L'angolo dello scrittore

Vanno giù le torri civiche della nostra città

di Michele Morelli

In questi giorni si sta procedendo all’abbattimento del silo del mulino Alvino e, al di là dei punti di vista, siamo di fronte ad un evento che deve far riflettere. Chi oggi sorride e manifesta soddisfazione per quanto sta accadendo, dimostra, a mio parere, miopia e, nella peggiore delle ipotesi, malafede. Se nella valutazione della salvaguardia del sito è prevalsa l’idea dell’abbattimento dei silo, è bene sottolinearlo con chiarezza, la ragione è solo e soltanto di tipo speculativa: più volumi si abbattono, più case si realizzano nell’area verde prospiciente il quartiere storico dell’Ina Casa di Villa Longo.

Tutto questo non ha nulla a che fare con l’idea di dare valore ai luoghi che hanno segnato la vita economica e sociale della nostra città.

A quanti hanno condiviso, a vario titolo, magari con i loro comportamenti omissivi, la demolizione  del granaio, diciamo grazie.

Grazie, alla Soprintendenza che ha ridotto il tema della salvaguardia di uno degli ultimi esempi di archeologia industriale a pura valutazione estetica-architettonica. Secondo costoro, il granaio a “V” di cemento armato realizzato negli anni sessanta, non segna nessun passaggio produttivo significativo nella storia del mulino, pertanto può essere abbattuto.

Grazie, ai progettisti incaricati e ai loro consulenti esperti in materia di archeologia industriale che, pur possedendo gli strumenti culturali di lettura del sito, hanno preferito assecondare, per ragioni comprensibili, la committenza (impresa e mediatore politico).

Grazie, al sindaco e alla sua giunta tutta, per aver mantenuto in questi ultimi mesi la barra dritta lungo la direttrice apparente del non governo dei processi di trasformazione edilizia.

Grazie, per la Vostra equidistanza dai fatti e interessi.

Grazie, per la Vostra imparzialità. Per la Vostra non ingerenza.

L’importanza del silo verticale a “V” del mulino Alvino fu messa in risalto in occasione del concorso di idee di architettura indetto dal Comune di Matera nel 2005 “Piazzetta del Carro della Bruna”. Una delle ragioni che convinse la giuria ad assegnare il primo premio all’arch. Danilo Palumbo fu proprio la particolare capacità/intuizione del progettista di saper leggere e distinguere i segni della storia di quel luogo, parte integrante del quartiere Piccianello (la chiesa, il mulino Alvino, i capannoni del carro).

Per rendere visibile questa relazione il progettista propone materiali legati alla tradizione storica e alla memoria della architettura industriale. Per il rivestimento del muro il progettista propone il tufo locale. Per la pavimentazione della piazza, un materiale di natura industriale, realizzato a pezzature di conglomerato cementizio miscelato con coadiuvante colorato con pigmenti rosa antico (il colore del granaio del mulino Alvino).

Per il disegno dei cancelli di ingresso il progettista riprende la trama concava convessa dei pannelli prefabbricati del mulino Alvino, “il granaio” prototipo di architettura industriale.

Tra i componenti della giuria c’erano autorevoli rappresentati di ordini professionali, a significare la qualità del collegio giudicante. Questa lettura dei segni, che è stata determinante nella valutazione finale del concorso di architettura, sembra che oggi non abbia più valore. Non conta per il Comune, non conta per i professionisti chiamati al recupero del manufatto. Ed è probabile che non conta più neanche per gli autorevoli componenti della giuria del concorso.

Il tema della salvaguardia dell’archeologia industriale non è affatto un tema semplice, basta osservare la confusione con la quale la nostra classe dirigente ha affrontato in passato la questione ( vedi le ex officine di recinto Pagano e i mulini di via Lucana).

Purtroppo, il progetto di rinascita del mulino Alvino è frutto dell’ennesimo compromesso a ribasso. Una ennesima occasione perduta, la cui responsabilità non può che essere addebitata alla pochezza della nostra classe politica, all’atavica subalternità del mondo delle professioni e, non ultimo, allo scarso interesse del mondo della cultura su ciò che succede oltre il proprio giardino di casa. Qualcuno ha azzardato che tutto questo non è altro che il frutto di quella subcultura, prevalentemente meridionale, ipotizzata dallo studioso E. C. Banfield nel suo libro “Le basi morali di una società arretrata”che va sotto il nome di familismo amorale. Un modus vivendi che condiziona pesantemente i comportamenti civici, la capacità critica della stessa comunità, l’economia”.