Debito pubblico, default, crisi, politiche monetarie, finanza, auditorie, Cassa Depositi e Prestiti, Banca Centrale Europea, patto di stabilità, liberismo, beni comuni, riappropriazione sociale dell’acqua, post-democrazia, impresa, mercato, diritti sociali. Termini emersi durante l’incontro con Marco Bersani, responsabile di Attac Italia, svoltosi il 16 dicembre 2011, sul tema “Debito e politiche monetarie europee” . Qui di seguito gli atti della serata.
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Teresa Ambrico_
Buonasera e benvenuti all’incontro di questa sera, il cui tema è Debito e politiche monetarie europee. La battaglia per l’acqua come risposta alla crisi. Questo nesso lo approfondiamo con Marco Bersani attivista del forum italiano dei movimenti per l’acqua, fondatore dell’associazione Attac: associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie di aiuto ai cittadini. Perché, riteniamo che attraverso questa tassazione sullo spostamento dei capitali, si possano trovare risorse per la realizzazione di progetti sociali. Attac, inoltre, fa parte dei movimenti No Global, protagonisti dei social forum.
Marco Bersani_
Anzitutto grazie per l’invito di questa sera. Proverò a ragionare sul debito e lo farei attraverso un percorso che parte dal referendum dell’acqua dello scorso giugno, perché molti di noi assistono attoniti e annichiliti a questa situazione che ci troviamo di fronte. Provo a partire dal significato del referendum dello scorso giugno, perché la battaglia per l’acqua rappresenta un paradigma di altre vicende attuali.
La maggior parte degli attivisti pensano che la battaglia sull’acqua e il referendum sia stato un vero e proprio miracolo e come tutti i miracoli non sia né spiegabile, nè ripetibile. Per costoro, finita l’esperienza referendaria si è tornati ad una sorta di tranquillità, in un mondo normale, dove i poteri forti si sono depotenziati. Tutto questo grazie alla nostra azione di movimento forte, generoso e attivo, fatto di grandi intuizioni, ma minoritario. Io, invece, penso che il referendum abbia rappresentato una svolta, perché da dopo il referendum nulla sarà come prima. Ciò non significa che tutto andrà bene, ma che si è aperta una fase nuova.
Primo elemento del referendum di giugno è che per la prima volta dopo tre decenni, la maggioranza assoluta dei cittadini ha sconfitto le politiche liberiste. Non è una cosa secondaria, perché questo Paese è sempre stato pieno di conflitti sociali. Però, fino ad ora, nessuna di quelle conflittualità era riuscita a parlare alla massa e a smuoverla in una certa direzione.
Il secondo elemento è che il referendum ha fatto piazza pulita su di uno stereotipo che avevamo da anni e cioè che l’informazione, in questo Paese, avveniva in maniera verticale, dall’alto verso il basso, sostanzialmente un modello televisivo che chiedeva alle persone di essere modelli passivi. Se pensate bene abbiamo messo insieme due modi, molto distanti temporalmente, di comunicare e di informare. Abbiamo riscoperto il modo antico di fare politica, come avveniva negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, quello cioè del contatto diretto con le persone nei mercati, nei quartieri, con la comunicazione diretta, con le nuove tecnologie, internet, la rete, i social network. Cosa hanno in comune queste due modalità? Hanno in comune la modalità orizzontale e non mediata, ovvero la comunicazione diretta dal basso. Chi è venuto a perdere in questo modo di comunicazione è stato il modello televisivo. Non è senza conseguenze, tutto ciò, perché abbiamo vinto malgrado la televisione, e spesso contro la tv. Lo dico perché noi siamo abituati a guardare indietro, abbiamo vinto ma ci raccontiamo che la televisione influenza la gente. Quasi non crediamo in noi stessi. Guardate che la cosa giusta l’ha detta Berlusconi, quando ha affermato che la sua parte politica ha perso il referendum perché hanno sbagliato a comunicare. Berlusconi è una egemonia comunicativa che per due decenni ha plasmato i comportamenti collettivi degli italiani nell’arco di due generazioni. Se non riesce più a comunicare allora vuol dire che il suo messaggio tende ad evaporare, e forse, la sua caduta sta esattamente in questo fatto. Che gli italiani hanno acquisito altre modalità di costruirsi una informazione, ovvero hanno altri modi di accedere alle notizie e alla conoscenza.
Terzo elemento, il referendum ha messo a nudo, in maniera irreversibile, la crisi della democrazia rappresentativa, il che significa non che questa non avesse un significato, ma ha reso chiaro, che il modello politico, legato al modello economico fordista della grande fabbrica, con il posto di lavoro uguale per tutta la vita, era superato. Nella democrazia rappresentativa i bisogni sociali venivano espressi in maniera adeguata dai sindacati e dai partiti politici. Il filo rosso che legava, bisogni sociali, rappresentanza sindacale e politica aveva un suo significato. Per esempio, quando il capogruppo di un partito parlava in Parlamento, non si poteva non dire che quella posizione non fosse il frutto di un ampio dibattito e discussione nelle varie sedi di partito. Quel modello non funziona più e il referendum lo ha dimostrato. Noi siamo riusciti a costruire una partecipazione intorno a un tema, malgrado la politica istituzionale e spesso contro la politica Istituzionale, e abbiamo sviluppato una partecipazione senza precedenti. Hanno votato sì il 77% dei ragazzi dai 18 ai 25 anni. Questo fa piazza pulita di uno stereotipo che hanno quelli della mia età. Ovvero l’idea che i giovani non si impegnavano. Occorre prendere atto di come la categoria che ha più votato ai referendum siano i ragazzi dai 18 ai 25 anni; secondo dato, hanno votato il 27% degli elettori del Pdl e il 42 % della Lega Nord. Questo ci dice che quando il tema è chiaro e gli obiettivi sono precisi, anche nei partiti che funzionano in maniera molto verticale, si evidenzia la disobbedienza. Berlusconi e Bossi hanno detto di non andare a votare e gli elettori hanno disobbedito. Ciò vuol dire anche che il movimento dell’acqua è stato in grado di comunicare dal basso verso l’alto e non come l’ennesimo chiacchiericcio tra centro-destra e centro-sinistra, anche perché abbiamo chiaro che le idee di privatizzazione hanno attraversato tutto l’arco costituzionale e tutte le culture politiche di queste Paese.
Tutti questi punti analizzati, così come questi segnali, ci dicono che per affrontare la crisi, non possiamo, rassegnarci ad un ritorno all’indietro, non possiamo immaginarci che la risposta alla crisi avvenga solo attraverso una risposta istituzionale. Non è possibile accettare che le risposte alla crisi possano avvenire immaginando una società di qualche anno fa che non c’è più. Per ché tutto è cambiato e anche le risposte devono essere diverse. Il referendum ha sottolineato la fine d una favola che ci hanno raccontato 40 anni fa, che prendeva atto di una serie di innovazioni tecnologiche, si pensi al campo della comunicazione, della informatizzazione e campo dei trasporti. Solo per darvi un’idea, vi faccio un esempio. Nel 1600 gli Olandesi coltivavano spezie, ma anche l’Indonesia coltivava la stessa merce, tanto che il valore di quest’ultime faceva cadere il prezzo di quelle olandesi. Così gli olandesi organizzarono e armarono dei galeoni, superarono il Capo di Buona Speranza e una volta giunti in Indonesia e distrussero tutte le piantagioni. Per fare questo ci hanno impiegato 2 anni e mezzo. Oggi tutto questo si può fare con un computer in soli 5 minuti, spostando capitali da una parte all’altra. Capiamo cosa è accaduto. Attività che si potevano fare in 2 anni e mezzo, ora si possono fare in poco tempo e i detentori del capitale hanno detto: bene, possiamo fare dell’intero pianeta un unico grande mercato, non è necessario parlare di economia nazionale e produzione nazionale. Possiamo usare l’intero pianeta. Anzi, se togliamo tutti quei lacci e laccioli, i vincoli sociali, ambientali – figli tra l’altro di culture sconfitte dalla storia – e permettiamo al mercato di dispiegarsi liberamente, tutto ciò produrrà una enorme ricchezza che anche se non eliminerà le disuguaglianze sociali, produrrà benessere per tutti. Questa è la favola liberista. Quando qualcuno ha immaginato che il pianeta dovesse diventare un mercato, l’unico regolatore sociale, in grado di produrre ricchezza e benessere per tutti. Il referendum ci dice che oggi le persone su alcuni temi, non crede più a questa favola. Perché quello che è accaduto nel corso di questi anni non corrisponde a quello che ci hanno raccontato. Cosa è successo. Le disuguaglianze nel pianeta non sono mai state così ampie nella storia dell’umanità come in questi anni.
Analizziamo da dove arriva la crisi. La crisi non arriva dalla finanziarizzazione, questa ha posticipato la crisi. La crisi arriva dal fatto che abbiamo impoverito la maggior parte del pianeta, la maggioranza della popolazione e il modello capitalistico di produzione è arrivato in una fase di sovrapproduzione. Cosa vuol dire questo? Se dividete in due il pianeta, una parte, la maggioranza è stata impoverita e quindi fuori mercato, se anche volesse non può comprar nulla. Contemporaneamente c’è una parte del pianeta, quella cui noi apparteniamo che ha sempre potuto comprare, ma che ha comprato già tutto. Perché possono convincervi con la pubblicità o con la rottamazione dei governi di centro destra e di centro sinistra a comprare la macchina o che ogni 2 anni vada cambiata, ma nessuno può convincervi di comprare dieci automobili a testa. Possono convincere i più giovani con la pubblicità a prendere un telefonino perché quello che ho è obsoleto, ma nessuno può comprare 10 telefonini a testa. Vi è un elemento di saturazione oltre il quale o apro nuovi mercati, o mi trovo in una empasse. Attenzione che quando si parla del pianeta diviso in due, ciò non è solo tra Nord e Sud, attraversa tutti gli Stati e le economie. La Cina che cresce, ad esempio, non è la Cina nel suo insieme, ma un quarto che cresce, che accede ad un reddito medio alto e il resto che sprofonda. Se mi trovo in a situazione in cui quello che produco non lo posso più vendere perché quello che può comprare ha sostanzialmente comprato tutto e chi dovrebbe comprarlo non può comprare più nulla, io mi trovo in un empasse, questo è quello che è accaduto. Si è verificata una crisi da sovrapproduzione che poi è giunta intorno alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso. Che cosa è successo a quel punto? Qualcuno doveva dire che la favola non funzionava e lo abbiamo fatto con il Social Forum a Genova; ma qualcun altro ha detto che quella favola doveva continuare. E allora cosa si sono inventati?
Aprono nuovi spazi ai profitti. Lì comincia l’espansione più grande del settore finanziario con l’unico scopo di mantenere un sistema basato sui profitti che non potevano essere prodotti dall’economia reale. La maggioranza del mercato della Fiat si fa sui mercati finanziari, l’economia reale e finanziaria sono molto mescolati tra di loro. Marchionne ha fatto soldi con il mercato finanziario e non con quello dell’auto. A quel punto essendoci una empasse sul mercato dell’economia reale, si aprono i canali del raggiungimento dei profitti attraverso l’economia finanziaria. Come avviene? Avveniva già in passato con la liberalizzazione dei mercati finanziari, cioè si decide che tutti i capitali sono liberi di muoversi in tutto il pianeta come pare a loro. Un elemento che ci spiega perché in Europa siamo in questa situazione. Se io decido che i capitali possono andare via e nello stesso tempo non metto in piedi una politica fiscale europea, potete immaginare che i capitali finanziari andranno dove troveranno le condizioni di tassazione migliori. Nei paradisi fiscali, dove vengono tassati il meno possibile e siccome, tutti gli Stati inizieranno politiche di abbassamento della tassazione dei capitali, per non perdere i capitali interni e per attrarre i capitali esterni, ecco il patatrac. Un terzo dell’aumento del debito pubblico italiano è tutto qui. Non date retta quando vi dicono che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Il debito pubblico è aumentato esponenzialmente perché sono diminuite le entrate in questo Paese, non perché ci sono state meno tasse, ma perché è diminuita la tassazione dei capitali, esattamente perché per attrarre investimenti è iniziato una detassazione degli stessi. Anche l’evasione fiscale è un aggravante. Se io penso che per far crescere una società debbo favorire i profitti, perché un giorno saranno reinvestiti, decidere di non avere una politica contro l’evasione fiscale è una scelta di politica economica a favore dei profitti. Perché se metto politiche contro l’evasione, i profitti diminuiranno. La liberalizzazione ed i mercati finanziari hanno permesso di non prender atto della crisi di struttura e da sovrapproduzione che c’era in questo pianeta e per 25 anni è partito il cosiddetto boom finanziario, che è stato costellato ogni 3 anni da una crisi.
Altro punto che intendo sottolineare sono i dati della finanziarizzazione. In un anno la quantità in un anno di valore che c’è nell’economia reale (come quella per cui compro un libro o una penna), è pari a 10.000 miliardi di dollari. Nei mercati finanziari questa cifra si fa in 3 giorni. Tanto per fare un esempio. Il mercato finanziario non regolamentato dalla borsa – quello dei derivati e dei titoli tossici -, definito con il termine overdecanter, è pari a 12 volte il pil (Prodotto interno lordo) mondiale. Questo per illustrarvi cosa sia diventata quell’espansione dei mercati finanziari.
In sintesi, cosa è accaduto ai mercati? Per mantenere un modello che non stava più in piedi, da una parte hanno aperto alla finanziarizzazione, ai prodotto finanziari; dall’altra, siccome dovevano continuare a vendere delle cose, si sono orientati alla vendite dei beni comuni. Nel dettaglio, la parte più povera del pianeta non può comprare più nulla, al massimo possiamo andare a depredare le ultime risorse naturali rimaste. A loro non posso far comprare nulla. Devo tornare da voi, ma cosa vi faccio comprare se avete comprato tutto? Se comincio a dire che l’istruzione non è più un dritto ma un bene economico, vorrà dire che una parte di voi non studierà più e una parte pagherà perché se lo potrà permettere. Se comincio a dire che la salute non è più un diritto ma un bene economico, una parte morirà perché si curerà in ritardo, quella che se lo potrà permettere pagherà. Se comincio a dire che il bene acqua è un bene economico, raggiungo il massimo profitto. Perché, mentre per farvi comprare cellulari o macchine io devo spendere in pubblicità, in questo caso non ho alcun bisogno di fare pubblicità per farvi consumare acqua, voi siete necessitati a consumare acqua per sempre. Se quell’acqua è di mia proprietà ho un business garantito da un mercato a domanda rigida. Vuol dire che, indipendentemente da come vanno gli spread e i bond, voi domani mattina vi alzate e consumerete acqua. La parte diseredata del pianeta e che vive con un solo dollaro al giorno, lo spenderà per comprare acqua. Questo è il motivo per cui a un certo punto, i servizi pubblici, i beni comuni, sono entrati nel mirino dei mercati. Questo accade perché non è che è arrivato qualcuno più malvagio di prima, ma è accaduto che se voglio mantenere in piedi questo modello, sono obbligato a mettere i vostri beni comuni, i vostri servizi pubblici sul mercato. Tutto questo a prescindere da chi governa, destra o sinistra. Se decido che questo modello deve proseguire così, lo posso fare in maniera più selvaggia o più graduale, ma la direzione è quella. Per mantenere questo modello economico è inoltre necessario che vengano smantellati tutti i diritti sul lavoro. Questo perché un altro elemento da cui posso trarre profitto è tutto quello su cui, una volta, c’era stato il compromesso tra capitale e lavoro. Il capitale continuava a fare i propri utili, ma grazie alla lotte del movimento operaio, tutta quella condizione aveva prodotto una serie di diritti che oggi, per poter proseguire su questo modello sono incompatibili. Questa è la priorità, tanto è vero che, tornando all’acqua ci dicevano privato è bello e cercavano di convincerci, cercavano di dirci che la loro teoria fosse vera. Ci raccontavano che le privatizzazioni servivano ad ammodernare il Paese, portavano efficienza e abbassavano le tariffe. Oggi tutte queste cose non lo dice più nessuno, non solo perché abbiamo vinto il referendum e la gente non ci crede più. Siamo passati dallo slogan privato è bello a quello privato è obbligatorio. Ci stanno dicendo potete pure pensarlo in altro modo, anzi, avete il dritto di pensare diversamente, ma le privatizzazioni sono una necessità. Sono ineluttabili. Non si può discutere se fare o no elezioni, perché i mercati hanno fretta. Sta accadendo che una serie di diritti che siamo stati abituati ad essere connaturati al modello capitalistico, stanno passando in secondo piano. Per esempio il modello capitalistico porta con sé la democrazia elettiva, con una serie di diritti quali il voto le costituzione. Oggi questa connessione viene messo in dubbio. Forse questo modello è incompatibile con lo stato sociale e con l’anomalia europea. È incompatibile, con la democrazia. Facciamo molta attenzione. Dare per scontato che la democrazia per quanto formale, continui, non è scontato. Per esempio si fa il referendum e si scopre che chi dovrebbe applicarlo, eseguire un voto costituzionalmente legittimo non lo esegue. Qual è la favola nuova che ci raccontano? Ci dicono che siamo come nell’antica Grecia, dove c’erano gli dei dell’Olimpo, figure inconoscibili, distanti, ma che determinavano la vita delle persone. Oggi ci raccontano che esistono queste divinità che si chiamano mercati e che pur essendo distanti e inconoscibli, provano delle emozioni. Infatti i mercati vanno in fibrillazione, si entusiasmano, si turbano, si incolleriscono. Ogni giorno questi mercati provano delle emozioni e come nell’antica Grecia come devono rispondere gli umani? Facendo sacrifici. Per mitigare la collera, per favorire la loro indulgenza. La nuova favola che ci stanno raccontando è questa. Esistono dei mercati e noi dobbiamo sacrificarci. Sperando che non si incolleriscano. La politica è diventata questo, attenzione, non è che fanno un provvedimento e chiedono cosa ne pensano i cittadini, ma cosa ne pensano i mercati. Si fanno i provvedimenti il venerdì e si rimane in ansia per tutto il weekend, per vedere il giudizio dei mercati il lunedì mattina, alla riapertura delle borse.
Questa è la partita che stanno giocando. L’acqua è un esempio emblematico perché sull’acqua non abbiamo fatto un referendum culturale, vale a dire noi abbiamo cambiato culturalmente questo Paese, non abbiamo fatto un sondaggio di opinione. Il primo quesito diceva no alle privatizzazioni, il secondo diceva no ai profitti sull’acqua, sottolineava in fin dei conti che alla vostra fiaba non ci crediamo più e che forse, per uscire dalla crisi, occorre che ricominciamo a rimetter in mano alle persone i temi che li appartengono. Loro come hanno risposto? Passando dal convincere le persone nei confronti di qualcosa, all’imposizione della stessa. Il fatto che non ci possono convincere ma ci devono imporre è un segnale di debolezza. Quello forte deve convincerci con l’affabulazione, l’imposizione la si fa con la forza. Senza consenso è complicato tenere le persone solo con l’imposizione. Sull’acqua ci stanno provando. Il primo quesito diceva abroghiamo l’articolo 23 bis, cioè l’obbligo di privatizzazione di tutti i servizi pubblici, compreso l’acqua. Non sono passati 15 giorni dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, che il Governo Berlusconi ha approvato l’articolo 4 e 5 che è esattamente la fotocopia dell’articolo 23 bis. Sul secondo quesito dove abbiamo detto avete una tariffa composta di tre parti. Costo di esercizio, l’ammortamento degli investimenti e l’adeguata remunerazione del capitale, che altri non è che il profitto garantito per i gestori. Bene, quella parte va tolta. La Corte Costituzionale, quando ha ammesso il nostro quesito ha detto chiaramente “… è intenzione dei referendari arrivare a togliere i profitti dalla gestione del servizio idrico”. L’eliminazione di quella parte dalla tariffa, non comporta alcun problema sui costi del servizio, perché i costi continuano ad essere coperti. Ciò che non sarà più possibile è il guadagno del gestore. Ancora, in qualunque Paese democratico, il quesito se vince, è immediatamente applicabile. In Italia, invece, accade come se dovessimo fare ancora il referendum. Trovi partiti e amministratori che dicono, “…ma se togliamo l’adeguata remunerazione del capitale investito succede questo o quest’altro”. Benissimo. Ma abbiamo già votato, non è che dobbiamo votare un’altra volta. Se anche uno la pensa in altro modo, deve prendere atto che la maggioranza si è già espressa. È questo il vulnus democratico gigantesco. Fanno un ricatto agli enti locali, i quali anziché essere i responsabili istituzionali di prossimità, si fanno promotori della redditività delle risorse comuni. Gli enti locali se continuano così scompaiono. Devono cominciare a ribellarsi. Devono cioè avere come punti di riferimento gli abitanti del loro territorio e non le banche, i poteri finanziari. Perché il governo ha confezionato un prodotto molto particolare, preciso. I servizi pubblici locali vanno messi sul mercato obbligatoriamente, sempre escluso il servizio idrico. Secondo, gli Enti locali che mettono sul mercato i servizi pubblici, i soldi che ricavano possono utilizzarli per attività, perché non saranno conteggiati nel patto di stabilità. Ciò vuol dire che li potranno spendere immediatamente. Domani vi troverete che se la vostra amministrazione vuole fare cassa, un asilo nido, mette sul mercato il trasporto pubblico e se voi gli dite non puoi privatizzare il servizio di trasporto, lui vi dirà che voi siete contro l’asilo e così via.
Oltre questo, il Governo ha indicato con la legge di stabilità dello scorso novembre, che le liberalizzazioni vanno fatte obbligatoriamente entro il 31 marzo, ed i Comuni che non ottemperassero a questo sarebbero commissariati fino alla decadenza dei Sindaci. Questo per dire quanta autonomia abbiano i Comuni. Ma io faccio un appello agli Enti locali affinché non subiscano passivamente la questione. Un esempio è il Comune di Napoli che ha subito trasformato l’acquedotto in un Ente di diritto pubblico. Si può fare subito. Non c’è nessuna conseguenza, né per l’azienda, né per gli operai e considerate che l’azienda speciale non rientra nel patto di stabilità.
Togliendo le Spa e rimettendole all’interno del pubblico, risparmieremmo le tasse, perché c’è un paradosso. Le Spa, essendo enti di diritto privato pagano le tasse allo Stato. Pensate a che gioco assistiamo. Lo Stato ogni anno diminuisce i trasferimenti agli Enti locali e questi, avendo meno soldi, esternalizzano i servizi e costituiscono le Spa, dando soldi allo Stato nel pagare le tasse. È un circolo vizioso perfetto. Perché gli amministratori locali fanno questa operazione incomprensibile? Chiediamocelo e facciamo pressione sugli stessi.
Veniamo alla crisi e alla situazione attuale. La mia idea è che la Grecia sia già in default; se la Grecia si trovasse tra Laos e Birmania lo avrebbero già detto, ma poiché si trova in Europa, non dicono nulla del fallimento dello Stato greco. Perché? Perché se lo dicono, salta tutta l’Europa. Sapete come stanno salvando la Grecia? Facendo scomparire qualsiasi bene pubblico, ogni cosa viene messa in vendita e tagliando gli stipendi. La BCE dà i soldi alle banche private all’1% che a loro volta danno i soldi alla Grecia al 15%. Chiaro quale sia il meccanismo di salvataggio della Grecia. In Italia è la stessa cosa, solo che l’interesse non è al 15%, ma al 6/7 %. Pensate che se sul debito di quest’anno devo pagare il 6% come interesse, come lo pago se la crescita l’anno venturo sarà prossima allo 0,5%? Con un altro debito e quindi il nostro debito pubblico aumenterà. E’ un circolo vizioso che va avanti all’infinito. La Grecia, già in default è un esperimento interessante per dirci come funziona la democrazia. Ricordate che il ministro greco Papandreu aveva chiesto facciamo un bel referendum, salvo dopo poche ore rimangiarsi tutto, si è dimesso e poco dopo è giunto il vice della BCE, tanto per dirvi il rapporto tra democrazia, economia e politiche monetarie europee. La Grecia, però, è da tre anni che applica le richieste della BCE, mentre noi siamo all’inizio dei tre anni. Allora abbiamo davanti un esempio molto chiaro di decisioni prese dalla BCE non ottimali per il sistema greco, tali da portarlo al fallimento. Perché non siamo come la Grecia? Perché noi abbiamo dei tesori giganteschi di proprietà pubblica. Non analizziamo come vengano gestiti. Adesso ci interessa la dimensione di questo tesoro. L’Italia ha qualcosa come 172 miliardi di euro in immobili statali, comunali, in poche parole di proprietà pubblica; 158 miliardi di euro, come portafoglio residenziale pubblico (quello che si muove intorno agli appartamenti pubblici); e 12000 Società partecipate statali a tutti i livelli, dove il pubblico ha un capitale investito. A tutto questo si deve aggiungere una cosa che ci differenzia ancor di più dalla Grecia: la Cassa Depositi e Prestiti. Esiste ancor prima dell’unità d’Italia, ed era una cassa pubblica fino al 2003 raccoglieva il risparmio postale dei cittadini e lo utilizzava per permettere a tutti gli Enti locali di poter accendere mutui, fare investimenti per poter produrre cose necessarie (asili nido, strada, etc.). Tutti gli Enti pubblici accendevano un mutuo a intereresse calmierato del 2%. Nel 2003 si è privatizzata la Cassa, è diventata una Spa, facendo entrare il capitale privato con le fondazioni bancarie tra i quali la Unicredit, la San Paolo, il Presidente dello Ior, per il 30%, mentre il 70 % è rimasto allo Stato e precisamente al Ministero dell’Economia. Da quel momento ha cominciato a fare due cose, non più solo una: continua ad avere la funzione di finanziare gli Enti locali, ma li finanzia secondo le condizioni di qualsiasi banca privata. Le banche sono così entrate per evitare che gli enti locali avessero un credito agevolato. Peccato che la Cassa, per legge, venga considerata come servizio pubblico. Infatti per legge ogni finanziamento dato dalla Cassa va considerato servizio di interesse generale. Vuol dire che è un servizio pubblico, mentre adesso non lo è più perché è un normale servizio bancario. Dicevamo che la Cassa oltre alla sua solita funzione di prestare denaro agli Enti locali, effettua anche altre operazioni, ovvero, con i soldi che raccoglie opera sui mercati finanziari, rientrando in otto fondi di investimento, 3 dei quali sono nei paradisi fiscali. La Cassa Depositi e Prestiti appartiene allo Stato per il 70% e possiede fondi in paradisi fiscali. Ne consegue un controsenso sul tema dell’evasione fiscale, dove lo Stato italiano è dentro i paradisi fiscali.
Ancora un esempio, pensate a questo paradosso. La Cassa finanzia le grandi opere pubbliche. Qualunque cittadino apre un conto postale, la Cassa investe in una grande opera pubblica quale può essere la Tav e capita che lo stesso cittadino manifesti contro la tav. E’ sempre la Cassa a finanziare il percorso universitario degli studenti con il prestito d’onore, introdotto dalla riforma Gelmini.
Per darvi un’idea della grandezza della Cassa vi dico che il suo movimento, ovvero la raccolta del risparmio postale è pari a 225 miliardi di euro l’anno. La sola Unicredit ne fa 40 miliardi. Questo per darvi l’idea della grandezza della Cassa che, inoltre, ha una liquidità di 128 miliardi di euro. Allora è possibile che tutto questo risparmio dei cittadini, una volta finalizzato a favorire la produzione di servizi agli Enti locali, oggi possa essere utilizzato per stare dentro il mare magnum dei mercati finanziari? Crediamo di no. Occorre fare una battaglia da parte dei cittadini e degli Enti locali per ripubblicizzare la Cassa, affinché torni ad essere quella che era. Per quale motivo bisogna far questo? Per spiegarlo facciamo un esempio. Facciamo finta che in Basilicata ripubblicizzino l’Acquedotto Lucano. Una volta ripubblicizzato il tutto, si avrà un problema: serviranno 60 miliardi di euro per il rifacimento delle reti idriche e che con l’attuale normativa tutti i costi andrebbero ad gravare sulla tariffa. Così se volessi fare degli investimenti, dovrei aumentare le tariffe. Ma il movimento referendario ha evidenziato che la tariffa ci vuole, ma il servizio, essendo pubblico, deve riaprire la porta della fiscalità generale e quindi va riaperta la finanza pubblica, ovvero la Cassa Depositi e Prestiti. Perché se vado alle banche per farmi credito, creeranno i derivati. Molti Enti locali si troveranno strangolati, perché quando arriveranno a scadenza i derivati, ci sarà debito per tutti. Se la favola del mercato che decide tutto è finita, dobbiamo cominciare a dire quali sono i limiti del mercato. Esiste un pezzo dove il mercato non deve entrare, quello dei beni comuni naturali e sociali. I primi sono quelli che esistono da sempre, terra – acqua – fuoco – aria e che permettono la sopravvivenza dell’uomo. Acqua – aria – territorio – energia gli elementi declinati e tradotti nel terzo millennio. Sono beni che, ripeto, permettono la vita, e come tali possono essere regolati dal mercato? No! Perché vanno conservati per le generazioni successive. Se io faccio i soldi dal massimo consumo di acqua e di territorio è evidente che non conservo questi beni per le generazioni future, oltre a far vivere male le generazioni presenti. C’è una incompatibilità fondamentale tra mercato e beni comuni. Poi esistono i beni sociali, i quali non esistono dalla notte dei tempi, ma sono il risultato dell’emancipazione umana, e sono l’istruzione, la salute e la previdenza. Sono diritti conquistati. Anche quelli non possono essere regolati dal mercato, garantiscono la sopravvivenza dignitosa. Si può vivere senza essere istruiti, si può vivere senza una casa, ma si vive male. Tutti questi beni servono alla qualità della vita delle persone. Cominciamo a proporre l’idea di tracciare un cerchio dove siano compresi i beni comuni sociali e naturali che, necessariamente, debbono andare fuori dal mercato. Questo significa proporre una strada diversa per uscire dalla crisi.
Va fermata la completa liberalizzazione dei mercati finanziari. Se non ritorna il primato della politica sull’economia non se ne esce. Non può essere l’economia a prendere le decisioni, il che vale per la BCE, istituita non solo come Ente autonomo dai Governi, ma con uno specifico compito. La Federal Reserve degli USA, nel I articolo del suo Statuto sottolinea che le politiche monetarie hanno come obiettivo il benessere dei cittadini americani. Quanto meno lo hanno messo nero su bianco. Il primo articolo della BCE indica, invece, che l’unico compito è quello di garantire la stabilità dei prezzi, il controllo dell’inflazione e la tutela della concorrenza. Facendo questo la BCE prende decisoni che sono in completa autonomia rispetto a quelle stabilite dai parlamenti, ovvero dalle sedi democraticamente elette. Ovviamente va riformato tutto il sistema europeo. A cominciare dal Parlamento europeo che non ha alcun ruolo, se non subalterno alla commissione europea, nominata dagli Stati. Ma capite la debolezza politica di una formazione europea simile. Bisogna cominciare a dire che se dobbiamo salvare l’Europa, dobbiamo combattere questo modello Europeo. Se invece si dice che l’Europa è intoccabile, a prescindere, questa salterà. Fermare i mercati finanziari vuol dire quello che ha detto ieri Monti, cioè sì alla tassazione sulle transazione finanziarie. Attac nel2002 haproposto la Tobin tax. Se si iniziano a controllare tutti i capitali, si comincia a fermare tutta la speculazione finanziaria. Questa però, oggi come oggi, è utile ma non sufficiente. Adesso è molto peggiorata la situazione. Cosa vuol dire la tassazione sulle transazioni finanziarie? Significa che per ogni transazione che si fa metto una piccolissima tassa. Questa è del tutto insignificante, per chi fa due transazioni l’anno, ma per chi effettua decine di migliaia di transazioni l’ora, gli speculatori, non lo è. È chiaro che mettendo una tassazione su questo, si avrà un rallentamento della speculazione, ma non la si elimina; e inoltre si raccoglie un gettito che, secondo alcuni calcoli raggiungerebbero 12 miliardi di euro l’anno.
Altro elemento da sottolineare è che il debito debba essere discusso da tutti attraverso una auditoria dello stesso. Vuol dire analizzare questo debito da dove arrivi, chi l’abbia provocato e nei confronti di chi siamo debitori. Perché va pagato il debito legittimo e ridiscusso e in parte non pagato, rinegoziato il debito illegittimo. Non paghiamo il debito è uno slogan molto comunicativo, ma non tiene conto di altri dati. Cosa facciamo adesso? Discutiamo tutti da dove arriva quel debito. Perché una parte del debito è fatta con i cittadini, 14% sono dei risparmi delle presone normali, di chi ha investito in Titoli di Stato. A questi va pagato. C’è una parte del debito, invece, che è con il mondo bancario e finanziario, allora quello io lo voglio discutere, perché vorrei capire esattamente da dove e perché arriva. C’è una parte del debito che arriva dalla corruzione. Nel nostro Paese la costruzione di un’autostrada costa 10 volte rispetto a quanto costa in Francia, solo perché vanno oliati i meccanismi burocratici con le tangenti. Il debito dovuto alle tangenti le dobbiamo pagare noi? No! Non voglio pagare la corruzione. Si sono fatte scelte di tipo economico che hanno prodotto il debito e se queste non sono andate in direzione del cittadino, dello stato sociale, allora non bisogna pagarle. Se dobbiamo comprare i cacciabombardieri F35, perché i Governi di Centro-destra e di Centro-sinistra hanno deciso che vanno comprati, noi non li paghiamo. Devono decidere tutti i cittadini. Bisogna fare un’auditoria del debito e dopo averlo analizzato, indicare quale parte pagare e quale si rinegozia. Questo è ciò che si può fare in l’Europa. Perché bisogna fare attenzione quando dicono se siamo in Europa bisogna pagare tutto quello che dicono, altrimenti usciamo fuori dall’euro. Chiarisco che non sono per l’uscita dall’euro, chi dice di uscire, nasconde le gravi conseguenze che ciò avrebbe sulle classi meno abbienti. Altra cosa è dire: “a queste condizioni non ce la facciamo, ridiscutiamole”. Se poi lo facciamo insieme a Grecia, Portogallo, Spagna e Francia, manifestiamo la nostra debolezza di essere in una situazione di difficoltà, ma nello stesso tempo la forza di dire che se noi usciamo dall’Europa questa crollerebbe. Quindi l’Europa ci deve ascoltare, non ci può sbattere fuori. Dire all’Europa discutiamo del debito, ne rinegoziamo una parte, vuol dire anche quale Europa mettere in piedi. E quindi poiché è stata costruita su di una moneta – è la prima volta nella storia dell’uomo che si è coniata una moneta senza avere uno Stato -, ma abbiamo lasciato intatte le disuguaglianze nei Paesi che avevano iniziato questo cammino. In più abbiamo aggiunto i Paesi dell’Est che erano in condizioni assai diverse rispetto a quelli Occidentali. Se si è costruito in questo modo sbagliato l’Europa, allora la crisi non è perché si è vissuto al di sopra dei propri mezzi, ma che l’insieme delle regole messe insieme intorno alla moneta, erano sopra il livello dei Paesi che partivano da condizioni sociali, economiche e politiche diverse. Discutiamone. Ecco che si arriverebbe, nel breve termine ad un euro a due velocità. Un euro del Nord e un euro del Sud, che evidenzierebbe un patto di stabilità per i Paesi del Nord e uno per quelli del Sud. Dopo questa prima fase, occorrerebbe guardare a medio e lungo termine, trasformando il patto di stabilità, perché occorre capire perché le spese sociali rientrino nel patto di stabilità, mentre quelle militari no. Questo è il vero punto. Nel patto di stabilità rientra solo il personale militare in quanto inclusi nella pubblica amministrazione, mentre non rientrano le spese degli armamamenti. Occorre ribadire che se abbiamo tirato un cerchio dove ci sono servizi pubblici, beni comuni, che devono essere garantiti, allora le spese che garantiscono quei beni comuni non devono entrare nel patto di stabilità, mentre le spese militari devono entrare nel patto di stabilità. Ovviamente devono esservi dei limiti di spesa.
Un altro nodo gigantesco è la questione ecologica. Mentre prima quando vi era una crisi da sovrapproduzione si poteva utilizzare il capitale natura, sfruttare la natura, adesso quella parte lì ha dei limiti giganteschi. Non è più un capitale inesauribile, non sia più un pozzo senza fondo. L’unica strada possibile è che questo modello non è più percorribile e quindi dobbiamo pensare ad un nuovo modello. Esempio: chi l’ha detto che noi dobbiamo intervenie solo a valle dei processi, come per esempio nel consumo critico. Dignitosissimo, ci aiuta a cambiare la mentalità. Perché ci fermiamo a valle? Dobbiamo pensare di andare dal consumo critico alla critica della produzione. Se usciamo dalla crisi dobbiamo continuare a produrre macchine? Noi usciamo dalla crisi se cominciamo a dire che vanno prodotte le cose che soddisfano il fabbisogno sociale e ambientale delle persone e dei territori. Ciò vuol dire che certe produzioni si fanno ed altre no Ma per fare questo ci vuole una finanza pubblica, un Governo e un Parlamento che decidano e forse un altro modo di democrazia dove decidiamo tutti. Perché finché domina il mercato il petrolio sarà estratto finché non diventa più economicamente sostenibile. Non è un caso che aumentano gli incidenti sulle piattaforme perché con le trivelle vanno a maggiori profondità nei mari per l’estrazione. Utilizziamo i fondi per altre azioni, non accettiamo come ineluttabili le cose che raccontano come definitive. Dobbiamo cominciare a capire che il modello che perseguiamo attualmente è insostenibile perché rincorreremo sempre i mercati e il debito.
L’Europa è sotto attacco degli Stati Uniti?
Questa idea è riduttiva perché la visione che l’accompagna è che ci sia un’unità politica sia in Europa che negli USA. Ma ciò non è vero per l’Europa. Però ci sono entità che prendono decisioni. Monti quando era consulente della Goldman & Saks, è uno di quelli che ha inventato i derivati. Li ha pensati e fatti. Il problema è globale e non solo europeo. Il vero problema è che con questa crisi è venuto alla luce il fatto che l’Europa non esiste come comunità politica, sociale, fiscale. L’Europa ha una doppia pressione quella della crisi statunitense, trasportata in Europa, e la situazione geopolitica complessiva del mondo intero. Tra due secoli si penserà al declino dell’impero americano molto lento, come accadde per quello romano. C’è una riorganizzazione geopolitica del mondo. Basti dire della Cina, una parte del debito pubblico degli USA è in mano alla Cina. La crisi degli Usa è dovuta al debito privato. L’Italia, invece ha un debito privato basso, al contrario di quello americano. Il problema è che sia gli USA che l’Europa hanno abdicato alla politica, mostrando una crisi della democrazia attuale e della decisione democratica, consegnandosi totalmente al mercato. Penso che la campagna contro la casta sia falso, perché quello che dovremmo imputare a tutti i politici è che hanno consegnato i poteri democratici ai mercati finanziari. Sono questi che hanno espropriato i luoghi delle decisioni democratiche. Noi votiamo consiglieri comunali che amministrino i beni comuni. Poi una volta giunti in consiglio comunale scoprono che l’acqua la discute il consiglio di amministrazione dell’ente acqua; analoga cosa per i trasporti e così via. Non ci sono consigli di amministrazione che siano stati eletti da tutti noi e che invece discutono di cose che ci ricadono sopra. La questione fondamentale è che nove grandi banche e trentacinque multi nazionali prendono decisioni sul governo del mondo. C’è un problema di ricostruire i luoghi della democrazia. Gli USA sono attraversati, come l’Europa da direzioni di potere che stanno cercando di capire come si ridisegna la geopolitica mondiale. Il problema è che occorre ricostruire i luoghi dove i ruoli siano chiari e le persone possano partecipare alle decisioni, altrimenti ragionare su di uno scontro tra Europa e Usa non aiuta, perché entrambi sono attraversati trasversalmente da lobbies finanziarie e militari affaristiche, che inevitabilmente, con le loro scelte fanno ricadere le problematiche sulla gente.
Siamo in una fase di post-cpitalismo?
Per me siamo in una fase di post democrazia per come l’abbiamo conosciuta. Il governo Monti non è un Governo di unità nazionale, è un Governo Costituente perché in Germania. la grande coalizione, è stata scelta dai partiti politici, mentre in Italia c’era un Presidente del Consiglio incapace di prendere decisioni. Così la BCE ha deciso di governare e ha sussunto un pezzo di parlamento dentro. Ascoltiamo le dichiarazioni di voto dei vari partiti. Il Pd dice se avessimo governato noi; lo stesso il Pdl, però votano lo stesso provvedimento. Ci si stupisce che facciano i talk show, perché cosa hanno da dirsi se votano la stessa manovra? L’elemento nuovo è che questo modello comincia a pensare come un problema l’esistenza della democrazia formale. È un pezzo costituente su cui ragionare. Ma siamo così sicuri che nel 2013 si voti? Io non so, presumo di sì, però non diamo per scontato le cose. Sulla questione del capitalismo l’unica possibilità che ha l’intero pianeta di uscire dall’empasse è uscire dal capitalismo. Come faccio a capire questa cosa? Anche qui mi rifaccio al referendum dell’acqua. Se fossi andato a dire che l’acqua deve essere pubblica perché il capitalismo non funziona, non avremmo raccolto neanche una firma. Va ridefinito il linguaggio a quello che succede, perché le persone all’idea del capitalismo o meno, innescano dei meccanismi per cui la cosa non li interessa e non li attira. Le persone hanno bisogno di capire che cosa accade sulla loro quotidianità, con un modello piuttosto che con un altro. Il problema è come costruire un altro modello sociale. Oggi credo che il problema sia la riterritorializzazione, della produzione della distribuzione del consumo e della democrazia. Sono per la globalizzazione della cultura e dei diritti. Ci sarà la necessità di ridistribuire alcune mansioni fra tutti, mentre altre cose non potranno essere decise territorialmente. Ovviamente non tutto potrà essere territorializzato, serviranno anche ragionamenti più ampi. Ad esempio una ferrovia nazionale non la può costruire, pezzo per pezzo, ogni singolo Comune, ma dovrebbe essere gestita da Enti sovra territorriali. Nel campo dell’energia, l’unica cosa democratica è esattamente l’autoproduzione distribuita sul territorio. Perché se si passa dall’utilizzo del petrolio all’eolico noi ci consegniamo ai poteri forti, ovvero a coloro che gestiscono le centrali nucleari, il petrolio, l’eolico e il fotovoltaico in Italia. Saremmo ricattabili. Occorre ragionare sulla riterritorializzazione della produzione energetica, tenendo conto che non è sufficiente. In un territorio si può organizzare la democrazia partecipativa, ma per un territorio più ampio, occorrerà ragionare su un misto di democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa. Allora forme di rappresentatività di scopo, a tempo e con mandato revocabile. Ci sono momenti in cui serve il movimento dell’acqua, ma non è che tutti possiamo partecipare a tutte le decisioni. Però diventa rappresentanza per quello scopo e in quel momento, poi finisce lì. Mi rendo conto di come sia un lavoro gigantesco che arriva dopo venti anni di individualismo nel nostro Paese. Il problema è ricostruire i luoghi della partecipazione. Oggi è più facile far capire alcune cose perché la crisi è manifesta. È il terreno giusto perché le persone sono permeabili, curiose, si guardano in giro. Ci sono 27 milioni di persone così.
Rapporto tra Stato e proprietà privata?
Il rapporto Stato-proprietà privata. Non sono per l’equivalenza dell’espropriazione. Non condivido il Professore Ugo Mattei nell’indicare come Stato e proprietà privata siano equivalenti nelle loro azioni. Al contrario sono per un ragionamento del tipo che non occorra parlare di nazionalizzazioni o di statalizzazioni, ma di riappropriazione dei cittadini, ripubblicizzazione e risocializzazione. Perché la vera partita è la democrazia partecipativa. Se questa parte dall’alto è una presa in giro. Non si comprende come mai un sovrano, anche se illuminato, dovrebbe cedere un pezzo di potere. Credo che Sindaci e amministratori debbano essere permeabili e non i motori della partecipazione. Ma se si produce mobilitazione gli amministratori devono essere permeabili, non che devono pensarla come tutti noi, ma devono mettere in conto che se si muove la cittadinanza intera, non possono non ascoltarla, devono avere quell’osmosi di costruzione collettiva di una decisione. Anche qui, l’esempio dell’acqua è emblematico. Il passaggio da Spa a Enti di diritto pubblico degli acquedotti toglie l’obbligatorietà del profitto e inoltre istituisce un consiglio di sorveglianza composto da lavoratori del servizio idrico, eletti dai lavoratori stessi – e non sono i sindacati -, e da rappresentanti del comitato degli utenti del servizio acquedotto. La nuova strada è quella della partecipazione. Il bilancio idrico non potrà essere elaborato dalle ATO, ma da strutture più grandi, quali le Regioni e così via. Dobbiamo prendere esempio dagli Indiani Dakota i quali nelle loro decisioni valutavano le ricadute delle loro azioni fino alla settima generazione. Questo per dirla come dobbiamo affrontare le modalità di scelta nei confronti dei nostri posteri.