I racconti "brevissimi di Energheia"

I Brevissimi 2025 – Estate, Adelisa Corbetta_Milano

Anno 2025 (Le stagioni: Estate) – finalista

Genovesi era il nome di una spiaggia, anzi due, perchè quando si arrivava sullo sperone vicino al chiosco dei gelati in fondo al sentiero, ce n’era una piccola a sinistra e a destra una grande.

La piccola era un triangolo fatto di ciottoli, ai piedi di una parete di pietra da cui spuntavano, verso il cielo, canne alte quanto un uomo; un fossatello le arrivava opposto al mare e scorreva di nascosto sotto i sassi per rispuntare a riva. Nelle anse gli crescevano gigli d’acqua. A destra c’era la grande, lunga forse trenta metri. In fondo vi si allargavano scogli piatti e lisci dove il mare entrava lasciando pozzette di sabbia e acqua che s’intiepidiva al sole del giorno. Su quei massi appoggiavamo i vestiti al rovescio, che non si scolorissero per la luce.

Mia madre indossava un prendisole a quadrettini bianchi, rosa e grigi, con un coprispalle della stessa stoffa; portava una borsa a fiori, plasticata, che avrebbe sistemata all’ombra in un posto diverso ogni volta e dove non saremmo andati a frugare: c’erano asciugamani, cappelli di cotone, merende, una bottiglia di vetro tappata con sughero e piena di caffelatte.

Si prendeva la corriera delle tre e cinquanta; io e mio fratello aspettavamo sul muricciolo sotto un sole che ci dava noia e che poi ci avrebbe riscaldato, al mare, usciti dall’acqua. Se l’attesa era lunga, la mamma, di fronte all’impazienza, ci diceva di contare a voce alta. Quante volte fino a sessanta? Secondo i minuti mancanti, ma per magia il bus compariva all’inizio del rettilineo. Ci si teneva ben saldi alle spalliere e ai corrimano perchè la strada era tutta una curva. Nessuno scendeva con noi alla fermata del ristorante Rosa: non un filo d’ombra, asfalto molle e rovente. Più oltre, gialla e assolata, c’era la “Casa dei marinai”, inalzata verso il cielo e quasi sostenuta da due palme che sfidavano il vento. Qualche anziano signore, specie la sera quando tornavamo, stava ingomitato al parapetto del giardino, guardava i passanti e ci faceva un cenno. Ancora dopo, sulla sinistra, il mattatoio. A volte scaricavano qualche animale, un vitello slittava ostinato sullo scivolo lucido e non voleva entrare là sotto nel buio, ma vinceva sempre l’uomo che lo tirava e lo spingeva. Più avanti ancora si poteva vedere la spiaggia grande, sporgendosi un po’ dalla ringhiera di una piazzola coperta di ghiaia. Col mare “grosso” non era facile fare il bagno, per via dei ciottoli: l’onda li risucchiava e alle caviglie venivano i lividi. In genovese, dicevano gli adulti, “mare” si dice come “male”: ma. Se c’era bonaccia però, l’acqua era calma, coperta di stelle intermittenti; le grida dei bambini invitavano, come i colori e il brulichio di una festa, da lì a poco.

Tra la spiaggia grande e la piccola si sceglieva, dove c’era più o meno gente specie se conosciuta, secondo la disposizione del giorno a conversare. Se veniva mio padre, ci raccomandava che nuotassimo con la riva a destra o a sinistra: “andare in parallelo alla spiaggia”, diceva. Non sbagliavamo, con le ascelle strette da un salvagente a forma di cigno bianco e verde le cui ali erano state legate dietro, per sicurezza. Il papà portava calzoncini di lana e ciabatte di cuoio sottile che nell’acqua diventavano nere; le chiamava “le zibre”. Entrare in mare coi sandali, io non dovevo. Lui le metteva anche in casa col pigiama, le “zibre”, o giusto alla spiaggia; col tempo la parte di suola dietro ai talloni si era fatta lunga quanto il piede, bianco e magro che sporgeva davanti. A volte in riva al mare mio padre si fermava, metteva giù un ginocchio e mi faceva salire coi piedi sopra le sue spalle; guardarlo al circo, quel gioco fatto svelto dai saltimbanchi, mi piaceva e mi stupiva, lì con l’andare avanti e indietro dei sassi e dell’acqua, mi dava paura. Prendeva le mie mani e poi “Alzati!” diceva imperioso, “Alzati! Guarda avanti!”. Non potevo non farlo, mollavo, ubbidivo; il cuore batteva, non potevo non farlo. La vista si annebbiava per poco, trattenevo il fiato, cercavo muta la gente, ma era lontana. Noi sembravamo un campanile, nell’ombra in basso che dondolava e si voltava un po’ verso la spiaggia e poi verso mia madre. Lei sorrideva e salutava con la mano, ma era lontana. Ancora qualche passo e potevo scendere, era tutto passato: sentivo di nuovo la sabbia sotto i piedi, di nuovo l’acqua che li circondava e ancora il caldo del sole.

Quando al mare veniva solo la zia cercavamo le “pietrine” colorate, e priette, e lei veniva con noi; quelle davvero rare erano turchesi. Se non stavano più nel cavo della mano sinistra, cercavamo un posto, un buco dove nasconderle e ritrovarle. Tante volte andavano perdute e bisognava scegliere il nascondiglio con sempre più cura: una piccola rientranza coperta da un pietrone, un involto seppellito nella sabbia vicino alla scala, con un rametto piantato lì sopra.

Al largo qualcuno staccava qualcosa da uno scoglio con un coltellino e poi tornando a riva, ci offriva le patelle dal colore bianco e il gusto buono, come di pinoli: una galanteria verso una signorina quella, mascherata da coccola verso i nipoti di lei.

Dopo anni, adulta, sono tornata a Genovesi, ma mia madre era morta. Si faceva poco caso alla strada, forse per il tramonto o la malinconia: c’era la zia, mio padre, una cugina: volevamo sorridere, ridere magari, e cenare sui massi piatti della spiaggia grande. Avevamo parcheggiato poco distante. Il fossatello s’era fatto rigagnolo, con acqua gialla, bottiglie abbandonate, lattine e in fondo al sentiero, al bivio, il chiosco era chiuso, col cartellone dei gelati posato lì a terra, piegato e arrugginito come la lamiera del tetto, il catenaccio e il lucchetto sulla porta. Scendemmo la scala; il rumore dei passi era lo stesso, come quando si arrivava e allora voleva dire la promessa di un pomeriggio felice. Camminai un po’ in riva al mare: poche priette, tutte verdi. Due bambini giocavano ancora con la sabbia mentre una donna li chiamava: raccogliete i giochi, è tardi. Pensavo a mia madre che non c’era. Poco lontano dormiva una lancia dal fasciame riarso e grigiastro, in una pozza d’acqua ferma. Mia madre non c’era più. Posammo le borse: metà dello spazio lì intorno era quasi già in ombra e il fresco umido scivolava sul corpo. Prendevamo le cibarie dalla borsa, gli involti di alluminio, la bottiglia dell’acqua e li posavamo sui massi piatti.
Mio padre, seduto in riva al mare, guardava il tramonto e gli tremavano le spalle.
Piangeva.
Io, dietro di lui, fissavo una boa lon mentre un panino morbido e buono, ora non aveva sapore e non mi scendeva giù per la gola.

Non so più se la grande e la piccola esistano ancora.