andava per niente bene. L’altro
scoppiò a ridere. «Non preoccuparti, su – lo tranquillizzò tra le risate – tanto il capotreno è
sceso».
«Ma come è sceso?»
«Eh, sì. A tutti tocca scendere, prima o poi. A lui è toccato prima, a noi toccherà poi.»
Il viaggiatore rimase in silenzio. Gli pulsava la testa, non aveva voglia di pensare. «Non sai
mai quando ti toccherà. Ma, quando ti toccherà, lo saprai. Mi piace pensarla così.» continuò
l’altro.
«Che ci fai sul ponte?» chiese il viaggiatore per cambiare argomento. Non aveva proprio
nessuna voglia di pensare.
«Guardo l’acqua. Guardala anche tu», rispose. Lui obbedì.
L’acqua quasi rotolava lungo la chiglia del traghetto che avanzava: poi, la ferita aperta nel
mare dalla nave si ricomponeva e rimanevano, metro dopo metro, solo piccoli granelli di
spuma come unica testimonianza del loro passaggio.
«E tu? Cosa ti sei lasciato dietro?» gli chiese l’uomo. Il viaggiatore ci pensò fino all’alba. Poi
si tastò i pantaloni e le tasche della giacca. Vuote. «Ho lasciato il libro…» disse. «A chi l’hai
lasciato?»
«Ma a nessuno, è chiaro… me lo sono solo dimenticato…», cominciò. Ci mise tanto a
ricordare dove l’aveva lasciato. Quando parlò di nuovo sul ponte del traghetto brillava il sole:
«Ma certo, sul tavolo, accanto al cappuccino, al bar della stazione, dall’altra parte della sala
rispetto a…»
Si fermò. La testa smise di pulsargli e gli esplose nelle orecchie quella musica assordante che
aveva lasciato insieme al libro. Cominciò a urlare. L’uomo lo guardava dispiaciuto mentre lui
scappava via dal ponte: corse giù per la scaletta ripida ripida, cadde, si fece male ma riprese a
correre, risalì sul treno. Voleva risedersi al suo posto ma no, doveva correre via, via più
lontano. Andò alla carrozza successiva: dal finestrino vide la città di mare a cui finalmente
erano attraccati. Il sole di nuovo brillava sui muri incrostati di salsedine. Il viaggiatore
continuava a correre. Dal finestrino della carrozza ancora successiva vide la città, ora che il
treno era sceso dalla nave e tornava a percorrere la sua vecchia amica terra, vide le case e i
ragazzini e i gatti che guardavano quel grosso mostro che placidamente scorreva sui suoi
binari. Corse, corse ancora: e correndo superava carrozza dopo carrozza e vedeva sempre
nuovi paesaggi affacciarsi, ora vecchie città belle e decadenti, ora profili di montagne
dormienti. Quando si fermò dal finestrino si vedeva di nuovo la luna. Si lasciò cadere sul
primo sedile che trovò libero. Davanti a lui era seduta una ragazza che teneva una piccola
borsa in grembo, custodendola quasi religiosamente, e nel resto del vagone non c’era
nessuno. La giovane si mise a guardarlo fisso. Non distoglieva lo sguardo per un secondo, e
per quanto il viaggiatore cercasse di non farci caso, guardando fuori dal finestrino quella luna
già vista, sentiva i suoi occhi su di lui, e bruciavano come due fiammelle. Si girò verso di lei
e accennò un sorriso, poi guardò per terra imbarazzato. «E tu dove stai andando?» chiese a un
certo punto, turbato dal silenzio. La ragazza si strinse nelle spalle. «Dove mi va di andare,
credo», rispose. Il viaggiatore annuì, gli sembrò una risposta adeguata. Sicuramente era una
risposta più certa di quella che avrebbe potuto dare lui, che nemmeno sapeva se voleva
andare da qualche parte. Lei sembrò capirlo e non fece domande, si limitò ad annuire anche
lei e a guardarlo con sguardo dolce e comprensivo, e incredibilmente paziente. «Perché mi
guardi così?», le chiese il viaggiatore, quando di nuovo non riuscì a sostenere quegli occhi di
fuoco. Lei accennò un sorriso sottile, poi rispose:
«Perché mi sono innamorata.»
«Di chi?»
«Di te.»
«Ma ci siamo appena incontrati.»
«Non è vero.»
«E quando allora?»
Rimase in silenzio a pensare.
«Sul ponte della nave.»
«Non eri tu.»
«Sì, ero io.»
«Allora non ero io.»
«Sì, eri tu. So che eri tu. Ti conosco.»
«Tu… forse sì. Tu sì.»
«Tu no?»
«Non lo so. Credo di no.»
Il treno cominciò a rallentare. Lei si girò a guardare fuori dal finestrino. Le si spense lo
sguardo.
«Devo scendere», disse.
«No, resta.»
«Non posso.»
«Ma sei innamorata.»
«Devo.»
«Perché?»
«Perché lo so. So di dover scendere.»
«Non lasciarmi solo.»
Lei guardò di nuovo fuori dal finestrino. «Tieni» disse, cominciando a frugare nella borsa. Ne
tirò fuori una candela. La accese con un fiammifero. «Pensa a me finché brucia. E goditi il
momento in cui si spegne, goditi anche il buio e la notte e ascolta anche quello che hanno da
dirti loro.»
«E quando si spegne? Che faccio?»
«Quando si spegne scendi.»
«E perché?»
Lei ci pensò. Poi fece spallucce. «Perché cos’altro potresti fare a quel punto?»
Lui rimase in silenzio. Il treno si fermò.
«Devo scendere.»
«No, resta.»
«Non posso.»
Il viaggiatore non riuscì a trattenerla. Lei gli scivolò accanto e scese. Lui aspettò che il treno
ripartisse, poi depose la candela sul sedile di fronte, dove prima era seduta. E rimase a
guardare la fiamma che sobbalzava e tremava. Guardò fuori dal finestrino: si vedevano
montagne rocciose mantate di nebbia. E si chiese come doveva apparire da fuori quel treno,
mentre si trascinava cupo tra le montagne, e da dietro uno dei suoi finestrini si vedeva
microscopica brillare una pagliuzza di luce.
L’unico segno del loro passaggio.
Rimase seduto a lungo, molto a lungo. Fuori dal treno le montagne erano scomparse e dopo
di loro un’infinità di altri paesaggi, e al loro posto si stendevano ora a perdita d’occhio campi
incolti sovrastati da un cielo senza stelle. Il viaggiatore rimaneva a guardare, aspettando che
là fuori comparisse qualcosa di nuovo, qualcosa da vedere. Ma non c’era altro da vedere, lo
sapeva. Si alzò per andare in bagno: camminò lentamente per le carrozze del treno, ogni volta
che ne superava una gettava gli occhi fuori dal finestrino nella speranza di vedere qualcosa,
ma nulla. Poi arrivò al bagno e scoprì che la porta era guasta, ma non c’era nessun capotreno
a cui chiedere come fare. Era sceso tanto tempo fa, se lo ricordava. Sconsolato tornò al suo
posto, senza più guardare fuori. Non aveva nessuno con cui viaggiare, nulla da vedere. Quel
viaggio era solo un’attesa, una snervante attesa di dover finalmente scendere. Quando tornò
al suo posto vide, adagiata sul sedile davanti al suo, una candela spenta. La guardò senza
interesse, in silenzio: poi, senza pensarci troppo, la buttò nell’immondizia. E in quel
momento il treno prese di nuovo a rallentare. Fuori dal finestrino sfilavano lentamente i
palazzi della città; poi a loro si sostituì l’enorme gabbia della stazione. Poi il treno, con un
ultimo sonoro strido che si spense nell’aria notturna, si fermò. Il viaggiatore si alzò, perché
sapeva che era il momento di scendere: scese le scalette che lo condussero dal treno alla
banchina e rimise piede sullo stesso cemento di secoli prima. Dietro di lui il motore si spense
e la locomotiva cominciò il suo riposo: di fronte a lui, su tutti i binari, decine di altri treni,
tutti addormentati. Il viaggiatore alzò lo sguardo: un tabellone degli orari sovrastava la
banchina. C’era una sola scritta, quasi come incisa in quella tavola nera a caratteri di fuoco.
Non c’era dubbio: indicava il suo treno, quello che si era appena fermato. Non sarebbe più
partito nessun treno, da nessun binario, non ci sarebbe più stato nessun viaggiatore e nessuna
attesa di esserlo. Cancellato era il viaggiatore, e cancellato era il suo viaggio: non ricordava
più nulla di quello che aveva visto. «Chi è il viaggiatore che non viaggia? Chi è l’uomo che
non ricorda di aver vissuto…?», chiese. L’aria era ferma, il cielo nero, le nuvole coprivano la
luna.
«Nessuno» si rispose da sé. E fu in quel momento che nell’aria si mosse qualcosa,
camminando a passi prudenti sopra la nebbia. Era della musica. E accompagnava con sé una
voce leggera che cantava.
Il viaggiatore non ebbe nessuna difficoltà a ricordare quella musica, né a capire da dove
venisse. A passo funereo abbandonò la banchina, prese le scale, rientrò nell’immensa
stazione dei treni, varcò le sue stanze vastissime e oscure. Ecco, c’era una cosa che ricordava:
era quella strada, la prima che avesse mai percorso.
Ritrovò un cimitero di tavolini abbandonati. Su uno di loro era rimasta una tazzina mezza
vuota di cappuccino, e subito accanto un libro in bilico che in qualche modo era riuscito a
resistere senza cadere per tutta l’eternità. Le nuvole si schiusero abbastanza perché un filo di
chiaro di luna oltrepassasse le vetrate e si posasse sul libro: Odissea, c’era scritto sulla
copertina. Era rimasto per tutta l’eternità in bilico su quel tavolino. Il viaggiatore si sedette,
tendendo ancora un orecchio alla musica. Ascoltandola si ricordava di esserne scappato a
lungo, ma non ne capiva più il perché. Bevve quell’ultimo sorso di cappuccino e prese il
libro. Un’eternità prima di allora, leggendo e bevendo il cappuccino, aveva per la prima volta
sentito suonare quel pianoforte e cantare quella voce: dal tavolino a cui era seduto vedeva le
spalle della suonatrice e la sua pelle che brillava di bianco. Si avvicinò a lei e mentre si
avvicinava sentiva la musica diventare sempre, sempre più forte, fino a diventare quasi
assordante. Sentiva anche i tonfi dei martelletti che si muovevano e tornavano al loro posto,
sentiva anche i lievissimi rumori che le unghie della pianista facevano sui tasti, i respiri dei
momenti in cui tra una strofa e l’altra riprendeva fiato. Rimase in piedi ad ascoltarla, che
effettivamente era l’unica cosa che non aveva mai fatto: l’aveva sempre sentita e dopo averla
sentita l’aveva sempre dimenticata. L’oscurità celava il volto della pianista, il suo lungo abito
nero ne inghiottiva le gambe. In quel momento era solo un volto in ombra, dieci dita e le note
che esse stavano suonando, e le parole che stava cantando. Era tutto nelle sue dita e nella sua
voce, nelle note e nelle parole che nella totale oscurità dell’ultima notte esplodevano come
petardi, ridando per qualche fugace attimo luce a quella stazione dei treni da cui lui era
partito ormai mille secoli prima e da cui allora partivano infinite vite e infiniti viaggi.
Poi lei smise di suonare e si girò. Un filo di luna svelò il suo viso e il suo sguardo: era pieno
di amore e di una pazienza infinita. Già, da quella stazione una volta partivano infinite vite
mortali. Solo due eterne ora si confrontavano, guardandosi negli occhi.
«Sei proprio tu», sussurrò la suonatrice.
«Non lo so chi sono.», rispose lui.
«Sì, lo sai. E sai anche chi sono io. Per questo sei tornato qui ad ascoltarmi. Ora sei pronto.»
Tra il viaggiatore e la donna al pianoforte cadde per la prima volta il silenzio. Riempì l’aria
forse per un’altra eternità, e chi poteva dirlo? Non c’era più nessuno a misurare il tempo, e
d’altronde non c’era più nessun motivo per farlo. Poi il viaggiatore alzò lo sguardo. «Tu sei
Calipso,» disse. Lei sorrise. «e sei anche Penelope».
«Mio amato, alla fine sei tornato alla nostra casa…»
«Ma qual è questa casa?»
«Non c’è più differenza, ormai. Sei arrivato al confine.»
Un’infinità di immagini ricomparve in testa al viaggiatore. Si rivide sulla nave, che
contemplava la scia che brevemente si lasciava dietro. Poi rivide il mare chiudersi sopra di sé
perché troppo a lungo l’aveva sfidato, e le stelle sotto, in fondo.
«Quello che mi sono lasciato indietro è…», cominciò a dire, ma le immagini non erano finite.
Lo investirono di nuovo: tutto quello che aveva visto nei suoi viaggi infiniti, ogni giorno e
ogni notte. L’immagine di un treno lontano, che sfreccia tra la nebbia. E un piccolo,
minuscolo bagliore che viene da un finestrino.
«La candela si è spenta.» disse. La donna al pianoforte annuì. «Hai ascoltato quello che aveva
da dirti?»
«No. Non l’ho ascoltata.»
Gli occhi della donna, colpiti dalla luce della luna, tremolavano come due fiammelle. «Non
preoccuparti. Ora tocca a noi parlarti. Se c’è qualcosa che vuoi chiederci, noi parleremo. Non
c’è altro.»
Il viaggiatore stava in piedi di fronte alla donna. Una sola era la chiave comune di tutti e due:
erano persi, pur sapendo esattamente dov’erano. E dov’erano? In mezzo a tutto. Tutto quello
che c’è stato e quello che ci sarà? Quando erano? Dopo il ritorno. E cosa c’è, per un
viaggiatore, dopo il ritorno? Ecco, era lì la chiave di tutto, era lì la chiave del dilemma della
stazione, a cui il nostro viaggiatore, sorseggiando un cappuccino al bar, un’intera esistenza
prima aveva pensato, senza trovare una risposta: e in quel momento nemmeno era più un
viaggiatore, in realtà. Era solo uno che lo era stato. Aprì il libro che teneva in mano: fece
scorrere il dito lungo la carta, sollevando miriadi di granelli di polvere che il tempo aveva
posato tra le parole. Lesse le prime che trovò: «L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa,
che a lungo errò…». Calipso e Penelope sorrisero di nuovo e ripresero a suonare. Ogni
arpeggio, ogni accordo, ogni nota – tutto suonava ora come una rivelazione, e sì c’era di
nuovo paura, perché trovarsi di fronte a se stessi fa sempre paura. Quando si vaga
eternamente soli sotto sotto il cielo stellato si cerca sempre il proprio riflesso, tra le onde del
mare come nel finestrino di un treno. E ora, sentendosi raccontare, a ogni riflesso di se stesso
racchiuso in quelle note, ritrovava il cielo stellato, le onde del mare, il finestrino del treno.
Tutto quello che aveva visto.
Dal tabellone degli orari scomparve anche quello dell’ultimo treno.
E fu così che l’ultimo Ulisse si conobbe e smise per primo di essere Nessuno.