I racconti del Premio letterario Energheia

Terzo binario_Franco Cadenasso, Genova

_Racconto vincitore dodicesima edizione Premio Energheia 2006.

Non era passata neppure mezz’ora da quando ci eravamo salutati, che già l’avevano fatta fuori, sul terzo binario della stazione. Quel treno che temeva di perdere tardò due ore a ripartire, a causa di quel suo corpo senza vita che aveva lasciato a penzolare dal marciapiede sporco e dissestato. Nell’alba di un qualunque mercoledì di maggio, Elena Corti partiva per l’ultima volta, uscendo dallo sfuocato film in bianco e nero della sua disgraziata esistenza, forse senza il tempo di un lamento, forse senza un vero assassino, ma uno occasionale, privo di moventi e connotati.

Mi rintracciarono presto, probabilmente prima ancora che il corpo di Elena giungesse all’obitorio; tutto si svolgeva maledettamente in fretta. Mi svegliarono e mi trattarono male, ma ero abituato a quei modi duri.

Attesi tutta la mattina passeggiando nel corridoio, con un poliziotto che non mi perdeva d’occhio un istante. Poi mi chiamarono e dovetti assistere allo spettacolo più straziante della mia vita. La riconobbi e confermai al funzionario che si trattava proprio di Elena Corti, trentasettenne di Torino, nubile e cantante di varietà, da tempo dedita all’alcool.

Mi interrogarono a lungo, non credevano che non fossimo amanti ma solo buoni amici. Cercavano di incastrarmi, volevano un assassino al più presto. Pensavano che negare la mia relazione con Elena nascondesse qualcosa, o più semplicemente non potevano credere all’amicizia fra un uomo ed una donna.

Ero seduto davanti alla scrivania del commissario, mi offrirono del caffè e delle sigarette. Ma preferii fumare le mie, almeno finché non le finii.

Cominciai il mio racconto, ricordavo bene tutti i particolari.

L’avevo notata subito, quella domenica mattina. Era seduta su uno degli ultimi sedili, sulla funicolare che portava a Granarolo.

Aveva un abito elegante ed un grazioso cappellino le nascondeva i capelli sulla fronte. Non era bellissima, neppure bella, forse, ma suscitava interesse. Non guardava nessuno per più di un istante, appariva pensierosa. Ero in piedi, sulla piattaforma anteriore, proprio dietro il conduttore. Accanto a lui, un uomo in divisa continuava a parlare e di tanto in tanto lo distraeva con battute grossolane. Ma l’altro ci stava. Infine venne avanti anche il bigliettaio e l’uomo in divisa gli chiese della signorina seduta in fondo. Non l’avevano mai vista e le supposizioni su chi potesse essere si sprecarono. L’uomo la fissava spesso con fare malizioso, voleva imporre il fascino dei pochi gradi che aveva cuciti sul braccio. Ma la sua camicia nera non sembrava affascinare la donna, anche se eravamo nel 1940 e sfidavamo il mondo. Poi l’uomo cominciò a guardare me con aria da poliziotto. Mi aveva visto assente alle loro grasse battute e la mia faccia era quella da renitente alla leva.

Avevo allora quasi vent’anni, ne dimostravo anche di più, e a quell’epoca avrei fatto più bella figura con una uniforme addosso, meglio se quella fascista. Continuò a guardarmi e mi aspettavo che da un momento all’altro mi chiedesse i documenti. Ma la corsa fu molto breve e presto si giunse al capolinea, sulla cima di una ripida salita che portava sopra la città. Laggiù, sotto di noi, il golfo e le navi, i tetti e la serpeggiante cremagliera che ci collegava al mare. Dall’altra parte i monti, i vecchi forti. Quando cercai di scendere, l’uomo in divisa occupava tutto lo spazio della porta e si attardava a liberare il passaggio, scherzando con i due di prima, un piede sul predellino e l’altro dentro. La donna mi fu accanto e allora il militare la fece scendere, aiutandola cortesemente. Lei non lo guardò neppure e si allontanò in fretta. Io la seguii, sentendo lo sguardo di quel bifolco che non mi mollava un istante. Appena fuori della sua portata, rallentai il passo e mi accesi una sigaretta.

Dovevo raggiungere la casa di un amico, mi aveva invitato a pranzo per discutere di un certo lavoro da fare in società.

Si trattava di ristrutturare un appartamento poco lontano dal centro, per conto di un medico, che vi avrebbe ricavato l’abitazione e lo studio. Pagava bene ed il mio socio era un buon muratore; io non ero molto in gamba, non si trattava del mio mestiere, ma mi sarei adattato.

Avevo già dimenticato la donna della funicolare, quando la vidi sulla strada, ad una decina di metri davanti a me.

Camminava incerta, sembrava portare scarpe troppo strette, a volte il passo pareva fermarsi, poi riprendeva. D’un tratto la vidi appoggiarsi al muretto, l’anca contro di esso, a cercare sostegno. Mi avvicinai e la presi per le spalle. Si voltò impaurita, poi mi sorrise.

“Non è niente. Un capogiro”.

La guardai a lungo senza parlare, poi riuscii a farla voltare, spalle al muro, sostenendola con una mano.

“Va meglio”, mi disse.

Intuii subito quale fosse il suo problema, anch’io soffrivo della stessa malattia ed in futuro la cosa sarebbe anche peggiorata: credo non mangiasse da qualche giorno.

La portai con me, l’amico avrebbe capito. Sua moglie la trattò per tutto il tempo come se fosse stata la mia fidanzata e ci guardava con benevolenza e tenerezza.

A metà pomeriggio eravamo già fuori e fu allora che cominciammo a conoscerci un po’, parlando di noi e passeggiando lungo la strada di campagna, fra gli orti e qualche pollaio disabitato.

La sera la salutai nei pressi della stazione Principe. Non seppi mai se dovesse prendere un treno o che altro.

La guerra era scoppiata da un pezzo, quando la rividi. Di lei non sapevo molto, nel nostro primo incontro mi aveva detto di essere di Torino e di aver lavorato come cantante nei varietà delle compagnie che allora giravano per le città del nord. All’epoca in cui l’avevo incontrata era in attesa di una scrittura. Mi aveva salutato con la promessa di venirmi a trovare, una volta o l’altra.

Pensavo che non l’avrei più rivista, ma una sera la trovai sul portone. Pioveva ed io stavo rientrando a casa. Non la riconobbi subito, era cambiata, sembrava più giovane ed era vestita più dimessamente. Salì da me e mi raccontò con entusiasmo molte cose. Lavorava in un teatrino con una compagnia di Milano, aveva un contratto per tutta la stagione. Più tardi seppi che non cantava soltanto, finiva le canzoni con qualche indumento di meno addosso, ma si trattava comunque di spettacoli molto castigati. Mi raccontava, forse per giustificarsi, che i soldati si divertivano molto e per parecchi di loro erano le ultime ore spensierate, prima di tornare al fronte e morire.

Poi ebbi la sensazione che volesse farmi ingelosire, ma non c’era motivo fra noi. Forse era soltanto una mia sensazione, non lo seppi mai, però. Quella sera, salutandola davanti all’albergo in cui alloggiava, le offrii la mano, ma lei avvicinò le sue labbra alle mie e le sfiorò appena.

Poi mi mandarono al fronte. Avevo sempre desiderato vedere l’Africa, ma ben presto decisi che se ne fossi uscito vivo non ci sarei mai più tornato. Una ferita alla spalla non fece di me un eroe, bensì uno che aveva avuto tanta fortuna da dormire per qualche giorno in infermeria. Poi attaccarono anche l’infermeria e di eroi se ne videro ancora meno. Chi poteva scappava, chi scappava veniva ucciso appena fuori.

Scoprii che la fortuna non mi aveva abbandonato, quando alla sera rinvenni fra le casse di medicinali, sanguinante ma vivo. Accanto a me, un tenente piangeva e vomitava, io persi ancora conoscenza.

Tornai poco dopo a casa, intenzionato a non rivedere più quell’inferno; ma anche a Genova le cose non andavano meglio. Le ferite degli uomini e della città si somigliavano, eravamo tutti in guerra, anche i bambini sepolti sotto le macerie dei bombardamenti.

Fu un pomeriggio del 1944, a Genova, che casualmente la ritrovai. Passeggiavo per la città distrutta, ormai la licenza stava per finire e presto avrei dovuto ritornare a combattere.

Notai gran movimento e mi avvicinai, pensando che si trattasse delle squadre di soccorso che intervenivano per qualche palazzo pericolante. Poi, da voci alle mie spalle, seppi che si stava girando un film, alla faccia dei bombardamenti. Commentai fra me che l’arte aveva le sue esigenze, nonostante tutto. Gli addetti ai lavori si davano da fare come forsennati, un uomo con un megafono dava ordini alle comparse che disordinatamente ingombravano la piazzola. Rimasi per un po’ a curiosare, come se la guerra fosse un fatto passato, come se anche quella fosse uno spettacolo illusorio, comandato a bacchetta dal direttore di scena, per poi finire all’improvviso e tornarcene tutti a casa. In effetti era così, ma in maniera decisamente più cruenta. Fumai diverse sigarette, interessato a tutto ciò che mi accadeva intorno. Infine la vidi, fra le comparse; aveva la loro stessa faccia, ma la sua sprizzava entusiasmo, illusione. Mi fece piacere rivederla, poi ne ebbi una gran pena. Aveva sul viso i segni della guerra e della sofferenza che avevamo tutti, ma su di lei rimaneva l’ostinata voglia di vivere, di affermarsi con quella poca arte che le permettevano di esternare.

Era diventata l’amante di un ufficiale fascista, uno che le aveva promesso grandi cose e tanto per cominciare aveva imposto la sua partecipazione a quel film, come semplice comparsa, nascosta tra le altre, ma quello doveva essere solo l’inizio.

Non credevo in quella sua speranza, non potevo dirglielo però e finsi entusiasmo alle sue parole, la incoraggiai, come avevo incoraggiato parecchi compagni giù in Africa, con la pancia aperta e le budella fuori, parlando loro di quello che avremmo fatto dopo la guerra, che per quei poveretti era già finita. E nei suoi occhi vedevo la stessa disperata illusione di quei soldati, che sapevano di dover morire, ma non lo potevano credere. Fino alla fine, lei e loro stavano recitando la parte; fino alla fine, io stavo sorreggendo la testa degli altri, sapendo che poi sarebbe toccato a me.

L’agitazione delle riprese finì e la piazza rimase deserta.

Presto sarebbe anche venuta la sera. Elena mi parlava fumando nervosamente, io la ascoltavo con pena, senza chiedermi cosa provassi per lei. Un’automobile dell’esercito la venne a prendere, l’aveva mandata lui. Mi salutò eccitata, dicendomi che lui l’avrebbe portata a cena in chissà quale locale, con gente importante, poi sarebbero andati in albergo, dove sarebbe stata trattata da signora.

Il giorno dopo una vicina di casa mi disse che era venuta una artista a cercarmi e mi aveva lasciato una borsa. La lettera che l’accompagnava era sintetica e molto chiara. Elena mi pregava di tenerle quella borsa, che conteneva cose importanti per lei e di non aprirla, per favore. Contava sulla mia discrezione.

Lei era partita di corsa, seguendo il suo uomo che era atteso urgentemente in un’altra città. Ebbi la sensazione che la borsa contenesse materiale che scottava, ma la nascosi da qualche parte, senza sapere cosa farne.

Rimasi in giro per qualche tempo, non volevo tornare al fronte. Fui ospitato da amici che come me odiavano la guerra e chi l’aveva provocata. Più tardi tornai a casa, deciso a prendere contatti con alcuni compagni. Radio Londra incitava i patrioti italiani a tradire il regime, presto gli alleati sarebbero arrivati in Italia, forse la guerra sarebbe finita. A casa trovai le tracce dei ladri, poi pensai alla borsa di Elena e non la trovai. Nella strada un uomo mi fermò, molto cortesemente, per informarmi di non parlare a nessuno di quella borsa e della sua scomparsa.

Mi offrì dei soldi per il mio silenzio. Chiesi allora di Elena, ma l’uomo mi fece capire che i rossi l’avevano probabilmente giustiziata come spia e convivente di un pezzo grosso del partito.

Collegai allora il fatto alla notizia che avevo appreso circa un ufficiale che faceva il doppio gioco e che si era rifugiato nel basso Piemonte, braccato dai suoi e dai comunisti.

Non rimasi in città che poche ore; avevo accettato il denaro del silenzio, perché mi serviva. Era sporco, ma anche la decade dell’esercito lo era e pagava la mia complicità come assassino di Africani e Inglesi.

Nella notte un camion ci attendeva in campagna, per portarci nei pressi di una cascina dove fummo intruppati come partigiani. All’alba ero già sui monti, con un mitra e poche gallette nel tascapane. La mia prima azione di guerra partigiana era cominciata e non mi esaltava più di quelle a cui avevo partecipato come caporale di fanteria.

Poi tutto finì, come doveva essere. Nella mia città arrivai parecchi giorni dopo la liberazione, con un gran senso di pena ed un gran vuoto dentro. La mia casa non esisteva più, era crollata. Invece di rimuovere le macerie in fretta, perché quell’orrore potesse essere, se non dimenticato, almeno camuffato, le squadre all’opera si premuravano di cancellare le scritte fasciste che erano ancora sui muri. Gli Americani dipingevano le loro, con chiari ed intimidatori 0FF LIMITS.

Una sera si festeggiava in un locale semi distrutto e pieno di fumo. Avevo addosso ancora i vestiti laceri che portavo sui monti. Puzzavo di escrementi di vacca ed ero dimagrito paurosamente.

Un amico mi fece fare un bagno e mi regalò degli abiti sequestrati da qualche parte. Forse erano di un fascista caduto in malora, oppure chissà di chi. Ora tutto ricominciava e la vita non parlava più di arditi e di sfide al mondo; ora parlavamo tutti americano.

Un ragazzotto alto e biondo, ubriaco di birra, faceva ballare una donna minuta, patita, ubriaca anch’essa. Mi caddero addosso e la donna faticò a rialzarsi. Non era più la stessa, ma la riconobbi subito dallo sguardo intenso.

Elena rimase tutta la sera a parlarmi di lei, del suo ufficiale fascista fuggito e forse poi fucilato dai suoi, della sua carriera finita miseramente, dell’alcool che da tempo era diventato l’unico compagno di vita.

La borsa che aveva lasciato da me non conteneva cose importanti, ma nonostante ciò alcune persone erano state individuate e fucilate. Non si reggeva in piedi, quando uscimmo dal locale. La pena che provavo per lei era pari a quella che provavo per me ed in più di un’occasione, quella sera, tornai col pensiero ai rischi che avevo corso in guerra, chiedendomi perché una pallottola non mi avesse finito, per risparmiarmi i ricordi e la fatica di ricominciare. Un gruppo di ubriachi ci venne incontro e ci mettemmo a ballare con loro sul marciapiedi.

Poi raccolsi Elena e la feci sedere.

Si era ripresa e la vidi decisa a salire su quel treno che l’avrebbe riportata dalle sue parti. Aveva una sorella che l’avrebbe ospitata, forse non ci saremmo più rivisti.

Andai a dormire in un ricovero che avevo trovato, ma presto fui svegliato ed accusato dell’omicidio di Elena Corti, forse mia amante, forse mia complice. Ci avevano visti insieme, la polizia sapeva dove trovarmi. Non avevo alibi e in quei giorni bisognava scoraggiare violenze e vendette. Mi trovai rinchiuso e trattato da assassino. Non mi importava molto della vita, ma stando dentro mi venne una gran voglia di essere fuori e ritrovare gusto a vivere.

Qualche tempo dopo mi liberarono, perché era stato trovato il balordo che aveva ucciso Elena Corti per rapinarla.

Ma era così balordo che portava ancora addosso le prove del suo omicidio.

Fui fuori nel sole, respirai a pieni polmoni l’aria malsana che ristagnava in città. Mi ritrovai sul terzo binario a guardare in terra come un idiota. Infine passeggiai senza sapere dove andare.

Sulla funicolare rimasi in piedi, dietro il conducente. Accanto a lui, un sottufficiale americano continuava a chiacchierare, masticando gomma e fumando. Mi guardava e cercava di coinvolgermi. Scesi al capolinea, sfiorando la spalla del soldato che curiosava nella vecchia stazione. Mi salutò, anche, poi cercò di attaccare discorso con una ragazza che era scesa dietro di me. Mi avviai lungo la stradina per cercare la casa di quell’amico che avevo prima della guerra. Forse non l’avrei neppure trovata.

Sotto di me, il golfo e le navi, i tetti e la serpeggiante cremagliera che mi collegava al mare.