I racconti del Premio letterario Energheia

Senso di colpa_Claudia Felisari, Bollate(MI)

_Racconto finalista quindicesima edizione Premio Energheia 2009.

 

La tavola era apparecchiata con cura. Il servizio elegante era già stato sciacquato, lucidato e disposto ordinatamente per il tè delle cinque. Le tendine a pacchetto erano state abbassate quel tanto che sembrava opportuno per lasciare filtrare il calore, ma non la luce abbagliante. I mobili del soggiorno erano stati spolverati, il tappeto d’ingresso sbattuto e pettinato già dalla mattina.

Giada scese le scale a passi veloci e silenziosi, si affacciò in salotto per controllare che anche lì fosse tutto in ordine.

Ebbe cura di ruotare leggermente il vaso d’argento perché si vedessero meglio le cesellature, vi accomodò con scrupolosità le rose secche che la cameriera si era limitata ad infilare, senza prestare attenzione alcuna alla disposizione. Solo dopo essersi accertata che facessero bella figura, si preoccupò di verificare nello specchio centrale che anche i suoi capelli, color mogano, decorati da riflessi più chiari, ondulati e mossi per quanto trattenuti da nastri e forcine, fossero in ordine. Al suono del campanello, si infilò rapidamente i bracciali d’oro, che aveva lasciato sul ripiano d’appoggio della credenza e si diresse alla porta. Spalancò l’ingresso. Sorrise quanto più spontaneamente possibile all’uomo, fermo sulla soglia, che la osservava attento e con atteggiamento presuntuoso.

“Ciao…”

“Ciao, bimba”.

Giada cercò alle spalle di lui, insistentemente, il volto di Carlo.

“Dov’è tuo figlio?” –, domandò con voce tesa.

“Non è potuto venire. Aveva lezione di nuoto”.

Abbassando lo sguardo, si scostò dall’ingresso per farlo entrare. Richiuse la porta con un senso di apprensione in petto.

Non le sembrava che quell’inizio promettesse niente di buono.

Seguì ad una certa distanza l’ospite in soggiorno. Trovò la signora Luisa, già in attesa degli ordini, accanto alla tavola.

“Prepara il tè, per piacere”.

“Subito”.” Buonasera, signor DeMarchi”.

“Buonasera, Luisa”.

Dopo averla guardata divertito per qualche istante, Nicola sedette al solito posto e rivolse a Giada un sorriso malizioso.

“Qualcosa ti preoccupa?”

“Ma no… come ti viene in mente?”

Prese il posacenere di cristallo che lei gli offriva e accavallò le gambe con sicurezza e imperturbabilità.

“Giacomo?”

“Ora scende. Una telefonata lo sta trattenendo nello studio”.

Altro sorriso sfrontato. Altro sguardo indagatore. Giada approfittò del ritorno di Luisa per occuparsi di servire il tè. Lo fece con lentezza estenuante, nella speranza di dover tornare a guardare l’uomo che le stava di fronte il più tardi possibile.

Restituì alla cameriera la teiera e, sedendosi, lasciò cadere due zollette di zucchero nella propria tazza. Bevve appena un sorso, quasi solo umettandosi le labbra. Non aveva nessuna voglia di tè in quel momento, se lo inghiottiva era solo perché sentiva il bisogno di nascondersi da quella situazione. Sollevò intimorita lo sguardo su di lui e restò avvinta dalla malinconia – sentimento infine reale – che pervadeva i suoi occhi. In quella malinconia, in quell’avvilimento, in quella disperazione esistenziale, lei ritrovava l’uomo che sentiva nelle viscere, nella sincerità di quella tristezza che faceva parte di lui, si abbandonava completamente. Si scopriva confusa, perduta, incerta della sua vita e persino di se stessa. Incerta di tutto, eccetto che di quel suo infinito trasporto per lui.

“Come stai?” –, le domandò lui con voce fievole.

Giada sorrise leggermente per rassicurarlo, o forse per tranquillizzare se stessa, poi provò a concentrarsi di nuovo sul tè. Fremette al tocco di lui che poggiava con delicatezza la propria mano sulla sua. Avrebbe voluto ritrarla velocemente, il più velocemente possibile. Avrebbe voluto fargli capire con fermezza che quelli non erano né il luogo né il momento, che non ci sarebbero nemmeno dovuti mai essere un luogo o un momento. Ma non riuscì a fare nulla. Rimase immobile.

Godendo il calore che le veniva da quel tocco, l’eccitazione, la voglia di vita, l’amore che il corpo di lui le suscitava risvegliandola, scuotendola. Subendo il senso di colpa, il disagio, la paura che quelle emozioni le procuravano.

“Guardami”.

Ma Giada non si voltò a guardarlo. Se bastava la sua voce a turbarla, sapeva che guai ben peggiori le avrebbe causato il suo sguardo. Facendosi forza, sciolse le proprie dita da quelle di lui. Si schiarì la voce.

“Nicola, è necessario che noi parliamo…”

“Giada, non dire niente. Non sciupare nulla”.

“Io non voglio sciupare niente”.

“Allora non dire nulla”.

Si chiusero entrambi nel silenzio. Giada giocherellò per qualche istante, in profondo imbarazzo, con il bordo di pizzo della tovaglia, sgualcendolo un poco. Sospirò. Non voleva guardarlo. Ma il silenzio di lui l’avrebbe costretta a farlo.

“Nicola…”

“Giada”.

L’aveva interrotta energicamente, con risolutezza. Come se volesse fermarla prima che quel discorso li tradisse. Con una nota di preoccupazione racchiusa nella voce. Giada non comprese. Seguì la direzione dello sguardo di lui fino alla porta d’ingresso del salotto. D’improvviso, vedendo la bambina ferma sulla soglia, poggiata allo stipite, con una ciabatta sì e l’altra no, gli occhioni sgranati su Nicola, si alzò di scatto

in piedi e fece per chiamare Luisa. Lui la bloccò afferrandole dolcemente il braccio.

“Lascia che entri”.

“Ma non dovrebbe stare qua”.

“Non m’importa”.

“Tra poco scenderà Giacomo”.

“Di questo m’importa ancora meno. Lasciamela guardare”.

Giada tentennò molto alla sua richiesta. Non avrebbe dovuto consentirgli di comportarsi così liberamente in casa sua, non avrebbe dovuto permettergli di dettare legge in ciò che riguardava la sua famiglia. Eppure non era in grado di muovere le labbra per dirgli che non era giusto quanto chiedeva.

Con questa politica di comportamento – ne era consapevole – Giacomo avrebbe finito per capire tutto di loro. Ammesso che non sapesse di già. Si risedette al proprio posto, ma con le antenne in allerta, per captare i movimenti del marito al piano superiore, restando appena poggiata al bordo della poltrona, come in prestito. Teneva gli occhi fissamente attaccati a Nicola cercando di fargli comprendere quanta ansia le stesse causando la sua pretesa, ma l’attenzione di lui era tutta per la bambina.

“Ciao, piccolina” –, si rivolse a lei, sorridendo con dolcezza – “Perché ti nascondi nell’angolino? Non devi avere paura. Sono un amico della mamma. Cosa tieni lì con te?”

“Un orsacchiotto…”

“Me lo faresti vedere?”

“Nicola, per favore, no” -. Intervenne Giada.

Quasi come se lei non avesse parlato, l’ospite si sporse in direzione della bambina, tendendo le braccia spalancate verso di lei che, un po’ intimidita, un po’ maliziosa, si limitava a sorridere e a rimanere immobile dov’era. Giada stava finalmente per prendere il coraggio necessario per chiamare Luisa, quando Nicola alzandosi in piedi repentinamente rincorse la bambina, suscitandone le risate e la prese al volo tenendola stretta a sé. Le accarezzò dolcemente la schiena e la pancina, poi si sedette con lei in braccio. Una mano tra i suoi capelli.

“Me lo dici il tuo nome?”

“Angelica”.

“Angelica…” -, mormorò piano, come se fosse un segreto, con malinconia – “posso vedere il tuo pupazzo?”

La bimba glielo diede senza pensarci due volte, presa com’era a guardare e a toccare i bottoni perlati della camicia dell’uomo. Nicola osservò, con sguardo di nuovo ridente il musetto dell’orsacchiotto e poi diede un bacio sulla nuca alla bambina, dondolandola piano tra le braccia, invitandola ad abbandonarsi al sonno.

Giada, che alla presenza di Angelica si era sentita assalita dall’ansia, vedendo la fiducia spontanea con cui sua figlia si era adagiata nell’abbraccio di una persona a lei completamente sconosciuta, come mai aveva fatto prima, si appoggiò a disagio sul bordo del tavolo. In quel momento, non sapeva spiegarsi perché, si sentiva triste e anche un po’ infastidita. Un turbamento che si manifestava come una strana e spiacevole stretta alla bocca dello stomaco, un’impressione sgradevole che le metteva in corpo un bisogno impellente di muoversi.

Si sforzò di mantenere il controllo per qualche istante, poi si spostò dall’altro lato della sala e si affacciò alla finestra. Nello scorcio di parco che poteva intravedere dalla zigrinatura della vetrata, osservò, con occhi vacui, una coppia di giovani che tenendosi per mano, passeggiavano lungo il viale alberato con un cane di piccola taglia al guinzaglio. Nonostante non sapesse nulla di loro, si sentì vuota dentro, mentre seguiva il loro passaggio. Anche dopo che furono usciti dalla sua visuale, rimase con gli occhi fissi nel punto in cui era riuscita a scorgerli l’istante prima che scomparissero dal suo orizzonte. Si era fatto molto silenzio intorno a lei: non udiva più Angelica trastullarsi nella scoperta dei bottoni, né Nicola coccolarla.

Incomprensibilmente non le interessava, affatto sapere se i due fossero ancora in sala o se si fossero allontanati, senza dirle nulla. Sospirando, si accovacciò sotto il davanzale e aprì le ante della finestra. Lasciò entrare i rumori della strada: il rombare delle automobili in lontananza, le voci di due ragazzine che gironzolavano sul marciapiedi, la suoneria di un cellulare, il frusciare del vento tra le foglie della betulla.

“Giada?”

Trasalì leggermente nel ricordarsi di non essere sola nella stanza. Si voltò:

“Che c’è?”

“Stasera va bene se passo alle undici?”

“No, stasera non venire”.

“Perché?”

A Giada non piacque affatto l’inflessione avvilita che aveva assunto la voce di lui. Tornò a guardare fuori dalla finestra, irritata.

“Perché no”.

Sperò fervidamente che da quel dialogo non stesse per scaturire una discussione. Non se la sentiva davvero di affrontarne una. Sapeva solo che in quel momento la vicinanza di Nicola le era terribilmente invisa e che avrebbe preferito saperlo ovunque tranne che lì. E più pensava che non avrebbe voluto litigare con lui né parlargli, più le pesava indicibilmente il silenzio tra loro. Ciò nonostante, si ostinava a fissare la strada senza dire una parola.

Sentendo una sedia alle sue spalle scivolare rumorosamente sul pavimento, come spostata con violenza da chi ha brutte intenzioni, si girò di scatto spaventata, ritraendo il volto per proteggersi. Si sorprese di se stessa scoprendo di aver temuto che Nicola fosse scattato in piedi per schiaffeggiarla con forza. Trovando la stanza deserta alle sue spalle, rilassò le spalle, sentì il sangue riaffluire alla testa e il cuore battere furiosamente per la paura provata. Deglutendo a fatica, chiuse la finestra e mosse qualche passo a disagio intorno al tavolo.

Con la gola secca cercò di bere qualche goccio di tè rimasto nella tazza di lui. Afferrò la sigaretta che aveva lasciato ancora accesa nel portacenere e fumò nervosamente. Al rumore di passi in direzione della sala, si affrettò ad espirare e a riporre la cicca al suo posto.

Nicola si bloccò per un istante sulla soglia, le sorrise con cattiveria.

“E’ inutile che tu faccia questa messa in scena. Lo so che fumi”.

“Pensavo fosse Giacomo. E comunque non fumo veramente.

E’ solo uno sfizio che mi prendo, di tanto in tanto”.

“Sì… immagino che le buone maniere che ostenti ti impediscano di fumare, ma ti consentano di farlo di nascosto. E’ la differenza che intercorre tra fumare e prendersi uno sfizio, giusto?”

“Non è vero quello che dici. E sei insopportabile quando ti atteggi a cinico”.

“Che posso farci? Le tue ipocrisie m’impongono il cinismo. E’ solo triste pensare che tra pochi anni l’educazione che le state impartendo farà effetto e tua figlia sarà la tua identica copia, il prodotto di due coniugi troppo impegnati a scalare socialmente per essere anche genitori”.

Giada fece scattare istintivamente una mano in alto, con l’intento di colpirlo in pieno viso, con gli occhi pieni d’ira, il respiro affannato. Nicola le afferrò il braccio con forza impedendole di muoverlo.

“Non fare stupidate, bimba”.

“Lasciami”.

“No, che non ti lascio”.

La strinse contro di sé con la forza di un sentimento troppo forte e troppo fragile allo stesso tempo, obbligandola al suo abbraccio ma non con l’intento di costringerla, a dispetto della sua volontà. La baciò sulle tempie, sulle guance, passando le mani tra i suoi capelli profumati. A Giada sfuggì un gemito mentre si afferrava a lui, poggiava la testa sulla sua spalla con il cuore pieno di pianto. Aveva ormai appreso quanto l’amore fosse un gioco doloroso, così doloroso che a volte, pensava, sarebbe stato meglio per lei non conoscerlo affatto.

Si appoggiò a lui con tutta se stessa, stringendo tra le mani la sua camicia. Nicola fece il possibile per calmare la sua pena: la tenne vicina, le accarezzò la nuca delicatamente, la baciò sulle labbra, la prese sulle ginocchia. Quando la bambina rientrò in sala, Giada si asciugò le lacrime frettolosamente, portandole via con il dorso della mano, per non spaventarla.

Ma non fece segno di volersi spostare da dov’era seduta.

“Ehi, Angelica…” –, mormorò piano – “Dove hai messo Pucio?”

“Pucio?” – chiese, ridendo Nicola.

“E’ l’orsacchiotto”.

“Ah…”

“Dov’è Pucio?”

“Non lo so” –. Rispose la bambina, guardandosi in giro, divertita.

“Dove l’hai nascosto? Poi lo trova papà e si arrabbia”.

Giada si alzò in piedi a malincuore e cominciò a frugare nei soliti posti in cui la piccola aveva il vizio di “seppellire” i suoi tesori. Sotto il divanetto, dietro la cassapanca, tra la cristalliera e il muro, tra le gambe dell’attaccapanni, dietro le tende di velluto. Si voltò verso Angelica, cercando di portare pazienza.

“Va bene, Angie, adesso basta con i giochetti: dove hai messo Pucio?”

La piccola, arrampicata sulle gambe di Nicola, intenta a contare – e tirare – le dita delle sue mani, non diede neppure segno di essersi accorta della domanda della madre. Continuò imperterrita a cercare di attirare a sé il più possibile l’attenzione dell’ospite che sembrava, più che altro, preoccupato di evitare che lei cadesse o si facesse male. Guardandola giocare con attenzione, le cantava una filastrocca che la faceva ridere.

Giada avrebbe voluto non dover assistere a quella scena, avrebbe desiderato non sentirsi costretta a fissarli, ma non riusciva a staccare gli occhi da loro. Il suo petto si colmò di un sentimento dolceamaro. Si sentì sporca e mentitrice.

Mordicchiandosi un’unghia si sforzò di sorridere a Nicola che aveva alzato lo sguardo su di lei. Improvvisamente la porta si spalancò e lasciò irrompere Giacomo.

“Perdonami, Nicola! Il lavoro è un delirio in questo periodo!”

I due si strinsero la mano con una cordialità molto affine alla formalità. Repentinamente Giacomo mutò l’espressione gentile del volto in una smorfia di fastidio. Si rivolse a Giada.

“Cosa ci fa la bambina qui?”

“Era scesa a cercare un gioco” –, buttò fuori lei tutto d’un fiato, con il corpo teso, rivelando proprio l’ansia che stava sforzandosi, in ogni modo, di nascondere.

“Perché non l’hai rimandata subito in camera sua?”

“Stavo per farlo… Sono andata…”

“Gliel’ho impedito io” –. Intervenne Nicola. – “Ho voluto giocare un po’ con la bambina”.

“Luisa!” –, chiamò spazientito – “Luisa, vieni subito, per piacere!”

Nicola e Giada si incontrarono in uno sguardo fugace: lei con gli occhi appena velati di pianto, lui con il volto segnato da un’espressione severa. Di fronte a quell’esame di coscienza, lei sentì il cuore batterle dolorosamente contro il torace. La cameriera, entrando, si chinò subito a prendere per mano la bambina, conducendola fuori dalla sala. Solo dopo che la piccola fu uscita, Giacomo sembrò ricomporsi in presenza dell’amico. Sorrise. Offrì a Nicola un bicchiere di brandy. Accese il suo sigaro pomeridiano. Si immerse in una conversazione intellettualmente impegnata sulle recenti delibere del parlamento.

Giada, facendo meno rumore possibile, come sempre assistette con grazia all’avvio del discorso. Non appena i due uomini parvero a loro agio, si defilò piano dal centro della stanza e poi scivolò con cautela fuori dalla stanza, socchiudendo la porta alle proprie spalle.