I racconti del Premio letterario Energheia

Cose non dette, Giulia Orsini_Caserta

Finalista Premio letterario Energheia 2023 – sezione giovani

Era una sera di giugno.

Mentre camminava a passo spedito, ammirava il cielo dipinto di tracce del tramonto. Strisce colorate riempivano l’enorme tela che si staglia sopra il mondo. Sentiva gli uccellini cinguettare in lontananza. Un leggero vento le scompigliava i capelli. Una lunga chioma di capelli castani chiari le scendeva sulle spalle. Era circondata dal silenzio, solo di tanto in tanto si udivano le voci soffuse di persone che chiacchieravano lungo la strada. Guardando verso il palazzo di fronte a lei, su un terrazzo del terzo piano scorgeva una coppia di anziani seduti vicini a prendere un po’ d’aria, forse per sfuggire al caldo dell’estate che ormai era chiaro fosse arrivata. Lui leggeva il giornale, lei aveva lo sguardo rivolto alla strada. Si stringevano la mano e sorridevano. Ciò che accumuna le persone in fondo è l’amore. Sorrise anche la ragazza, cercando di attenuare la sua agitazione. Abbassò gli occhi verso un diario che teneva tra le mani, insieme ad una lettera. Era uno dei tanti diari su cui aveva scritto pezzi della sua vita, forse per ricordarsi per sempre che è proprio grazie a questi pezzi che sta piano piano prendendo forma il puzzle della sua vita. Pezzo dopo pezzo. Fece scorrere le dita sulla copertina, piena di disegni di cui alcuni in rilievo. Il diario le era sempre piaciuto proprio per questo. In un angolino della copertina era disegnato un fiorellino, una margherita per la precisione, con i suoi petali bianchi come la neve. Le erano sempre piaciute le margherite, da piccola le coglieva nel suo giardino per regalarle alla mamma o alla nonna.

Aveva scovato il diario quella mattina in una scatola abbandonata nel suo armadio. Qualche anno prima aveva deciso di raccogliere tutti i suoi diari segreti in una scatola, così da non perderli mai. Quello che aveva in mano in quel momento era l’ultimo su cui aveva scritto. Era sempre stato il suo preferito. Forse perché racchiudeva in sé una fetta particolare della sua vita, che lei aveva tentato in tutti i modi di dimenticare, di allontanare dalla mente. Avevo perso molte cose in quel periodo di cui parlava nel diario e rileggerlo era come afferrarle ancora una volta, come se non se ne fossero mai andate. Un po’ incerta, prima di continuare verso la sua destinazione, si sedette su una panchina, si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e aprì la prima pagina.

“LUNEDÍ

Una signora dalla pelliccia e pantaloni marroni siede davanti a me. La signora ha appena scartato la cannuccia per bere il suo the al limone, il tutto accompagnato da uno sbuffo piuttosto esasperato. Poi, dopo averlo lasciato sul bordo del finestrino, affonda gli occhi nel telefono. Tipico degli esseri umani abbandonare le cose, penso. La borsa nera accanto alla signora è così grande che occupa tutto il posto.  Ha chiamato al telefono la mamma, giusto per controllare che fosse tutto a posto. Anche se, tutto a posto non lo è mai.

Dietro di lei si intravede seduta una ragazza di massimo 20 anni dai capelli biondi, con la frangetta che le copre tutta la fronte. È straniera. Si potrebbe dire che lo si vede dalla sua carnagione estremamente chiara che non è quella tipicamente mediterranea, dal colorito dei suoi capelli e occhi azzurri come il mare, ma semplicemente parla un’altra lingua, forse tedesco. Ha sulle ginocchia il suo zaino, parla con un ragazzo di fronte a lei, si riesce a vedere soltanto la giacca nera di pelle e i capelli che gli scendono sulle spalle. Lei ride e osserva fuori al finestrino le immagini del paesaggio che le scorrono davanti agli occhi. Stare sul treno significa godersi anche questo.

La signora del the non lo ha ancora preso in mano, il suo cellulare la sta tenendo impegnata.

Accanto alla ragazza dai capelli biondi,  sono seduti altri ragazzi stranieri, probabilmente tedeschi anche loro, sembra quasi una gita.

Più in fondo riesco a sentire alcune signore, sempre straniere, chiacchierare, mischiando nei loro discorsi parole inglesi e italiane.

Un po’ più in fondo vedo una signora con un cappotto marrone, ha la testa china sul telefono.

Così come il signore dietro di lei. Sul sedile accanto a lui ha sistemato un ombrellino e un insieme di fogli.

Il treno si è appena fermato, stanno entrando alcune persone e sono alla ricerca di un posto a sedere. Magari accade come nei film, un posto cambia la vita. In negativo o in positivo, quello soltanto la fortuna può dirlo. E il tempo.

Il treno fischia, sta rallentando, è quasi arrivato alla fermata successiva. Si sente un leggero mormorio nel vagone, la ragazza dai capelli biondi si è appena alzata per chiedere qualcosa ad una signora in fondo. Indossa un cappotto lungo nero di pelle, che esalta i suoi capelli chiari.

Sono salite altre persone, all’entrata stanno parlando due ragazze, una dice di essere “de Roma”.

Un’altra invece si è appena seduta, ha dovuto far spostare lo zaino della persona seduta accanto a lei che, credendo che lì non si sedesse nessuno, aveva posto la sua borsa sul sedile accanto. Cuffiette nelle orecchie e testa bassa sul telefono. È il modo migliore per evitare le persone.

Dietro di me ci sono due signori che parlano di lavoro, uno di loro è pensionato e parla della figlia, laureata ma sfortunata a trovare lavoro qui. L’altro uomo lo ascolta, fa domande e risponde. “Napoli è Napoli” afferma. Ha due figlie che lavorano entrambe nel campo della medicina.

Di fronte a me si è seduta una ragazza, ha i capelli legati, gli occhiali da sole, giubbotto nero e due borse che si tiene strette a sé, sembra avere l’affanno. In questa vita si corre sempre, dopotutto.

I due signori continuano a discorrere tra loro, sembrano interessati a ciò che l’altro ha da dire, o forse sollevati di aver trovato un passatempo. C’è sempre il costante bisogno di riempire i vuoti.

“La vita è un continuo sacrificio” dice uno di loro. La vita è un sacrificio, ma è pur sempre vita, anche quando sembra di sopravvivere.

Hanno diciotto anni di differenza, l’uomo delle affermazioni e i suoi genitori. “Siamo tre figli, mio padre e mia madre hanno fatto subito subito”.

La signora del the lo ha quasi finito, di tanto in tanto lo prende, fa un sorso e lo ripone sul bordo del finestrino.

La ragazza con le cuffiette nelle orecchie continua a scorrere il dito sul telefono.

Fuori dal finestrino noto un aereo volare in cielo, sta decollando, pronto a squarciare le nuvole, che oggi affollano il cielo.

Uno dei ragazzi tedeschi seduto dietro ride. Ha un giubbotto rosso addosso, si dice che il rosso sia il colore dei coraggiosi, di chi non ha vergogna di essere notato.

La signora dal cappotto marrone ha alzato la testa dal telefono, si sta guardando intorno. Siamo quasi arrivati a destinazione.

Molte persone si sono già alzate dai loro posti. Il treno si ferma.  Probabilmente sta aspettando l’autorizzazione per entrare in stazione.

Il ragazzo seduto di fronte alla ragazza dai capelli biondi si è alzato, ha sistemato  sulle spalle uno zaino a quadri bianco e nero e parla con i suoi amici che sono seduti dietro.

La ragazza con l’affanno ha appena sospirato, probabilmente è stanca.

I signori dietro continuano a chiacchierare, riesco a percepire i loro sguardi divertiti.

Le porte si stanno aprendo, le persone si preparano a scendere. È strano pensare che per un breve tratto tutti andiamo dalla stessa parte per poi separarci, probabilmente per sempre.

Due signore portano ciascuna un passeggino e canticchiano.

Mi chiedo se le rivedrò anche domani.

MARTEDÌ

È una di quelle giornate in cui si vedono le goccioline della pioggia fare a gara. Il finestrino è il loro campo da gioco. Sono seduta in un angolino, i sedili sono quasi tutti vuoti, c’è solo qualcuno sparso qua e là. Probabilmente, a causa del maltempo, molti hanno preso la saggia decisione di rimanere a casa sotto le loro coperte, e come biasimarli.

Le goccioline dall’alto scendono sempre più veloci, quasi smaniassero di arrivare per prime al traguardo.

È la tipica giornata in cui il cielo costringe a guardare fuori, facendo divagare la mente anche nei posti più impensabili, con pensieri che si susseguono quasi più veloci delle goccioline e non lasciando neanche il tempo di capire quando finisce uno e quando ne inizia un altro.

Riesco a vedere la distesa di alberi in lontananza, non c’è nemmeno un raggio di Sole che buca le nuvole. Finalmente il treno è arrivato a destinazione e io spero che domani la pioggia si risparmierà.

MERCOLEDÌ

Il mercoledì è un giorno in cui il treno è più vuoto del solito. Sarà perché è metà settimana, l’energia che in teoria si ha il lunedì si va pian piano scemando. Molto posti non sono occupati, si vedono di tanto in tanto zaini che riempiono il sedile accanto. Le voci sono bisbigli, suoni confusi.

Due ragazze sulla destra sono catturate dai tentacoli del cellulare, dietro due amici chiacchierano del più e del meno.

In fondo al vagone c’è una signora che parla al telefono, riesco a sentirla anche dal mio posto.

Come tutte le mattine, sono in viaggio per recarmi alla mia università. Siedo accanto al mio zaino, fedele compagno di viaggio. È da quando sono salita sul treno che continuo a scrutare le parole di una lettera che ho in mano. Non riesco a toglierle gli occhi di dosso. La leggo e la rileggo, quasi incredula di ciò che io stessa vi ho scritto ormai mesi fa: tutte le cose non dette. L’ho ritrovata in fondo ad un cassetto ieri sera, sepolta dai miei vestiti, quasi come la avessi voluta nascondere. Me ne era completamente dimenticata. E forse ora ho capito il perché. Arrivati ad un certo punto della vita, si è quasi costretti a nuotare nei propri abissi, perché il rischio è quello di essere risucchiati. Sento la voce dall’altoparlante comunicare che siamo giunti a destinazione. Le persone scendono, vanno tutti nella stessa direzione dirigendosi verso l’uscita, poi ognuno prende una strada diversa. La vita è così.

È sera. Oggi alla stazione è venuto a prendermi mio padre, come tutti i giorni.

Ho provato a studiare tutto il pomeriggio, cercando in tutti i modi di concentrarmi, ho un esame a breve. Ma non ho fatto altro che rigirarmi la lettera tra le mani, rischiando di sgualcirla. Averla ritrovata è come essere tornata indietro nel tempo. Non ho mai trovato il coraggio di consegnarla al suo destinatario. Sono parole troppo forti, che non ho mai detto ad alta voce e ora che le vedo scritte è come se i miei pensieri stessero urlando sotto i miei occhi. L’indecisione logora, consuma, stare davanti a un bivio mette alla prova la propria fermezza.

I miei genitori e mia sorella sono andati a dormire già da un po’, ma la mia mente non mi dà tregua. Mi sento appesa ad un filo troppo debole per sostenere il peso.

Forse, per togliermi questo macigno di dosso dovrei dargli la lettera, ma come si fa a superare i confini della propria paura? Se c’è una cosa che ho imparato è che mettere i limiti all’amore è un ossimoro. E io faccio tutto questo per amore. Forse, dargli la lettera è l’unico modo per andare avanti. “

Smise di leggere. Chiuse gli occhi e poi, dopo un grosso respiro, si alzò. Ricordò a sé stessa il motivo per cui era arrivata fin lì. Era passato quasi un anno da quando aveva scritto quella lettera, eppure soltanto ora aveva preso la decisione di consegnarla al destinatario, la persona che più aveva amato e odiato allo stesso tempo. Aveva scovato in tutti gli angoli di sé stessa per trovare la forza, almeno quella che le rimaneva. Non era semplice. Non dopo tutto quello che era accaduto. Come si fa a tagliare il filo che lega due persone, se il filo è invisibile?

Rilesse per l’ultima volta la lettera, per incidersi nella mente ogni singola parola che le era venuta dal cuore. Cominciò a leggere:

“Sei un ragazzo rotto dalla vita. Come un vaso ridotto in frantumi che non sono riusciti a mettere di nuovo insieme. Ti porti dentro le tue ferite come se fossero la cosa più preziosa che hai, perché fanno parte di te e senza ti sentiresti come un puzzle incompleto. Te le trascini ovunque tu vada, come se fossero un’ombra che ti segue sempre perché ti rassicura, anche quando è buio e nessuno la vede, ma tu sai che è lì, che c’è come una costante.

Ti hanno tolto il per sempre, forse neanche sapevi cosa fosse, ma avevi quella vaga speranza che forse qualcosa di eterno c’era. E quando ti hanno strappato all’amore, allora hai capito che l’infinito non esisteva, che non esisteva il per sempre che ti eri immaginato nella testa. E da quel momento hai avuto paura. Ti sei rinchiuso nella tua corazza, rendendola una prigione e ora non riesci ad uscirne.  Non hai mai saputo amare perché non ti sai legare a nessuno per davvero. Hai un cuore malridotto, sgualcito, sanguinante. Ti allontani da tutti perché tutti hanno fatto così con te e quando pensi di aver trovato forse una persona capace di darti il per sempre, credi che sia solo un’illusione e decidi di mettere il punto. E sai benissimo che il per sempre non ha un punto. Non ha un confine. Ma tu sei cresciuto tra confini che forse ti stavano troppo stretti, costruendoti pezzi che hanno sorretto il tuo cuore che ogni giorno di più sentivi sgretolare, o forse eri tu che ti stavi lasciando andare. Ti sei ridotto in briciole che neanche tu sai raccogliere e non permetti a nessuno di farlo. Neanche alle persone che ti amano. Perché tu sei così, ami i tuoi pezzi in frantumi. Ami il tuo annullamento. Ti condanni a stare da solo perché non credi di meritarti altro, anche quando c’è qualcuno lì fuori che ti dimostra che non sarà più così, che non sarai più solo perché vuole ricostruirti i pezzi. Vuole essere il tuo tassello mancante. Ma a te quel vuoto piace. Vivi con questa tua mancanza come fosse l’unica cosa a cui aggrapparti perché ci sei cresciuto, ci sei vissuto tanto dentro che si è impossessato di te. Sei un foglio che hanno accartocciato, schiacciato, pestato mille volte. E quando hanno cercato di capire i tuoi comportamenti impulsivi, quasi da bambini, si dimenticavano che eri stato un bambino illuso, che ora tenta in tutti i modi di recuperare quello scorcio di vita che gli hanno strappato dalle mani. Sei una voragine che cerca di risucchiarsi tutto intorno a sé, perché forse in fondo anche tu ti senti così, un fiume che non ha più acqua, un prato che non ha più fiori o che forse non è mai fiorito. La tua paura più grande è accettare che qualcuno ti possa amare sinceramente per quello che sei. Un mucchio di macerie che aspettano di essere tolte per dar spazio alla luce, perché tu, ancora, ci credi. Avevi trovato la tua luce, ma hai preferito ridurla ad un piccolo spiraglio, perché eri sempre stato abituato al buio. Ci hai provato a piegarti all’amore, ma ti sei reso conto di saper amare soltanto così, in modo disperato, logorante, fragile. Sei una rosa con mille spine che io avevo preso, graffiandomi, ferendomi, sanguinando, che avevo amato con tutta me stessa, ma tu hai preferito sempre e solo farmi vedere le spine perché tale ti sei sempre mostrato.

È nella tua natura rovinare le cose e ti va bene così.

Queste sono le parole che non ti ho mai detto.”

In fondo, si ha sempre il rimorso delle cose non dette o non fatte. È il rimorso che ti brucia dentro, fino a ridurti in cenere. La ragazza della lettera, che sarei io, alzò gli occhi dal foglio. Mi accorsi di avere le mani tremanti. Ma non potevo tirarmi indietro, avevo percorso troppa strada per ritirarmi. Feci un passo in avanti, convinta che se non lo avessi fatto in quel momento, probabilmente avrei perso tutto il coraggio di cui mi ero armata. Imboccai una stradina stretta, era proprio come me la ricordavo. Mancavano pochi metri alla destinazione. Mi fermai. Alzai lo sguardo verso quel terrazzo che conoscevo troppo bene. Fermai in anticipo il corso dei ricordi che fremevano nella mia testa. Dovevo procedere. Con le mani ancora tremolanti, misi la lettera nella posta, lasciandola sporgere un po’ per renderla più visibile. Era in una busta color panna. Suonai il campanello. E se lui non fosse stato in casa? Ero spaventata. “Chi è?” Udii chiedere. Era proprio lui. Sentii il mio cuore fare un balzo nel petto. Mi ero allontanata di pochi passi, ma riuscivo ugualmente a sentire la sua voce. Non la ascoltavo da troppo tempo ormai. Ma non la avevo mai dimenticata. Non risposi. Speravo che, non avendo ricevuto una risposta, sarebbe comunque sceso, per vedere chi fosse stato a suonare. Rimasi lì ferma per qualche secondo, poi me ne andai. Mi nascosi, volevo essere sicura che lui prendesse la lettera. Aspettai qualche minuto e più il tempo passava più credevo che non sarebbe mai venuto. E proprio quando stavo per andarmene, sentii il cancelletto del suo cortile aprirsi. Avevo gli occhi puntati su di lui. Si affacciò sulla strada, per verificare se ci fosse qualcuno, e quando ormai ero sicura che non avrebbe mai notato la lettera, la vide. Aspettò un momento prima di prenderla tra le mani. Era incerto, soprattutto dopo aver visto il suo nome scritto sopra. Effettivamente, ricevere una lettera così all’improvviso poteva essere spiazzante. Dopo averla scrutata con attenzione, la aprì. Sapevo che era questione di secondi prima che capisse chi fosse stato il mittente, perciò non appena si richiuse il cancello dietro di sé, corsi, corsi più veloce di quanto fossi capace. Ma l’istante prima di voltarmi per sempre, notai che aveva guardato esattamente nel luogo dove mi trovavo. E fu lì che seppi di essere riuscita a spezzare il nostro filo invisibile. Di essere riuscita finalmente a dire tutte le cose non dette.