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Latouche, il profeta della decrescita serena lancia la sua sfida

La Gazzetta del Mezzogiorno – Venerdì 12 Novembre 2010

Incontro-dibattito promosso dall’associazione Energheia a Palazzo Lanfranchi

Un momento dell'incontro con Serge Latouche

Un’indicazione, essere più sobri non è impossibile

 

Chissà, forse non lo sappiamo, nel senso che inconsapevolmente la strada della decrescita da queste parti l’abbiamo imboccata da tempo. Qualche esempio? Che dire del trend demografico lucano? Di più, la speciale classifica annuale del Sole 24 Ore sulla qualità della vita evidenzia con la crudezza dei numeri una serie di aspetti che sembrano andare proprio in quella direzione. Da noi si registrano tra i più bassi consumi a livello di acqua, gas ed elettricità. Anche la produzione pro capite di spazzatura è tra le meno ingombranti d’Italia e la qualità dell’aria e dell’acqua viene considerata superiore a quella di altre realtà in cui l’inquinamento domina.

Siamo solo più poveri di altre zone d’Italia oppure potrebbe essere questo il luogo della decrescita serena  che ha in mente Serge Latouche, docente di Economia, parigino noto a livello planetario per le sue teorie che mettono in crisi le sedimentazioni attraverso le quali si è formato il nostro immaginario economico e collettivo?

Interrogativi propiziati dall’iniziativa dell’associazione culturale Energheia a Palazzo Lanfranchi, in una serata di quelle che è difficile trovare posto, anche solo in piedi. Perché vediamo il mondo attraverso i prismi dell’utilità del lavoro, della concorrenza e della crescita illimitata? Adam Smith, nel saggio sulla ricchezza, affermò che i ricchi sarebbero diventati sempre più ricchi, ma i poveri sempre meno poveri. Forse c’è stata un’intensa parentesi che ha dato fiato all’utopia di Smith, al liberismo, ai capitalismi delle nazioni. Lo sfruttamento di materie prime come il carbone e il petrolio, hanno rafforzato questo modo d’intendere il futuro. Ma è stata solo una parentesi della storia e ora la festa è finita e sappiamo che c’è chi ha potuto approfittare di più e chi, invece, poco o niente e che in tante parti del mondo il precipizio della povertà coincide con grandi masse di diseredati, con la miseria più nera.

E noi? Noi possiamo rimaner quotidianamente ostaggio del marketing, di quello stato mentale che crea scientificamente l’infelicità, così da farci desiderare sempre di più quello che non abbiamo? E il credito quanto resisterà se non c’è reddito? Come si sosterrà una società fondata sul lavoro che è diventata senza lavoro? Stiamo inseguendo la disperazione. I segni della tragedia, di questa assurda autocombustione in atto, evidenti anche a livello ambientale. La scomparsa delle api non è una banalità, è il segno del dramma. Latouche pensa che oggi occorra comprendere le esigenze del mondo del lavoro, la crisi economica e la necessità di un cambiamento in senso ecologico del nostro modo di sentire, intrecciandole tra loro. Una cosa, però, è la rinuncia forzata ai beni, altro è la sobrietà volontaria. Dobbiamo essere più solari.

Molto onestamente Latouche ha parlato di progetti di decrescita, non di realizzazione, non di programmi politici. Per la verità ha anche indicato un cammino possibile, riassunto in otto punti. Ma sempre, dall’inizio alla fine del suo discorso, ha fatto riferimento a quel tanto di utopia che ogni società ha bisogno di coltivare per non rimanere prigioniero di un presente senza fine. E del resto, cosa sarebbe la vita, anche a livello individuale, senza sogni e voglia di futuro. Certo, a volte i risvegli sono bruschi e da noi, è accaduta una cosa simile a qualche secolo fa, quando ci beccammo la Controriforma, senza gustare i frutti della Riforma. Allo stesso modo, più tardi, da civiltà decisamente contadina questa parte di Mezzogiorno, come altre, ha rincorso con affanno e senza afferrarla l’industrializzazione, per ritrovarsi di colpo in quel luogo, una sorta d’indistinto diffuso, chiamato anche civiltà post-industriale. Produciamo poco o niente e consumiamo anche meno, ma questa non è decrescita. A proposito, che dire del nostro imperituro, onnipresente e scintillante clientelismo? Fino a quando?