L'angolo dello scrittore

Sulla strada di Matera, capitale fuori binario

(archivio disegni napolimoniotr)

Una mattina di fine dicembre quattro giapponesi s’erano seduti nel bar della stazione di Ferrandina e attendevano il treno per Salerno. Si guardavano intorno spaesati, la donna dietro al bancone li ha rassicurati mentre disponeva la teglia dei cornetti caldi. Eravamo nella vecchia sala delle manovre, dietro al frigo dei gelati comparivano le lancette e i pulsanti dell’apparato centrale elettrico. «Questa è la vecchia stazione delle Ferrovie dello Stato. Dove faccio il caffè c’era la biglietteria, oltre questa parete c’è la sala d’attesa. Vai a vedere, si sono portati via il rame». Così mi ha detto Adele, la gestrice del bar. «Invece dall’altra parte c’è la struttura nuova». Fuori, oltre le scalinate del sottopassaggio, ho osservato la stazione costruita nel 1995: una sala d’aspetto, una stanza per il controllo del traffico ferroviario, i bagni. L’edificio attendeva silenzioso e chiuso dietro a sbarre scure. «Quella non è mai stata utilizzata. Costò quattordici miliardi di lire». Adele accompagnava il racconto con gesti decisi e carichi di passione. Il treno è arrivato, i giapponesi sono saliti insieme a una decina d’altri passeggeri.

Allo scalo di Ferrandina fermano i treni regionali e gli intercity che viaggiano tra Napoli e Taranto, le corse dirette sono sei al giorno. La stazione si trova nella valle scavata dal fiume Basento, il paese è in alto sul crinale, lontano. A ventinove chilometri dalla stazione sorge Matera, ma nessun treno vi arriva. «La rete ferroviaria nazionale non è collegata a Matera», mi ha spiegato Adele. L’unica linea che raggiunge il capoluogo lucano proviene da Bari, ma appartiene alle Ferrovie Appulo Lucane, una società a responsabilità limitata controllata dal ministero dei trasporti. I viaggiatori da Roma e Napoli che vogliono raggiungere Matera aspettano qui per ore. I bus di collegamento tra Ferrandina e Matera fanno sette corse giornaliere, ma solo quattro fermano davanti alla stazione. Questi bus sono gestiti dalle stesse Ferrovie Appulo Lucane. «Non è un paradosso? Quale interesse può avere questa società ad agevolare questa via? A loro conviene se il traffico di passeggeri si concentra su Bari». Adele vive il suo lavoro come un servizio pubblico. «Cerco di aiutare chi sosta qui, accolgo i passanti disorientati. Ma della stazione di Ferrandina non importa un fico secco alle istituzioni. Ogni tanto mi chiedo chi me lo fa fare».

Intanto Matera si prepara a diventare capitale europea della cultura nel 2019; l’ultima notte dell’anno la televisione di stato ha trasmesso la grande festa accanto ai Sassi. «Eppure il tracciato ferroviario da qui a Matera è stato costruito. Non ci sono le rotaie e manca la linea elettrificata, poi la tratta sarebbe completa», mi ha detto Adele. «Vai, fatti una passeggiata lungo il fiume e vedrai le strutture che hanno realizzato». Così mi sono incamminato verso il Basento. Con me c’era Gassama, un ragazzo gambiano che ho incontrato nel bar tra cenni d’intesa e frasi smozzicate in italiano e in inglese. Dopo una fabbrica di calcestruzzo ci è apparso un lungo viadotto che tagliava la valle e proseguiva fino alle pendici della collina orientale. Il ponte serpeggiava argentato contro l’ocra livido dei campi: là avrebbero dovuto transitare i treni per Matera. Abbiamo camminato lungo due corsie di cemento, il fondo per i binari mai disposti. Al nostro fianco giacevano in fila le piastrelle con le iniziali della Rete Ferroviaria Italiana e l’anno di fabbricazione, il 2003. Alla fine ci attendeva la bocca del tunnel che s’inoltra per otto chilometri dentro la collina e sbuca dalla parte di Miglionico. Un antro nero mai inaugurato. All’ingresso qualcuno aveva disteso un filo a bassa tensione per allontanare gli animali, Gassama mi ha lanciato un richiamo di avvertimento. A sinistra un cartello riportava l’inizio dei lavori e i nomi dei responsabili al cantiere. Il progetto di costruire una linea tirreno-adriatica tra Napoli, Potenza e Matera risale agli anni Ottanta. I lavori si sono protratti per anni e sono stati sospesi nel 2003; da un decennio ormai il tracciato tra Ferrandina e Matera s’incide dimenticato nel paesaggio. Questo ottobre, intanto, sono stati aperti i primi cantieri per la linea di alta velocità tra Napoli e Bari, i fondi sono assicurati dal decreto Sblocca Italia. Il collegamento tra i due mari nascerà più a nord e sarà percorso dalle frecce rosse.

Siamo ritornati nel bar. «Perché – ho domandato ad Adele – dal viadotto si vedono i resti di un ponte sul fiume, mezzo crollato?». «Il ponte apparteneva alla vecchia linea per Matera, là i treni correvano sul Basento». Negli anni Trenta la società delle Ferrovie Calabro Lucane tracciò una via ferrata tra Montalbano Jonico, Ferrandina e la città dei sassi. La società oggi non esiste più e la linea è stata dismessa negli anni Settanta; ne rimangono resti sparsi sul territorio. A cento metri dalla stazione di Ferrandina ho notato quattro edifici d’un giallo limone. «Quelle sono case di tempo fa, formavano la stazione delle Ferrovie Calabro Lucane. Poi sono state adattate ad albergo, l’Old West». Le stanze erano spesso sfitte, così l’albergo è diventato un centro d’accoglienza per rifugiati africani. Il centro è gestito dalla Cooperativa Auxilium. Ci vivono settantacinque migranti, Gassama è uno di loro.

Gassama è arrivato in Italia nel settembre del 2014 dopo aver trascorso sei giorni in mare. «Come passate il tempo in questa valle – gli ho chiesto – a due ore di cammino dal paese sulla collina?». Gassama e i suoi compagni attendono ogni mattina i contractor che arrivano con il furgone e li conducono alle terre degli ulivi. Durante l’autunno e il primo inverno i migranti raccolgono le olive per venti euro al giorno. “A not easy job” dalle sei di mattina fino alle quattro, cinque di pomeriggio; si radunano sessanta quintali di olive “by day”. Un giorno, era l’alba, una volante della polizia è apparsa sulla strada per i campi, i caporali hanno scaricato gli africani sul ciglio e si sono dileguati in tutta fretta. «Ma se sei bianco ti danno cinquanta euro». Poi abbiamo parlato di calcio, ha detto di essere un centrocampista con i piedi buoni. «Bene, ora vado. Ti saluto». Gassama s’è allontanato con passo tranquillo verso il suo appartamento nell’antica stazione gialla. Sull’edificio principale comparivano ancora le scritte in rilievo: Ferrandina e Ferrovie Calabro Lucane. Dalle finestre penzolavano panni stessi.

Un uomo s’è offerto di darmi un passaggio fino a Miglionico perché non esistevano bus meridiani. In auto abbiamo parlato del suo lavoro. «Ho un’impresa agricola, coltivo il fondo della valle. Negli anni Ottanta mi hanno espropriato una fascia di terreni per fare il viadotto». Oltre una curva ho visto l’ingresso di un’altra galleria. «Ecco, quello era il vecchio tunnel delle Ferrovie Calabro Lucane». I treni si sono estinti, ma rimangono due serie parallele di reperti tra le valli e le colline, testimonianze delle linee fantasma. «Non concluderanno mai il percorso delle Ferrovie dello Stato. Due mesi fa Pittella, il presidente della regione, ha detto che il discorso è chiuso per sempre».

Nella valle sotto Miglionico ho camminato tra gli ulivi, cercavo l’uscita della vecchia galleria. Era sera e sentivo i piedi sempre più appesantiti dall’argilla che si attaccava alle suole. Dietro a un canneto m’è apparsa la stazione di Miglionico, il posto dove i treni fermavano fino a quarant’anni fa. Sembrava un casale degli anni Trenta, le pareti trattenevano ancora i toni slavati d’un rosa salmone. I vetri del piano terra e del primo piano erano rotti, le persiane chiuse. L’erba e gli sterpi erano alti, ma i pini disposti in fila di fronte all’ingresso evocavano l’ordine di un tempo. Ho immaginato i passeggeri sostare alla loro ombra, poi salire in carrozza. A pochi metri c’era un piccolo casolare, anch’esso rosa: sul lato più ampio appariva in blu la scritta cessi; lungo i due lati inferiori erano indicati il bagno per le donne e quello per gli uomini. Un roseto nasceva a fianco dell’ingresso per gli uomini, entrava nel vano e si protendeva fino alla turca. Ho cercato le rotaie, ma erano state rimosse. Al loro posto c’erano giovani ulivi grigi e argento.

Qualche giorno dopo ho intravisto di nuovo la stazione dismessa di Miglionico: era un punto rosa tra macchie di sempreverdi. Mi trovavo sulle mura del Malconsiglio, il castello che sovrasta il paese. Avevo le montagne alla mia destra e di fronte il colle oltre il quale si apre la valle del Basento. Ho pensato che in quella direzione, lontano, le trivelle estraevano il petrolio dal sottosuolo. Ho ricordato la mia colazione al bar dello scalo di Ferrandina e le riflessioni di Adele: «La Basilicata interna deve essere dimenticata e rimossa, ormai è un territorio gestito dalle compagnie petrolifere. Meglio se nessuno passa da queste parti. Matera invece sta diventando una meta turistica ambita, da visitare dopo aver apprezzato le meraviglie del Salento e di Bari. Il nostro territorio viene aggirato, e non trarremo alcun beneficio dall’elezione di Matera a capitale europea della cultura». Mi sono voltato e dall’alto del castello ho intravisto il profilo di Matera. Con lo sguardo ho disegnato il percorso ferroviario recente che sbuca dalla galleria e s’intaglia nel territorio fino alla città di tufo. Sapevo che prima di Matera era stata costruita la stazione di La Martella, l’ultimo snodo della ferrovia sognata.

Era quasi buio quando ho raggiunto la stazione di La Martella, un edificio ingrigito dalle intemperie e sperso nella campagna. La facciata presentava un porticato sorretto da sei colonne squadrate, alla base crescevano arbusti di piante infestanti. Tra le reti ho scoperto un pertugio e sono entrato. Attorno si estendeva un immenso piazzale coperto dal fango. Dietro alla stazione ho ritrovato il fondo di cemento del tracciato ferroviario: la linea si prolungava all’orizzonte fino a sparire nella nebbia invernale. Ai due lati c’erano le pensiline per i passeggeri, una scritta prometteva Odio eterno al calcio moderno. Potenza merda. Accanto all’ingresso ho notato alcune piastrelle cadute al suolo; in alto, sulla parete, ho visto i vuoti lasciati dal cedimento. La stazione m’è sembrata nuova e vecchia allo stesso tempo. Una novità che decade senza avere un impiego. Questa è una stazione giovane – mi sono detto – ma un giorno s’è ritrovata fuori dalla storia e ha iniziato a sgretolarsi: è invecchiata, eppure non ha vissuto gli anni della maturazione. Così ho sentito un’affezione per la stazione nuova e orfana di esperienze, lasciata in disfazione nel tempo senza eventi. È scesa la sera e un’amica è venuta a prendermi in auto. «Basta con la nostalgia – mi ha detto – perché non occupiamo questa stazione?». (francesco migliaccio)