I racconti del Premio letterario Energheia

Stampe_Enrico Camporesi, Forlimpopoli(FC)

_Racconto finalista quattordicesima edizione Premio Energheia 2008.

 

Ogni prassi è un’immagine

Carlo Emilio Gadda

 

La vastità di un deserto, distesa, dispiegata. Le dune plastiche sono un’epidermide molle, come un velo alzato dal vento. Inaspettatamente, con incedere lentissimo ed inesorabile sorgono dalla sabbia diversi camaleonti, il loro sguardo vuoto si getta dietro le mie spalle. Dirigo le mie braccia verso il cielo, poi immergo le dita nelle dune cominciando a scavare.

Lascio che il vento mi ricopra di frammenti d’oro mentre i rettili roteano gli occhi verso il sole. Non c’è minaccia, solo una accettazione doverosa del predominio di una nuova generazione.

È tutta la mattina che ripenso a ciò che ho sognato. Mi sono svegliato affaticato attorno alle undici. Fuori c’è il sole, l’aria tesa e rarefatta, placidamente opprimente.

C’è la stessa atmosfera delle giornate che ho cestinato in gioventù, quando preparavo con minuziosa noncuranza l’insalata per pranzo, ascoltando i martelli pneumatici dei lavori giù in strada.

Eppure stamattina non mi posso permettere di naufragare sul divano. C’è Sergio che mi aspetta come ogni mattina da qualche tempo. È grottesco vederlo in ospedale, fra quei volumi di aria sterilizzata eppure malsana, le finestre perennemente chiuse.

Mi ricordo di quando lo andavo a trovare a casa, nel suo soggiorno in penombra, fresco, vagamente umido. A volte d’estate mi pareva di sentire respirare i libri alle pareti.

Sergio stava dietro la scrivania, sulla poltrona sfatta, distrutta.

Mi osservava dall’interno degli occhiali a goccia, appena fumé. Impugnava un tagliacarte col quale giocherellava durante ogni conversazione. Oppure lo vedevo nel suo studio, col maglione impregnato di caffè e tabacco da pipa. Armeggiava con i colori con precisione meticolosa e appassionata.

A volte, sulla poltrona nell’angolo si poteva trovare seduta una delle sue modelle. Menadi romagnole che, velate le proprie forme con un drappo anonimo, si recavano al cucinino a gas per preparare il caffè per il Maestro.

Mi pare di saper cogliere sempre di più nelle sue tele lo scintillio di una giornata estiva, oppure il rovente sapore di una giornata autunnale. Anche nei suoi gruppi interni, nelle sue “fini di cena” sapeva catturare la giusta luce – con i corpi inquadrati dalla vita in giù, o di spalle, nascondendone il volto.

Per questo rivederlo ogni mattina, inserito nello spazio verde acqua della sua stanza d’ospedale, mi opprime. L’ambiente asettico continua a infliggergli violenza, credo che lo faccia soffrire ancor più che il male diagnosticatogli.

Esco.

La strada del ritorno si profila ancora più tortuosa. Stordito, cammino incerto verso il mio appartamento, esito: decido di passare da casa di Sergio, ho con me il mazzo di chiavi che mi ha consegnato qualche tempo fa, forse prefigurando la terribile ipotesi di non farvi ritorno.

Accarezzo la zigrinatura della chiave nella tasca ruvida, indisponente. Cammino nell’ombra, ascoltando i miei passi sul marciapiede (la strada è deserta), un brivido mi percorre la schiena fino alla base della nuca.

Apro appena il cancello, quel che basta per introdurmi nel giardino, con discrezione. Dalle finestre vicine scorgo sguardi torvi di volti rugosi, silenziosamente ostili.

L’ingresso solcato dalle ragnatele, un elenco telefonico ingiallisce, la rubrica aperta, sul tavolino, credo che siano le ultime telefonate che ha fatto – agli amici, ai colleghi, al circolo: “vado all’ospedale, non mi sento tanto bene”.

Siedo sul divano velato dalla polvere delle giornate assenti.

Giocherello con una trottola di legno sul tavolino di vetro, il movimento è incerto, scostante, mi da’ le vertigini. L’insensato sbatacchiare di quel trabiccolo insicuro è una melodia precaria, sonnolenta.

Sul ritmo del turbinio tarlato dirigo la mia osservazione: sfoglio qualche libro; accarezzo i soprammobili; solco con l’unghia le pennellate dei quadri alle pareti.

Non mi avventuro al piano di sopra: la camera da letto deve restare inviolata, per pudore, più che altro. Ed è per questo che cingo appena con le dita il principio del corrimano, ad una ad una, dal pollice al mignolo, per poi ritrarmi e girare le spalle, infilare l’uscita a passo spedito.

A casa rileggo una nota risalente a qualche giorno fa: «Gli oggetti che osservavo, tastavo, misuravo con le mani nello studio di Sergio, mi parevano innumerevoli epifanie di altrettante vite. I colori quasi secchi, le tavolozze luride, il cavalletto slanciato fino a toccare il soffitto, si fissavano nella mia mente come una forza distratta, pronti a riapparire al narrare la sua esistenza.

Tutto il racconto acquisiva concretezza, così, quando pronunciavo certe parole, avevo l’impressione che le cose, situazioni e interi ambienti, fuoriuscissero letteralmente dalla mia bocca.

Nella fattispecie, evocando il deserto di Helouan riguardo alla sua prigionia, il palato mi si seccava e mi pareva che la mia stessa pelle acquistasse un colore imbrunito».

Sorreggendo con la mano il taccuino, solcato dai rapidi segni del mio inchiostro nero, accarezzo un macchinario, posizionato sulla mia scrivania; lentamente riconosco sotto i polpastrelli l’Olympus che sottrassi, su indicazione di Sergio, dal suo studio. Quasi mi ipnotizza quel gigantesco, ciclopico, occhio scintillante che è l’obiettivo. Rivolto a me, questo pare fissarmi e così mi perdo a stanare i riflessi e le angolazioni più ardite, alla ricerca di una nuova prospettiva della stanza e della mia posizione in essa. Capovolto in controluce, sfondo violetto acido.

Ed è grazie a quel breve momento di visione imprevista, grazie a quella distrazione casuale, che la mia memoria pare riattivarsi e riannodare insieme l’esperienza onirica della mattinata, dischiudendomi il potenziale rivelatore della scena che mi si era presentata.

Sergio mi raccontava spesso un episodio della sua permanenza nel deserto.

Distrutti, stravolti, i soldati si avvicinavano a un camaleonte soffiandogli il fumo addosso e lo osservavano accartocciarsi e stramazzare.

La noia, il senso di smarrimento, trovavano, in questo delitto inutile e beffardamente sadico la giusta risposta alla domanda che nessuno, probabilmente, aveva posto.

Vivere con la precarietà non era, infatti un interrogativo, ma una realtà data.

Questo atroce passatempo poteva allora essere un tentativo di inciderla, impersonando il caso a cui si era soggetti. Il bulbo oculare del rettile, fisso, indifferentemente impietoso, veniva, allora violentato con la brace della sigaretta.

L’aneddoto, con quello sfondo di mostruosa insensatezza, mi riportava e mi riporta alla mente una voce del Manuale di zoologia fantastica. A proposito del Basilisco, si faceva riferimento a una sua peculiarità: questo animale mitologico aveva il potere di “creare il deserto attorno a sé”. Pensavo che la creatura in azione in quegli anni quaranta fosse allora una bestia ben più feroce di quella descritta: la guerra. La sensazione si rafforzava grazie all’impossibilità di figurarmi Sergio nelle vesti, imbevute di retorica, del milite di stampo fascista.

Essendo i suoi panni quelli d’un artista penso che, alla luce del resoconto appena riesumato, forse è solo per questo che l’attività creatrice umana si dispiega: prendersi una rivincita sulla realtà.

Che questo si compia poi con la penna o il colore o la gelatina d’argento, ha in fondo poca importanza.

Alla visita dell’indomani, ho sottobraccio l’arnese nel quale mi specchiavo nel pomeriggio di ieri.

Senza pensarci troppo, voglio ritrarre il mio pittore.

Mentre gli giro attorno (sta sotto le coperte) inizialmente, pare restio a lasciarsi immortalare, poi, dopo avermi scrutato attentamente, in silenzio, mi sorride. È un segnale di via libera, mi concede di appropriarmi della sua immagine. Uno scatto dopo l’altro pare quasi mettersi a ridere, poi si ricompone; quando lo saluto, stringendogli la mano, non ha più la forza di parlare.

Sento che mi segue con lo sguardo quando gli volto le spalle per andarmene.

È una telefonata a farmi scivolare fuori dal letto la mattina seguente. Stropiccio gli occhi, schiarisco la voce: – Pronto?

La chiamata proviene dall’ospedale, Sergio è morto la notte scorsa, in silenzio pare, nel sonno.

Col braccio come paralizzato, fatico a riattaccare la cornetta gelida.

Cerco di placare il nervosismo delle mie dita riavvolgendo il rullino della macchina fotografica.

Stringo la minuta manovella col pollice e l’indice, il riavvolgimento non oppone la minima resistenza.

Quando spalanco il coperchio per estrarre la pellicola, mi accorgo che l’apparecchio non contiene nulla e ripenso al sorriso sornione che mi era stato rivolto il giorno prima, come all’ultima lezione del mio Maestro.