I racconti del Premio letterario Energheia

Sant’Elia, Christian Mandas_Milano

Finalista Premio letterario Energheia 2023 – Sezione Adulti

Racconto Vincitore Premio Energheia 2023.

Il suo preferito è Arturo, pelo lungo e color miele. Le si struscia sulla schiena, miagola. Vuole il pesce. Caterina, seduta sul molo, sente le barche del porticciolo galleggiare, le cime degli ormeggi che tirano.

La luna è piena. Luna di sangue si chiama quella di ottobre. La sua luce le basta per pescare e nonostante l’autunno sia già avanzato, fa ancora caldo come ad agosto. Lega la rete ad una bitta, prende una manciata di muxioni dal secchio e li lancia sulla banchina verso gli altri gatti. Mimosa, Vega, Sirio, gli ha dato i nomi delle stelle più luminose del cielo. Saltano verso i pesciolini e se li mangiano cominciando dalla coda. Non lasciano niente. Leccano ripetutamente le assi di legno fino a quando ogni minima traccia è scomparsa.

Quando sente muoversi qualcosa nell’acqua si avvicina alla rete. Scioglie il nodo dalla bitta e si accorge che è più leggera di prima.

Merda!, pensa.

La solleva e trova un grande squarcio nella parte di sotto. Attraversa i fantasmi del Borgo Vecchio, lenzuola bianche appese alle finestre, e sale verso il fortino di Sant’Ignazio. La rete attorno al collo, una spalla sollevata per fare forza sul secchio che pesa. I gatti la seguono come la coda di una cometa.

Nel colle del fortino c’è quella che Caterina chiama casa: il rudere di una garitta antiaerea che ha rattoppato con legno e plastica.

Trasferisce le sarde, le sogliole e le passere in una grossa scivedda di terracotta. Uno strato di sale grosso, uno di pesce, uno di sale, uno di pesce e così via fino a quando la scivedda è colma. La chiude con un coperchio di latta e ci mette sopra una grossa pietra.

Si leva il sale dalle mani con uno strofinaccio e si infila tra le coperte sopra un letto di posidonia. I gatti le si accucciano attorno e iniziano il loro concerto di fusa.

Saturnia è già in piedi prima del sole. Canta la sua litania mentre intreccia i rombi delle reti appese tra due sedie. Caterina arriva dalla vecchia che l’odore di sugo al pomodoro s’incanala tra le vie del borgo. Porta con sé speranza e una rete malconcia.

Saturnia la accoglie a mani aperte. Da quei palmi, rigati dai graffi delle corde ruvide e dalla salsedine, si possono intravedere i suoi sessant’anni di lavoro da tessitrice di reti da pesca. Ha iniziato che era bambina e continua anche adesso che ha i capelli più bianchi della spuma del mare.

“Deve essere stato un barracuda.” Dice a Caterina ispezionando lo squarcio.

Sceglie il filo con cura, il più resistente, senza pensare al colore. Prende l’ago, fa il primo nodo e inizia a ricucire i rombi. Canta, alza lo sguardo e le dita lavorano per lei. Quello è il lavoro delle reti che fa da una vita e le riesce anche ad occhi chiusi.

Una volta aveva provato ad insegnarlo a Caterina ma la ragazza non era riuscita a seguirla.

“Non ci riesco, tzia. È troppo difficile.” Le diceva.

“Sa passénzia devi imparare Caterì, la pazienza.”

È rimasta l’unica tessitrice di reti nel borgo, Saturnia. Dicono di lei che non voglia tramandare i suoi segreti. In verità a nessuno interessano più. Le reti vanno a prenderle dai cinesi, e quando si rompono ne comprano di nuove.

“Ecco fatto!”

La rete di Caterina è pronta in pochi minuti.

“Grazie tzia! E sentite… per le medicine?”

“Mi sto ancora lavorando il farmacista Caterì.”

“Ma il colloquio con il dottore è andato bene? Posso prenderle?”

“Sì, sì che puoi prenderle. Però capirai che non è facile averle sottobanco. Ricordati Caterì: sa passénzia.”

La chiesa di Sant’Elia ha una facciata rosa che si affaccia sul mare in un panorama da sogno.

Don Schirru ha la testa scuccata, il naso butterato come il guscio di una noce e una pancia che sembra gonfiata a soffi dall’ombelico. Dicono che non mischi mai il vino della messa con l’acqua. Forse è per questo che alla quarta celebrazione del sabato, la più importante, diventa tutto rosso e inizia a ballare il tip tap sulle canzoni del coro.

Caterina è seduta tra i musicisti della chiesa, fissa lo spartito che ha di fronte. I polpastrelli planano sulle corde tese, lasciandosi solcare.

Si appoggia sopra il tappeto sacrale dell’organo e conduce la sua melodia accompagnata dai fraseggi di chitarra.

Non crede in Dio Caterina. Eppure la messa è l’unico momento in cui può suonare e sentirsi parte di qualcosa. Preferisce credere nelle stelle dell’universo, nella natura e nelle anime. Tuttavia, quando vede Nicola che si stacca dal coro e inizia a cantare da solo, qualcosa di divino lo sente.

Il ragazzo, alto e biondo come un pirata norreno, guarda solo lei mentre canta. E in quei momenti, Caterina si sente il petto illuminarsi come il Sacro Cuore di Gesù.

La loro è una relazione di soli sguardi e sorrisi che dura ormai da mesi. Eppure lei sa quasi tutto di lui.

Abita nella zona ricca del quartiere, ha una sorella più piccola e, a differenza sua, è molto credente.

All’Andate in pace di don Schirru, Caterina conserva il violino nella custodia e scende dal pulpito. Saluta i musicisti, dandosi appuntamento alla settimana prossima.

Nicola la ferma da dietro, toccandole una spalla.

“Caterina giusto?”

“Sì, piacere.”

Si stringono la mano.

“È da un po’ che ti vedo qui. Da dove vieni?”

“Da Cagliari.”

“Se ti va un giorno possiamo farci un giro sul Lungomare, che ne dici?”

Caterina annuisce. Sente lo Spirito Santo entrarle in corpo e improvvisamente ha caldo. Il ragazzo la saluta e percorre la navata centrale. A lei quella camminata pare una cerimonia. Lui apre il portone di legno ed è un occhio sul mare, in cui Nicola, sparisce troppo presto.

La ragazza prende via dei musicisti e sale sul colle del fortino. Le abitazioni lasciano spazio alla roccia calcarea e alla vegetazione selvatica.

Il Forte si presenta come un muro diroccato con grandi finestroni verso il cielo.

Si siede sotto un arco di pietra, guarda il mare e si lascia navigare dalle sue note. Caterina dopo la messa ama andare lì per esercitarsi col violino. I profumi dell’elicriso, del rosmarino e del mirto la inebriano. La sua melopea plana lungo i sentieri serpentini più veloce dei carretti che i bambini costruiscono per volare sulle vie verso il borgo.

Mentre suona, ripensa a Nicola. Chiude gli occhi e ballano il valzer che lei sta suon…

Chock!

Un sassolino sul violino. La corda stride. Caterina si ridesta. Il colpo ha lasciato un solco. Si intravede il legno più chiaro.

Chock!

Un sassolino tra le scarpe. Caterina scende dal fortino, si alza in piedi, si guarda attorno.

Chock!

Un sassolino le colpisce la testa. Se la copre con la mano che tiene ancora l’arco. Guarda in alto.

Un ragazzo passeggia sul muro del fortino. Canotta bianca, braccia tatuate, sigaretta tra i denti. Fa un salto e cade in piedi.

“Non dovresti venire quassù tutta sola. Tra poco è buio e dicono che di notte al Forte compare su dimoniu.”

Caterina non risponde.

“Tranquilla che io di notte ci vengo spesso qua e su dimoniu non l’ho mai visto. Al massimo qualche caddozzo con la braghetta scesa che se lo fa ciucciare da una bagassa.”

“Cosa vuoi?” Gli chiede. E mentre il ragazzo fa un passo verso di lei, Caterina lo minaccia con l’arco.

“Abbassa quella cosa”. Fa un ultimo tiro di sigaretta, butta la cicca per terra e la schiaccia con la punta della scarpa.

“Giammichele sono. Mi conosci?”

Caterina fa di no con la testa.

“Sicuramente conoscerai le mie canzoni. Tutta Sant’Elia le conosce.”

Ed è vero. Giammichele si sente suonare nelle autoradio sotto i palazzoni, lo canticchiano i bambini al mercato, l’intero quartiere sa le sue rime a memoria. È il cantastorie del quartiere. La mamma si vanta del figlio al supermercato e con i pazienti all’ospedale.

Si fruga una tasca.

“Tieni, è una mia cassetta. Conosci il rap? Perché non suoni per me? Ti ho visto in chiesa con il violino, sembri brava.”

“No, grazie” gli dice. E fa per andarsene.

“Nessuno mi ha mai detto di no, callonedda.”

Caterina non si gira neanche. Prosegue i suoi passi ma Giammichele non ci sta. Sputa a terra il catarro giallo dal tabacco e si avvicina a lei a passo svelto. Un piede davanti alle gambe e la ragazza cade a terra lasciando la presa del violino. Giammichele lo raccoglie tra la polvere.

“Sai che ti dico? Che allora la musica me la faccio da solo.” E se ne va a gambe levate dietro gli arbusti del colle.

Il tempo che Caterina si rialza da terra e Giammichele è già sparito. Del violino le rimane solo la custodia.

Ai piedi del Borgo Vecchio, c’è quello nuovo. Alti palazzoni da far sparire il cielo e case popolari a schiera.

Caterina entra tra gli edifici e sente odore di piscio dappertutto.

Televisori e scarpe da tennis sembrano volati giù dal cielo.

Cercare Giammichele in quel labirinto di cemento armato sembra un’impresa impossibile.

Attraversa un portone qualsiasi e sale la scale. La ringhiera arrugginita e l’intonaco a frattazzo. Dalle abitazioni voci di telenovelas sudamericane. Del violino neanche un’eco lontana.

Si affaccia ad un ballatoio e lo vede nel palazzo di fronte, Giammichele, che entra in una casa. Deve essere la sua, sesto piano.

Caterina scende le scale spedita e va dall’altra parte del cortile. Pigia il bottone dell’ascensore. Due vecchietti sdentati ne escono tenendosi a braccetto. Entra dentro e preme il numero sei.

L’ascensore trema, la cinghia stride. Arriva al piano che le porte si aprono a metà. Per uscire deve fare forza con le braccia e aprirle del tutto.

“Giammichele! Giammichele!” Urla.

Si affaccia al ballatoio e guarda il palazzo in cui si trovava prima.

Deve aver sbagliato piano.

Questa volta prende le scale. Sale una rampa ma trova il pianerottolo chiuso da un cancello. Sale ancora e si trova sul tetto del palazzone. Palloni da calcio sgonfi, stendini con roba ad asciugare, tavolo e sedie di plastica rovinati dal tempo. Si sporge alla ringhiera e guarda in basso. Giammichele lo ha perso un’altra volta.

Si sfoga tirando un calcio ad un Super Tele rosso e nero. Prende la musicassetta che lui le ha lasciato e la guarda volare verso la strada.

Al Lazzaretto ci mandavano gli appestati. Come per l’epidemia di metà Seicento finita grazie all’intercessione di Sant’Efisio. Già da allora a Sant’Elia ci finivano i disgraziati.

Adesso ci fanno il mercato. Caterina va lì a vendere il suo pesce sotto sale. Ha un piccolo banco con sopra una scivedda. Quando la svuota torna a casa. Intorno a lei i pescatori veri, venditori urlanti che conservano il mare in contenitori di polistirolo e ghiaccio. C’è di tutto: anguille che sguazzano, gamberoni rossi come il vino, sogliole che ancora saltano e ricci per gli spaghetti.

Caterina intravede Nicola che passeggia con la madre tra le bancarelle. Cerca di coprirsi il viso con i capelli, si abbassa sulla sedia per non farsi notare ma non serve a nulla. Nicola la vede e si allontana dalla madre per raggiungerla.

“Lavori qui?”

“Sì”

“Deve essere bello. Puoi mangiare tutte le cozze che vuoi.”

“Guarda, una volta mi hanno fatto venire un’intossicazione e sono stata male per tre giorni”.

Le esce così. E appena finisce di parlare si rende conto che forse non era la cosa più intrigante da raccontare.

“Sono due settimane che non ti vedo in chiesa. Torni questo sabato?”

“Non credo… mi hanno rubato il violino.”

“Chi?”

“Giammichele. Quello che canta e che sta nei palazzoni. Sono anche andata a cercarlo ma mi sono persa e non l’ho trovato.”

“Io lo so dove abita cussu conch ‘e cazzu. Che ne dici se domani pomeriggio ci andiamo insieme? Ci riprendiamo il violino a costo di dargli un pugno a quello lì.”

Caterina sorride. I gabbiani volano sul mercato. Vicino al Lazzaretto cuociono il pesce arrosto. Il suo profumo scende fino al mare e spinto dal vento risale sul colle, dove si perde nel tempo.

Saturnia squama le sarde che Caterina le ha portato. Avanzi del mercato. In una padella rosola l’aglio e un rametto di origano.

La ragazzina passa al setaccio i pomodori bolliti. Non proferisce parola. Sospira.

La vecchia la osserva, Caterina non sposta lo sguardo dai pomodori.

“Innamorata ti sei?”

“Come tzia?” Questa volta la guarda. Forse è davvero una stria come dicono. Deve averle letto nel pensiero.

“Gioconda ti devo chiamare? Lo conosco quel sorrisino a mezza bucca. Come riconosco questi sospiri: soffi d’amore. Lui come si zerriara?”

“Nicola.” Dice Caterina.

“Su primu amori è senza dubbio il più bello. Ma anche il più doloroso, filla mia. Non sarei una buona tzia se non ti avvertissi.”

“Perché dite così tzia?”

“Perché sei troppo ingenua Caterì, troppo buona. Sei ancora una bambina, non sei pronta per l’amore. Devi imparare presto ad affrontarlo con un’armatura di piombo.” Dice aprendo un cassetto della cucina.

Sul tavolo appoggia una stoffa appallottolata e chiusa con dello spago. Caterina apre il suo regalo e trova le medicine che aveva chiesto. “Grazie tzia!” Dice la ragazza commossa.

“Non esagerare Caterì. Una pillola al giorno. Il dottore ogni tanto vuole vederti. Io gli ho detto che può venire qui quando vuole a visitarti. Gliel’ho spiegata la situazione, che sei ancora minorenne, sa tutto. Mi ha detto anche che col tempo puoi sentirti stanca e meno forte ma poi tutto diventerà come sarebbe dovuto essere fin dal principio.”

Si danno appuntamento nel piazzale della chiesa, scendono il Borgo Vecchio e prendono via Schiavazzi.

Anche il cielo è diventato grigio come i palazzoni. Una coltre di nubi scure promette acqua.

Caterina inizia a sentire un po’ di fresco. Il vestitino a fiori è troppo leggero. Nicola indossa una felpa nera con cappuccio.

Procede spedito con i pugni stretti e lo sguardo di chi sta andando a battersi in duello.

Arrivano di fronte ad un cancello rosso. Nicola suona tutti i tasti del citofono e qualcuno apre. Il ragazzo prova ad entrare ma il cancello è pesante. Stringe le sbarre con le mani e si appoggia con tutto il peso del corpo. Due calci alla parte di sotto e il cancello si smuove.

Prendono le scale, l’odore di marjuana li avvolge. Caterina lo segue, non conta i piani. Escono in un ballatoio. Terza porta a sinistra.

Da dentro arriva la musica di uno stereo. I bassi fanno vibrare la tapparella ancora abbassata accanto alla porta.

Nicola suona il campanello.

Giammichele apre che è a torso nudo, gli occhi rossi, una canna tra le dita, a stento si regge in piedi.

“Cazzo vuoi?”

“Hai qualcosa che non ti appartiene.” Dice Nicola.

Giammichele strizza gli occhi, mette a fuoco, vede Caterina.

“Cos’è questa storia?” Chiede indicandoli. “Insieme state?”

Nicola si precipita dentro casa senza chiedere permesso.

Giammichele si avvicina a Caterina, per poco non cade a terra. Lei si ritrae fino a sentire la ringhiera fredda del ballatoio sulla schiena.

Il ragazzo fa un tiro e le sputa il fumo sulla faccia. Nicola esce dalla porta con il violino tra le mani.

“È questo?”

Caterina fa sì con la testa e si stringe tra le braccia.

Lui le consegna il suo strumento e si toglie la felpa. Fuori inizia a gocciolare.

“Caghino sei?” Domanda Giammichele mentre Nicola copre le spalle di Caterina con la felpa. “Perché non ve ne andate ai parcheggi, a fare queste cose?”

“Che vuoi dire?”

Caterina sgrana gli occhi.

“Quello è figlio di Bonaccarta. Non è femmina. C’ha l’uccello in mezzo alle gambe.”

Nicola non capisce.

“Non lo sapevi?”

Nicola si gira verso di lei che stringe a sé il violino.

“Vero è?”

Lei non risponde ma gli occhi si riempiono di lacrime.

Lui la osserva, la seziona con lo sguardo: i capelli neri, le ciglia lunghe, le mani piccole. Più la guarda e più non trova niente di maschio in lei. Eppure lei continua a non rispondere.

Nicola non si riprende neanche la felpa. Scende le scale e ad ogni gradino è più veloce.

Giammichele butta la cicca della canna giù dal ballatoio. Si avvicina a Caterina.

“Mia madre lavora in ospedale. La conosce bene a Bonaccarta.

Vuoi che le mandi a dire qualcosa da parte tua a quella pazza?” E barcollando rientra in casa.

Fuori piove. Un acquazzone si è scatenato sulla città. L’autunno è arrivato.

Le lacrime si confondono con la pioggia sul suo viso. Caterina riprende via Schiavazzi per tornare nel Borgo Vecchio.

Con la felpa copre il violino, cerca di non farlo bagnare troppo.

Se si gonfia il legno è la fine, non può permettersene uno nuovo.

Quello strumento è tutto ciò che si è portata dietro dalla sua vita passata. L’unica cosa che era riuscita ad ottenere dalla madre.

Niente affetto, niente attenzioni. Solo un violino.

Quando Bonaccarta, con enormi sacrifici era riuscita a comprarglielo e a pagargli un maestro, voleva compensare a tutto quello che non aveva fatto per il figlio. Ce l’aveva messa tutta Bonaccarta ma le crisi le venivano sempre più spesso. Faceva avanti e indietro dall’ospedale psichiatrico. E in quei giorni, a volte mesi,

Caterina veniva spostata da uno zio all’altro che di bambini che facevano le femmine non ne volevano vedere.

Poi dall’ospedale non è più uscita e per Caterina si parlava di un istituto. Lei aveva sedici anni e nessuna intenzione di finire dalle suore.

Aveva sentito parlare di una grotta a Sant’Elia, ai piedi del colle, che pare un’enorme bocca assetata di mare. Lì, lontano dalle luci della città, sembra si riesca a vedere la Via Lattea ad occhio nudo.

Caterina voleva passarci solo una notte per ammirare lo sterminato ammasso di stelle. Attraversò l’intera città a piedi, fino a quando non raggiunse la grotta.

Dentro ci trovò del vino e del pane, una lanterna e quello che pareva essere un letto. Ci passò tre notti.

Quando arrivò dal mare, l’abitante della grotta, le disse che dopo pochi giorni la marea si sarebbe alzata, che la grotta non sarebbe stata più ospitale e che lui sarebbe partito per Carloforte con la sua barca. Così le consigliò di cercare Saturnia, la tessitrice di reti, che figli non ne aveva e che, ne era sicuro, si sarebbe occupata di lei.

E infatti ora la vecchia passa un panno asciutto sul legno del violino. Lucida la cassa con olio di noce e di lentisco.

Quando ha finito lo porge a Caterina che gira i piroli fino a quando le corde non sono ben tirate.

Saturnia pesta in un mortaio uno spicchio d’aglio con foglie di menta e di ruta. Ci aggiunge estratto di rosa e mescola il tutto con le dita.

Scopre il petto di Caterina e le spalma sopra la mistura.

“Non si muore d’amore Caterì. Smettila di piangere. Nella natura c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per stare meglio.”

“Sono un mostro. Faccio scappare le persone.”

“Ma che cazzo dici, filla mia?”

“È vero, non sono né carne né pesce e faccio paura. Forse quando sarà finita questa terapia sarà diverso”

“Sei perfetta come sei filla mia. Sei giusta così. E non è cambiando il fuori che si aggiustano le cose, se non si parte da dentro.”

“Forse ho sbagliato posto. Pensavo che qua mi avessero accettata perché per tutta la vita sono stata emarginata, proprio come tutti voi. Devo andarmene? Dove posso andare tzia?”

Saturnia e Caterina salgono il colle che ancora piove. La terra è ormai fango. Si appiccica alle scarpe e ad ogni passo è un ciaf ciaf.

Le due femmine indossano manti neri e un grande ombrello a punta le copre.

I gatti le seguono. Arturo, Mimosa, Vega, Sirio, Betelgeuse.

Cercano di stare sotto di loro per ripararsi dalla pioggia.

Entrano dentro i resti del fortino e la vecchia inizia a raccogliere dei sassi. Poi li dispone in cerchio attorno a loro.

“Guardati attorno Caterì. Segui le pietre.”

Caterina inizia da sud. Dai finestroni il mare di novembre.

Prosegue verso est, la Sella del Diavolo, il Poetto e la laguna di Molentargius. A nord i palazzoni, alti da coprire il castello dietro.

“Un giorno crolleranno, li hanno costruiti sopra una palude.” Dice Saturnia.

Caterina prosegue il cerchio. Basta spostare di poco lo sguardo e il panorama è un’altra cosa: il porticciolo, il Borgo Vecchio e di nuovo il mare. Si chiede come possa manifestarsi tutta quella magia in mezzo a cotanto degrado.

“Dipende da che parte guardi Caterì. Si dice che il peggio sia a Sant’Elia, ma il peggio è sparso dappertutto, come semi soffiati dal vento che germogliano tra le rocce di un nuraghe, tra le fughe delle mattonelle o dal cemento, sempre storti. Dipende dove decidi di spostare lo sguardo filla mia, e tutto cambia.”

Rimane sul mare Caterina. Il vento le offre una leggera brezza marina sul viso. Respira e gli odori del lentisco, del rosmarino, del mirto e del ginepro le riempiono i polmoni. I capelli bagnati le gocciolano sul collo.

I gatti salgono sulle mura, si inseguono, si lasciano bagnare dalla pioggia.

Poi, sopra il cerchio di pietre, le nubi si aprono e il sole si affaccia di nuovo. Poche ore e riscalda tutto.