I racconti del Premio letterario Energheia

Un bicchiere di vino_Andrea Roccioletti, Torino

_Racconto finalista decima edizione Premio Energheia 2004.

 

Sulla barca d’appoggio raggiungiamo il luogo deciso per l’immersione. Sono le dieci e trenta. Il mare è calmo, la temperatura dell’acqua è nella media dei miei precedenti allenamenti. La mia squadra inizia a srotolare il cavo lungo il quale oggi, mi immergerò in apnea, cercando di battere il precedente record sportivo di 92 metri raggiungendo i 100 metri – trattenendo il fiato. Altri colleghi entrano in acqua con le bombole, prendono posto a diverse profondità, alle varie tappe di decompressione, mi aspetteranno, mi vedranno passare, mi toccheranno la schiena per avvertirmi che sta andando tutto bene. I due giudici sportivi che devono convalidare il mio record di immersione parlano con i giornalisti.

Non li ascolto. Proseguo con le mie pratiche yoga, insieme al mio maestro. Servono a rilassarmi, ad essere padrone del mio respiro, delle mie contrazioni muscolari; l’autocontrollo per l’apnea è tutto. Giudici e giornalisti. Non li avrei voluti sulla mia barca. L’aspetto agonistico è importante, certo, ed è quello che poi fa la differenza, mette in moto tutto il meccanismo degli sponsor, degli investimenti per l’attrezzatura, eccetera. Ma a me, e agli amici più intimi della mia squadra, importa relativamente.

Quello che conta davvero nella mia filosofia è risvegliare un certo istinto all’immersione, quell’acquaticità che credo tutti i mammiferi possiedano, e quindi anche gli uomini. La vita è arrivata dal mare, e nella memoria delle nostre cellule credo ci sia ancora il galleggiamento, il nuoto, l’apnea. Ad un certo punto mi passano la muta di neoprene. La indosso. Apro la scatoletta con le mie lenti a contatto modificate. Preferisco indossare queste, anche se mi irritano gli occhi, piuttosto che la maschera, che mi rende difficoltosa la compensazione delle vie respiratorie nasali e delle orecchie a profondità elevate.

La dottoressa che mi ha seguito durante tutto il corso degli allenamenti si avvicina, mi prova la pressione del sangue, mi controlla le pulsazioni, prima sul polso, poi sulla carotide. Mi dice che è tutto a posto. Sento le loro voci, lontane, però. Entro in acqua anch’io, mi infilo le pinne. Il capo della squadra parla con due sommozzatori che sono appena riemersi. Il cavo è sistemato. Mi ha dato l’ok. Adesso tocca a me. Controllo la respirazione. Afferro la maniglia della zavorra che mi porterà a meno 100 scorrendo lungo il cavo alla velocità di circa 1 metro al secondo. Il sole si riflette sui vetri della barca, ora che ho le lenti a contatto da immersione mi dà fastidio, è accecante.

Ancora un respiro. Poi trattengo il fiato e mi immergo.

Anche se mi alleno da anni – da anni! – e quindi dovrei averci fatto l’abitudine, il senso di silenzio e vastità che si percepisce sott’acqua mi stupisce. Sento un po’ di tensione, all’altezza del plesso solare, forse me l’hanno involontariamente trasmessa quelli sulla barca, anche loro emozionati per la giornata decisiva. Apro la mente, mi rilasso. Il senso di oppressione lentamente scompare. L’acqua è cristallina, però man mano che scendo, vertiginosamente diventa buia.

Sto trattenendo il fiato da 30 secondi, e sono ad una profondità di meno 30. Prima tappa di decompressione. Stando a testa in giù, lascio che la zavorra continui a trascinarmi verso il fondo. Sento la pressione dell’acqua contro i timpani, lentamente porto la mano libera al naso, soffio, compenso i timpani. Due sub della mia squadra mi vedono passare, uno di loro mi tocca sulla schiena per dirmi che sono in perfetto orario e che va tutto bene, poi sono troppo in alto per me che continuo a scendere. La pressione dell’acqua aumenta. Una volta ho chiesto ad alcuni colleghi di scattarmi delle fotografie sott’acqua, a queste profondità. Sembravo un mostro. La prima cosa che stupisce è come si comprima l’addome, diventando quasi piatto. Si scavano anche le guance. In quelle fotografie sembravo un cadavere che precipitava inevitabilmente verso il fondo. Sento che la temperatura si abbassa ancora, ma la muta di neoprene mi protegge a sufficienza. C’è una forte corrente sottomarina, ma finché resto aggrappato alla maniglia della zavorra non ho problemi.

Rilasso le gambe e il braccio libero, contraggo leggermente la schiena, che mi si indolenzisce per la posizione a testa in giù.

Incontro altri due sommozzatori della squadra. Hanno lampade che illuminano il cavo, l’acqua inizia ad essere troppo scura.

Altro colpetto sulla schiena. Sono a meno 60 metri, lo vedo da una delle piastrine lungo il cavo, e sono passati 62 secondi.

Sono in leggero ritardo, probabilmente per via della corrente che ha rallentato la mia discesa. Da quando mi immergo ho scoperto quanto possa essere interminabile un secondo, un solo maledetto secondo, che ti separa dalla superficie, oppure da un certo obiettivo in profondità. Muovo la testa, sgranchisco i muscoli del collo. Ora devo ruotare la maniglia della zavorra; in questo modo, un meccanismo che fa pressione contro il cavo si allenta facendomi affondare un po’ più velocemente.

Non penso a nulla. La mia mente è vuota. Non c’è il sotto, il sopra, niente. La paura, come sempre, durante immersioni del genere, arriva e bussa alla mia porta. Morirò. Le mie fibre non reggeranno lo sforzo, la pressione, il freddo. Tengo lontani questi pensieri. Chiudo gli occhi. Sento un leggero ronzio nelle orecchie, è una cosa che capita, niente di preoccupante.

Intravedo in fondo al cavo le luci di tre lampade. Manca poco, sono sul fondo. Ci sono anche altri della mia squadra, che mi aspettano. La loro presenza mi rassicura. Non può succedermi niente di male.

Sono sul disco al fondo del cavo. E’ passato un minuto e trenta secondi da quando mi sono immerso. E sono a meno cento metri di profondità. Ora devo fare attenzione. Senza lasciare la maniglia della zavorra, mi metto di nuovo dritto, con i piedi verso il fondo del mare e la testa verso la superficie.

Cerco di non guardare direttamente le luci delle lampade dei sub attorno a me, che mi accecherebbero per qualche istante, come quando uno fissa troppo il sole. Afferro la maniglia del cilindro che contiene il pallone di risalita. Lascio la zavorra.

Compenso i timpani. Prendo la piastrina che testimonia che sono stato qui sotto, un pezzo di metallo giallo con scritto -100 sopra. Lo stacco dal disco appeso in fondo al cavo. Chiudo gli occhi. Non lo so, a che cosa penso. Sento che se schiudessi un po’ le labbra, mi entrerebbe un sorsetto d’acqua di mare in bocca. Che cosa mi passa per la testa. A certe profondità, sotto stress, schiacciati da ogni parte dalla pressione, con le orecchie che fischiano, le costole che sembrano schiantarsi, l’intestino pressato che inizia a dolere, anche se uno si allena tutta una vita, si possono fare cose senza senso.

Lascio entrare in bocca un sorso d’acqua. Forse voglio sentire che gusto abbia a questa profondità. E’ come se avessi tra i denti cento cubetti di ghiaccio. Mi fa male il naso e la fronte. Poi. Sa di vino frizzante. Mi esplode in testa il ricordo di una vacanza in Francia, in un paese della Provenza di cui non ricordo il nome. Ero a cena in un locale tipico, avevo davanti a me un bicchiere di vino proprio con quel gusto. E davanti a me, dietro a quel bicchiere, c’era una ragazza. Il ricordo, di lei, sembra occupare tutto lo spazio che ho in testa. Non pensavo che mi sarebbe tornata in mente, che il suo pensiero mi avrebbe scombussolato ancora così, tanto. Chissà dov’è, ora, che cosa sta facendo, chi ha accanto. Sento qualcuno che mi tocca la schiena. Ritorno alla realtà, allarmatissimo. Guardo il tempo sul display che quelli della mia squadra hanno piazzato qui in fondo al cavo. Un minuto e cinquanta. Era previsto che stessi sul fondo solo quindici secondi, non venti. Cerco di calmarmi, anche se, per la prima volta in tutta la mia carriera di apneista, sento l’impellente bisogno di svuotare i miei polmoni pieni di aria viziata e respirare con la bocca larga.

Ruoto la maniglia del cilindro con il pallone per la risalita; questo si riempie di gas, e inizia a trascinarmi verso la superficie, alla stessa velocità di discesa, circa un metro al secondo.

Pinneggio leggermente, lentissimamente, per non sprecare forze e ossigeno. Non avevo previsto che avrei perso la concentrazione così facilmente, sul fondo. Mi dico che ormai è fatta, devo portare a casa la pellaccia. Risalire è davvero rinascere.

Si scioglie il freddo, l’angoscia, sai che l’aria è lì, stai per sentirla in faccia, berla a pieni polmoni. Però, è ugualmente pericoloso, non si deve perdere la concentrazione. A meno 70 metri, freno il pallone. Mi fermo cinque secondi, il tempo per compensare, per non farmi esplodere qualche embolo da qualche parte nel corpo. Lascio di nuovo il freno. I colleghi a meno 60 mi toccano la schiena. Sta andando tutto bene, mi ripeto. Ormai, è fatta, ma resta concentrato, mi dico, resta concentrato. Ora l’acqua è di nuovo luminosa. La pressione è tollerabilissima. Sono a meno 35. Un sommozzatore mi tocca, dovessi dire come mi rincuora quel colpetto contro la schiena, non ci riuscirei. Controllo il tempo. Sono passati due minuti e 35 secondi. Frenare, compensare, ripartire. La luce mi esplode negli occhi. Sono ad una ventina di metri dalla superficie.

Vedo la sagoma della barca. Mi controllo, nessun segnale di ubriachezza da fondale, visioni di stelle filanti o vertigini. A tre minuti e otto secondi dal mio ultimo respiro, sono a galla. Ci sono tanti rumori intorno a me, staranno festeggiando. Il sole mi abbaglia. Mi ricordo solo ora che sto stringendo in mano la piastrina dei cento metri di profondità in apnea.