I racconti del Premio letterario Energheia

Un violino di Alessandro Manzi_Sezze(LT)

_Racconto vincitore Premio Energheia 2018

Sono un violino. Ho il fondo in acero, la cassa in abete rosso, un manico con tastiera in ebano che termina in un riccio dove alloggiano i piroli delle corde, insomma un violino come ce ne sono tanti, con l’unica differenza che nella parte posteriore ho incisi sul legno una stella e un numero: 342871.

Immobile, adagiato su questo mucchio di cose abbandonate, continuo a fissare il cielo. La neve ha ripreso a cadere. I suoi fiocchi, tanti fazzoletti bianchi agitati da fantasmi, danzano tristi nell’aria senza musica. Mi stanno ormai ricoprendo, fuori resta solo il riccio del mio manico. Unica presenza viva accanto a me l’occhio celeste e senza lacrime della piccola bambola rotta che continua a fissarmi. Fra poco condivideremo il destino di una fredda sepoltura. Non posso muovermi, non posso gridare, non posso fare nulla.

Si avvicina un corvo nero. Curioso. Saltella nella neve. Poi comincia a rovistare con il becco fra occhiali, scarpe, pettini, spazzole, insomma fra tutti quegli oggetti che da tempo hanno smesso di vivere in questo angolo dimenticato del campo. Intorno solo un silenzio plumbeo.

Il rumore degli stivali che avanzano, affondando nella neve fresca, lo spaventa. Lui che può, vola via, oltre la rete metallica e il filo spinato. Il soldato avrà si e no vent’anni. Si ferma a gambe larghe con una sigaretta in bocca. Capisco che deve pisciare. Ha uno strano berretto di pelliccia con due paraorecchie e una divisa color cachi. Appena ha finito, si riabbottona i pantaloni, poi si gira e getta via il mozzicone di sigaretta. Si dirige verso di me. E’ sempre più vicino. Si ferma. Con lo stivale scosta un po’ della neve che ormai mi nasconde quasi completamente ai suoi occhi, mi osserva un po’ perplesso, si china e mi raccoglie. Pizzica una corda e ne esce un suono stentato. Un violino sa prestare voce all’anima, ma nelle mani di chi non sa suonarlo è solo un inutile imbarazzo. Ho nostalgia delle mani di Rachele.

Solo quindici mesi fa, ricordo altri stivali. Lucidi, neri. Nascosto sotto il letto, riesco a contarne tre paia. Immobili e prepotenti sul pavimento di graniglia con i mattoni esagonali grigi e rossi che si inseguono, alternandosi, fino al corridoio. Di fronte ci sono i piedi di Rachele, silenziosi, dentro un paio di calze a righe. Una le è rimasta avvoltolata sulla caviglia, l’altra ha un buco. E’ appena scesa dal letto. Davanti ai piedi della ragazza adesso ci sono le scarpe del papà. Hanno la pelle marrone e screpolata, allacciate da due stringhe, anch’esse di colore marrone, una più corta dell’altra. Poi, di corsa, trafelate, arrivano anche le scarpe della mamma. Un modello francese che le era piaciuto tanto: le sue scarpe preferite. Hanno il tacco un po’ alto e un fiocchetto di lato. Si affiancano a quelle del papà per formare una debole, inutile barriera fra gli stivali dei soldati e i piedi della ragazza. Rachele, d’istinto, mi ha infilato qui sotto non appena ha sentito il trambusto e le urla provenire da sotto. Ho riconosciuto la voce di Elsa, la vicina di casa. Ha detto ai soldati qui dentro ci sono ebrei. Tre di loro sono saliti sopra. Non mi è mai piaciuta Elsa…

Hanno ordinato a Rachele e ai suoi di fare le valigie. Quindici minuti di tempo! Non uno di più e sono scesi. Rachele allora si è inginocchiata sotto il letto, mi ha guardato, indecisa se portarmi con sé. Poi mi ha preso e mi ha infilato in questa vecchia valigia di pelle, di un nero scolorito, con gli spigoli in metallo. Sono avvolto dalle sue poche cose. Nel buio. Prigioniero di una valigia e di un destino capace di scrivere storie insensate.

Adesso tutto mi arriva ovattato: grida, ordini, pianti. Solo la paura mi arriva forte e nitida, si infila dappertutto, anche dentro una vecchia valigia di pelle.

Più tardi, molto più tardi, mi sembra di sentire solo un rumore di rotaie, una litania lunghissima, interminabile, ogni tanto uno stridore di freni, un fischio di treno, poi solo lamenti e preghiere, preghiere e lamenti. Il buio qui dentro ha cancellato il giorno e la notte. Non ci sono più i minuti e le ore, non ci sono pendoli o lancette a scandirli. Solo questo buio, un tempo infinito sospeso tra ricordi e speranze.

Eppure anche questo viaggio ha termine.

Sento aprire il portellone del vagone e sento latrati di cani. Ancora ordini urlati “Alle runter! Alle runter!”. Confusione. Sento Rachele gridare forte mammaaa, papàààà… poi un colpo forte alla valigia. Io sobbalzo. La valigia vola e ricade a terra. Si apre rovesciando tutto il suo contenuto. La luce ora mi acceca, una luce violenta, più violenta del buio. Sento freddo, tanto freddo. Vedo le persone inquadrate in due file, lunghissime, interminabili. Rachele sta nella fila di destra. La mamma e il papà, ormai lontani, nella fila di sinistra. Lei è china per rimettere nella valigia le sue cose. Piange. Una SS le è vicino con un cane al guinzaglio. Sento la lingua dell’animale strofinarsi sulla mia cassa, il fiato umido e caldo mi accarezza ed è gradevole nel gelo di questo posto. Il soldato poi mi afferra e si rivolge a Rachele, le parla ma lei non capisce. “Komm her! “Komm her!”, deciso le fa cenno di seguirlo.

Entriamo in una grande baracca. Dentro c’è un tanfo tiepido che si mischia ad una musica. Vedo un ufficiale delle SS e davanti a lui suona un’orchestrina di donne pallide e smunte. Hanno tutte la testa rasata e una specie di uniforme a strisce. La SS mi mostra all’ufficiale e poi gli indica Rachele. Questi alza un braccio e l’orchestrina tace. La SS mi consegna tra le mani di Rachele, mentre l’ufficiale la fissa, alza il mento e mima l’atto di suonare il violino. Vuole che lei suoni qualcosa. Rachele, smarrita, raccoglie l’invito. Sento le sue dita. Dapprima rigide sulla tastiera, poi sempre più fluide, si muovono leggere sulle corde, come farfalle che volano leggere su fili di ragnatela… L’estate di Vivaldi. Il terzo movimento: il temporale. Ho conosciuto Vivaldi solo grazie a lei…

Prima suonavo dentro un bordello, solo canzonette e musiche ruffiane per rallegrare l’attesa di soldati e clienti. Mi è rimasto a lungo addosso l’odore di quel posto: fumo, sudore, disinfettante e sapone da quattro soldi. Poi a quell’ubriacone di Hans spaccarono tre dita della mano sinistra in una rissa e lui, sempre a corto di soldi, mi vendette per venti fiorini a Jacob, il vecchio rigattiere. Ho passato cinque mesi in mezzo alle sue cianfrusaglie, finché non giunsero gli occhialini rotondi e curiosi di Joseph, il liutaio. E’ stato lui a sistemarmi la cassa e il ponticello, a rilucidarmi e a sostituirmi tutte le corde. Ci sapeva fare Joseph! Nella piccola vetrina del suo negozietto in Jodenbreestraat rimasi solo cinque giorni, perché in un mattino piovoso di novembre, un distinto signore si fermò sotto il suo ombrello nero, gocciolante, mi squadrò, entrò dentro e mi scelse come regalo per il dodicesimo compleanno di sua figlia Rachele.

Conosco Rachele da cinque anni, allora era una bambina. Ora con il violino è diventata bravissima. Quanti pomeriggi ho passato insieme con lei, quante lezioni, interminabili, a casa di Margareth.

Un pomeriggio, in un momento di pausa, Rachele le chiese perché il violino fosse lo strumento preferito dagli ebrei e dagli zingari. Margareth rimase un attimo pensierosa, poi sorrise e le rispose provaci tu a scappare con un pianoforte sotto il braccio! Risero.

Ora che il temporale dell’estate è finito, Rachele stringe il mio manico. Una sua goccia di sudore cade sulla mia cassa e scivola dentro di me. L’ufficiale ha gli occhi socchiusi e comincia a battere le mani teatralmente. Poi, senza dire nulla, guarda la ragazza dell’orchestrina che ha in mano un altro violino e allarga le braccia con una smorfia. Esplicita. Ha scelto Rachele. Chi lo ha detto che saper suonare bene il violino è inutile quando c’è una guerra!? Negli occhi dell’altra ragazza c’è un’espressione acquosa, stanca. Non la rivedremo più . Può una sonata di Vivaldi decidere il destino di un essere umano!?

Far parte dell’orchestrina ha i suoi vantaggi. La baracca dove alloggiano le detenute che ne fanno parte è riscaldata da una piccola stufa e loro sono esentate dai lavori pesanti. Per questo le altre le guardano con odio e invidia. Rachele ha paura di perdermi, teme che qualcuno mi rubi e allora con un chiodo arrugginito mi incide sul retro della cassa la stella di Davide con un numero, 342871, lo stesso numero che le hanno marchiato sull’avambraccio. Adesso sarò davvero suo per sempre, se me lo consentiranno il freddo e l’umidità. Non si separa mai da me e anche la notte dorme tenendomi sotto il suo giaciglio, un sacco pieno di paglia.

Qui sono diventato un impostore. Suono spesso all’arrivo dei treni. E, quando succede, inganno tutte quelle persone che scendono dai vagoni piombati e non conoscono cosa le attende. Suono quando le squadre vanno al lavoro e quando tornano. La musica è una grande bugia! Suono perfino nelle funzioni religiose e, forse, inganno anche Dio… se esiste.

Due settimane fa Rachele ha cominciato a tremare. Specie di notte. Sudava. Era debole. Sentivo le sue dita ormai incapaci di premere decise la tastiera e di scivolare su di essa, l’archetto che si poggiava sulle mie corde, tremante come un amante insicuro.

Tutto è precipitato quel pomeriggio. Un inchino malriuscito agli ufficiali nazisti in visita al campo, alla fine del concerto in loro onore. Non dovevate ondeggiare come una fisarmonica, dovevate inchinarvi tutte insieme nello stesso istante! Ha urlato la kapò. Quindi una punizione insensata, crudele: dodici ore filate a suonare sul piazzale. Ininterrottamente. Con il vento ghiacciato che spezzava le note e il fiato.

Rachele è caduta. Da quel momento non l’ho più vista.

La kapò mi ha consegnato allora a una detenuta, gettalo dentro la stufa, ormai non serve più. Quando quella stava per eseguire l’ordine ha visto la stella di Davide e il numero inciso sul mio legno. Li ha percorsi piano con le dita, soffermandosi su questa cicatrice che è la sua cicatrice. Ha deciso di risparmiarmi. Mi ha infilato sotto la sua uniforme lercia e mi ha portato in quest’angolo lontano del campo, gettandomi in mezzo alle altre inutili cose. E’ qui che mi ha trovato il soldato russo.

Cos’è successo dopo?

Sono passati sedici anni.

In quel vecchio e fumoso bistrot di Varsavia, Abraham Heinz, vecchio professore di musica, sorseggiava il suo caffè e non smetteva di osservarmi, mentre accompagnavo le canzoni tristi di Greta Keller. A distanza di tempo mi ha confidato di essere stato sedotto dal mio suono malinconico, unico, com’ è unica ogni lacrima. Per chi è riuscito a uscire da Auschwitz niente è come prima. Questo vale anche per il suono di un violino. Quando poi ha notato il numero e la stella di Davide ha avuto la conferma.

Ha parlato a lungo con il proprietario del locale. Non riuscivo a sentire le loro parole. Questi era ancora un ragazzo quando il soldato russo mi barattò con lui per una bottiglia di vodka rubata chissà dove. Poi il professore ha tirato fuori un piccolo quadernino e si è appuntato con una matita il mio numero.

Deve aver fatto le sue ricerche… qualche mese dopo la Croce Rossa gli ha comunicato che quel numero corrispondeva alla matricola di Rachele e gli ha indicato anche l’indirizzo del fratello di lei, Johan, che, tornato dall’America nel 1949, aveva inviato diverse lettere per conoscere la sorte della sua famiglia.

Adesso sono a casa sua.

Finalmente il cerchio si è chiuso: ho ritrovato Rachele e le sono di nuovo accanto, per sempre! Anche lei è felice e sorride tenendomi bene stretto tra le sue mani in una vecchia fotografia color seppia, scattata il giorno del suo dodicesimo compleanno.