I racconti del Premio letterario Energheia

Sale_Domenico Ferrara, Matera

_Racconto finalista quindicesima edizione Premio Energheia 2009.

 

Mi chiamo Jesù e per quello che ho fatto, mi tremano le mani e mi si inumidiscono le guance dalle lacrime che scendono e che non credo possano placare ancora la voglia di verità che è viva dentro me.

Per il nome che mi porto, avrei dovuto fare altro nella vita, avrei dovuto cercare la verità degli eventi con altre forme o forse avrei fatto meglio a non agire, restando invisibile a chi guardandomi non mi giudicava per quel che ero, ma per quel nome che mi segnava l’esistenza e comunque per il nome che mi porto, avrei dovuto impegnarmi di più e meglio.

Il mio nome è stato deciso dal mio babbo, che una notte, quando le stelle regnavano nel cielo, durante il suo turno di lavoro alla cava del sale, mentre tirava giù blocchi da una tonnellata, magicamente, vide tra le venature della grande parete, il volto di un uomo con barba e capelli lunghi. La mia mamma in quello stesso istante era a casa che preparava il sugo per il giorno seguente. Il mio babbo lo avrebbe diviso con i compagni del nuovo sindacato, quel sindacato che da un po’ iniziava a macinare speranze, in un paese che oltre a scavare sale cercava di sfuggire ad un futuro che più che salato pareva fosse amaro. Il mio babbo non era certo molto credente, ma sentiva il bisogno di mantenere una speranza, di credere a qualcosa, impresa alquanto difficile nella mia terra. E allora volle chiamarmi Jesù, perché nello stesso momento in cui la mia mamma preparava la semplice pietanza, il dottore del paese consegnava alla mia nonna la diagnosi in cui stabiliva che io non sarei nato e che molto probabilmente sarei morto nei primi mesi di gravidanza, se non alla nascita.

Insomma sarei morto. Il babbo, perciò, fu ancora più motivato a chiamarmi così, perché credeva che veramente fossi il frutto della speranza di chi crede. Chiaramente la diagnosi fu sbagliata appositamente, perché un giorno il mio babbo litigò in maniera furiosa con quel dottore che, stranamente, era anche uno dei maggiori proprietari delle azioni della cava del sale. Quella volta il mio babbo non fu licenziato soltanto perché la mia mamma, in mia dolce attesa, chiese perdono al dottore per il comportamento del mio babbo. Questo segreto che ancora lui non conosce e che io invece vivo come un sacrificio, svela la sicurezza della mia mamma nel sentirsi la vita in ventre. In fondo quella diagnosi era un po’ come la riprova che il dottore in quel paese poteva decidere tutto, e quindi poteva decidere anche dove finiva la verità e dove cominciava la speranza. Per questo mi sembra un po’ di vivere con il sacrificio di chiamarmi Jesù e con il debito di essere venuto al mondo, grazie ad un perdono concesso. Il mio babbo, per aver scelto questo mio nome, dovette litigare con tutti, prima con la mia nonna, che lo riteneva un oltraggio al Signore, poi con gli amici del sindacato che, per passione politica, non accettavano alcun riconoscimento alla chiesa, poi con il parroco che non ammetteva tali concessioni, poi in ultimo, ma in maniera quasi irrisoria con la mia mamma, che gli disse: «Lo sai che stai facendo Peppino?».

E il mio babbo, con la voce sicura di chi per la prima volta ha tutte le parole per convincere e convincersi, disse: «Non sono mai stato sicuro di niente, come vuoi che sia sicuro del nome da dare a nostro figlio? L’unica cosa che posso dirti è che sono sicuro che lo amerò, come un padre fa con un figlio».

La mia mamma così, non insistette a dissuadere il mio babbo dalla sua scelta e anche lei, piano piano iniziò a convivere con l’idea di chiamare suo figlio Jesù.

Il quadretto santo era fatto, il mio babbo si chiamava Giuseppe, io Jesù, per fortuna mia madre si chiamava Maddalena, ma questo, non è che migliorasse le cose, anzi per certi versi le complicava.

Tutto questo in un paesino di pochi abitanti che sopravviveva grazie alla cava di sale e che veniva comandato dal dottore, il quale nutriva un’unica speranza: che l’acqua dolce non si infiltrasse nella cava. Nel mio paesino tutto assorbiva il sapore del sale, la verdura che cresceva, per quel poco che cresceva, sapeva di sale e anche la frutta. Nel mio paesino anche l’aria era intrisa di sale. Ricordo che alcune mattine, quando l’aria era più umida, non ti accorgevi della quantità di sale che ti si attaccava addosso, poi quando iniziava a scaldare il sole, il sale ti rimaneva sulla pelle, formando dei veli lunghi e continui.

Tutto viveva in funzione del sale e il sale aveva dettato il ciclo della vita del mio paesino. Tutto era salato tranne, il lavoro che era amaro e duro da sopportare. Ma questo non aveva scoraggiato chi difendeva i lavoratori dalla decisione di chiamare il sindacato: Sindacato Autonomo Lavoratori Estrattori, che, neanche a farlo apposta, dava l’acronimo di S.A.L.E. Ricordo ancora che i primi giorni di costituzione, quando si promuoveva l’iscrizione al sindacato, per avere quanta più forza contrattuale, i manifesti nel paesino dicevano così: In questo Paese Serve il S.A.L.E. .E così tutti gli abitanti invece di iscriversi al sindacato, pensando che si fossero aperte le assunzioni alla cava del sale, avevano affollato l’ufficio del dottore, che per la prima volta, anche se in maniera non diretta, si vide arrivare molti uomini e molte donne che cercavano un lavoro. Per il dottore quella fu la prima volta che capì la forza dei lavoratori e il ruolo del sindacato, che anche non volendo aveva sciolto dinamiche strane in quel paesino soggiogato dal potere del sale. Il sindacato aveva la funzione di una bottiglia di acqua versata in una tazzina di sale: Il S.A.L.E. scioglieva tutto! Io crescevo spensierato come tutti i bambini, giocavo in maniera semplice, mi divertivo a lanciare le pietre e far saltare i barattoli posti sul muretto a secco dei campi, sempre desolati. Ero un bambino come gli altri, tranne che per quei momenti nei quali mi chiedevano il mio nome ed io dovevo rispondere a malincuore: «Mi chiamo Jesù», e dopo un primo istante di smarrimento di chi mi stava davanti, venivo assalito dalle stupide domande di tutti quei bambini che volevano avere spiegazioni del nome datomi. Io entravo in soggezione e dovevo raccontare la stessa storia del mio babbo che, per non perdere la speranza di credere, aveva deciso così. Tutti alla fine della storia mi dicevano: «Allora non poteva chiamarti Natale?». «Anche a Babbo Natale non crede più nessuno».

Io scuotevo la testa e continuavo a giocare, tranne la prima volta in cui mi fu fatta questa domanda e a malincuore scoprii che Babbo Natale non esisteva. Ricordo che quella volta, oltre a non accettare la verità, iniziai a correre veloce, superando le ultime case del paese e dirigendomi verso la cava del sale.

Volevo entrarci e andare di fronte la stessa grande parete, dove il mio babbo aveva visto il volto di un uomo con barba e capelli lunghi. Volevo anche io dimostrare a me stesso che si può credere, anche quando qualcuno ti suggerisce che è più facile accettare gli eventi presenti e considerare che il futuro, per quanto possa essere ignoto, rimane pur sempre ciclico e intuibile. Chiaramente, non mi fecero entrare nella cava e allora io continuai a correre, superandola e dirigendomi verso la montagna da dove potevo guardare tutto il paese. Per un po’ potevo anche respirare un’aria dolce, a differenza di quella che respiravo in paese, per via della polvere del sale che mi bruciava le narici. Mi fermai in un punto e iniziai a tirare le pietre, verso il cielo e aspettavo che poi queste lasciassero echeggiare, nel silenzio, il rumore di quando toccavano terra.

Ad un certo punto, quando tirai una pietra molto grossa, mi accorsi che questa non procurò nessun rumore. Incredulo cercai una pietra delle stesse misure e la lanciai mirando allo stesso pezzo di cielo. Ancora una volta non ci fu nessun rumore. Incuriosito e un po’ preoccupato iniziai a scendere dalla montagna, cercando di raggiungere il luogo dove, forse, avrei trovato le pietre lanciate. Man mano che scendevo speravo di non aver colpito nessuno, ma mi rassicuravo pensando che se avessi colpito qualcuno avrei almeno sentito gridare. Arrivai nel punto in cui pensavo di aver lanciato le pietre, iniziai a cercarle ma non le vedevo, poi all’improvviso, come un cielo nero che si apre al sole, vidi nella terra una fessura, larga un metro. Mi affacciai e vidi le mie pietre. La fessura era larga, ma non profonda, così decisi di scendere. Nel poggiare i piedi dove giacevano le pietre, sentii che il terreno non era solido, mi aggrappai subito alla parete della fessura e riuscii a reggermi, mentre la terra sotto i miei piedi stava franando, creando un fosso che sembrava non avesse fine. Risalii e mi accorsi che quel fosso portava alla cava del sale, perché all’improvviso dal buio e dalla profondità del fosso, veniva fuori la stessa aria che impregnava il paese.

“Per la priva volta, con aria quasi rassegnata”, dissi: “Maledetta Cava!”

Abbassai lo sguardo e tornai verso casa, visto che si era già fatto sera e sicuramente, i miei genitori mi stavano aspettando per cenare. Non tornai mai più in quel punto della montagna.

Ero riuscito almeno ad accettare che Babbo Natale non esisteva, che inevitabilmente il mio nome sarebbe rimasto Jesù e che per tutto il tempo della mia vita avrei dovuto raccontare la storia del mio babbo a tutti quelli che non la conoscevano.

Intanto che crescevo, il sale nel mio paesino non voleva finire mai. O meglio, il dottore faceva continuare l’estrazione.

Egli, infatti, aveva dato in sposa la sua figlia all’ingegnere che rilevava le quantità di sale necessaria alla cava, per far sì che essa stessa non franasse.

Mentre io crescevo il mio babbo si ammalava, perciò, senza nemmeno pensarci, decisi di prendere io il suo posto, altrimenti non avremmo neanche potuto pensare di curarlo. Per fortuna la malattia lo rese invalido nel lavoro e non lo uccise.

Ma chi per 20 anni aveva lavorato con il sale, trovava che vivere la giornata in casa o essere libero di uscire per godere del resto dei giorni, rendesse la vita alquanto insipida. Io d’altra parte odiavo quel lavoro e odiavo la cava che aveva segnato la mia vita, ancor prima di nascere. Così decisi di iscrivermi anche io al S.A.L.E., pensando che questo mi portasse ad altro impegno e che non mi facesse vedere quel lavoro come una disgrazia caduta dal cielo. Io Jesù, grazie al sindacato, stavo riportando la dignità in quel paese, soprattutto perché odiavo quella cava e speravo che per motivi straordinari venisse chiusa. Ma questo era impossibile perché, ancora una volta, il dottore con furbizia aveva unito in matrimonio il suo figlio maschio e l’ispettrice del lavoro, che chiaramente non trovava mai nessuna irregolarità da segnalare. Quella cava né per motivi straordinari, né per motivi ordinari avrebbe chiuso, il dottore sarebbe rimasto sovrano, non avrebbe mai diagnosticato una malattia da estrazione di sale, i rispettivi consorti dei figli non avrebbero mai osato contraddirlo. In questa situazione solo un miracolo avrebbe cambiato l’ordine delle cose. Così ripetevano i miei colleghi del sindacato: «Jesù qui ci vuole un miracolo per cambiare le cose». Io purtroppo mi sentivo limitato, forse perché pensavo che, almeno per il nome che portavo, avrei potuto fare qualcosa, invece ciò che ero in grado di fare non bastava nemmeno per riconoscere un’indennità di servizio. Una mattina, dirigendomi alla cava prima del solito sentii un rumore fortissimo che proveniva proprio dalla cava, di seguito, si alzò un polverone di sale fittissimo. Io iniziai a correre e una volta arrivato mi resi conto della situazione. La grande parete era caduta, e con lei era franata parte della cava. Felice pensai che ci stavamo avvicinando alla chiusura della cava. Ma subito dopo alcuni crucci si impossessarono di me. Uno su tutti, il pensiero che su quella parete c’era il motivo del mio nome, c’era la voglia del mio babbo nel credere in qualcosa. Su quella parete c’erano la mia storia e le mie radici. Quel pensiero mi portò a credere che con la parete caduta anche la mia esistenza stava crollando e forse anche io, di lì a poco, avrei finito per franare. Dovevo fare qualcosa, dovevo impedire che la mia esistenza franasse, come il sale nella cava. In quell’istante arrivarono anche i colleghi del sindacato, allertati dal forte rumore della parete franata. Ci guardammo in faccia e capimmo che di lì a poco avremmo dovuto sconvolgere la vita del paesino. Per fortuna la parete era franata nel momento di pausa, tra il turno della notte e quello della mattina, senza fare vittime.

Dopo un po’ iniziarono a venire i tanti lavoratori. Così, di colpo, salii sul cancello dell’entrata della cava e iniziai a gridare: «Fratelli, cittadini, lavoratori, qui è franato tutto, siamo vivi solo per miracolo!». La gente pensava che per il nome che portavo volessi innalzarmi a Dio. Per questo continuai.

«Fratelli, non lasciamo che la nostra vita frani come questa cava, abbiamo la possibilità di ricostruire il nostro futuro, siamo un paese che vive interamente su questa cava, il sale ci ha mangiato la vita, non lasciamo che distrugga quella dei nostri figli, dobbiamo chiudere questa cava». La gente non credeva alle proprie orecchie: un sindacalista di nome Jesù chiedeva alla gente di chiudere la cava, l’unica fonte di guadagno del paese. Io sapevo che non lavorare e sopravvivere di stenti, sarebbe stato molto meglio che ridursi tutta la vita a morire, per tirare sale dalla cava. Ma la gente non vedeva le cose per come le vedevo io, la gente non si chiamava Jesù, né tanto meno poteva sentire il mio sacrificio. Anzi la gente vide quella frana come una manna mandata dal cielo. Essa aveva lavorato al posto di chi avrebbe dovuto rompere il sale, invece, grazie alla frana, si trovava il lavoro già fatto.

Ma io non contento continuai: «Fratelli, io mi chiamo Jesù e gran parte di voi sanno il perché». «Qui in questa cava sulla grande parete c’è scritto il mio nome e la mia storia».

«Questa cava ha dato da mangiare al nostro paese, ma ci ha ridotto schiavi del lavoro. Non crediate che questa sia vita: abbiamo un salario, con il quale dover comprare, a fine mese, il sale per cucinare e il cibo da altri paesi che acquistano il nostro sale in negozio. Siamo sotto il potere di un dottore che respinge ogni nostra richiesta di confronto. Questa cava non crollerà mai, e se lo fa non è un problema, perché vi hanno insegnato a credere che è lavoro già fatto. Siamo schiavi perché chi non estrae sale non può fare altro, deve partire e alcune volte scappare. Questo non serve a vivere, al massimo costituisce la base per sopravvivere. Voi oggi avete di fronte la frana, che non significa sale lavorato, ma vuol dire la vostra vita consumata. Se ci tocca ancora scavare, allora facciamolo anche nella nostra esistenza, troviamo la verità, questa montagna sventrata avrà altra vita, oltre che il sale». Un velo di silenzio tuonò in quell’istante, la gente, i lavoratori erano paralizzati, sembravano cristallizzati come il sale al sole. Poi, all’improvviso, uno dei lavoratori più anziani venne verso di me e mi fece segno, come se mi volesse suggerire qualcosa all’orecchio. Io chinai il capo e lui mi disse: «Io ero con tuo padre quando vide sulla grande parete il volto del nome che ti porti, oggi la parete è crollata e tu diventi uomo, ma noi non siamo né parete, né frana, purtroppo il sale ci ha cristallizzato la coscienza e oggi abbiamo bisogno di sciogliere la nostra anima. Tu Jesù sei l’unico che può stendere il sacrificio su questa realtà, salvaci dall’esistenza di non poter assorbire altro dalla vita che non sia sale». Pensai, tra me e me, che forse mi era stata consegnata una croce troppo grande. La gente, intanto, aveva ascoltato le mie parole e, confusa, non sapeva cosa fare, poi, come il sale, si ricompose ed entrò in cava. Quell’immagine mi fece capire che il mio sacrificio futuro non avrebbe dovuto tener conto dell’opinione o della consapevolezza della gente. Avrei dovuto agire per creare la consapevolezza, non avrei dovuto sbagliare. Improvvisamente capii che non avrei più lavorato per quella cava, e più permesso al dottore di credere che io esistessi, grazie a quel perdono concesso. Come da bambino, alla visione della gente che rientrava in cava, iniziai a correre veloce, senza fermarmi e così in quell’istante ripensai a quella giornata in montagna quando scoprii che babbo natale era pura invenzione, mi ricordai di quella fessura, che avevo scoperto. La mia corsa mi portò esattamente lì, al cospetto di quell’altare che precipitava nella terra.

Capì che quella fessura sarebbe stata l’origine della mia azione, della rivoluzione che mi stavo apprestando a compiere.

Quella fessura rappresentava il cuore della cava e l’anima della mia gente, da lì sarebbe ripartito tutto. La verità si posò sul mio viso, come le mani di una madre sul proprio bambino, dovevo distruggere la cava. Sapevo che distruggere la cava implicava un’esplosione. Il sale al fuoco avrebbe bruciato, determinando un effetto domino. Quella fessura, quello spacco nella vita, quell’apertura alla pazzia, avrebbe fatto da miccia per l’esplosione. Ma sapevo che, per questo progetto, sarei dovuto tornare in cava, per predisporre tutto, così, a passo veloce, mi riportai lì davanti. Ad attendermi c’era il dottore che forse aspettava quel momento, chissà da quanto tempo. Mi congelò così: «Jesù, tu esisti perché in fondo sono stato io a permettere che tua madre ti partorisse, io sono chi ti ha dato alla luce e spero di non diventare chi ti oscurerà il futuro».

Finsi di chinare la testa quasi a chiedere una sua misericordia e lui, solo per il gusto di godere, per essere padrone degli eventi, mi diede un buffetto sulla guancia e mi disse: «Riprendi il tuo lavoro, che oggi lo Spirito Santo lo faccio io».

Io ero contento perché sapevo che quel buffetto glielo avrei reso con tutti gli interessi di un’esistenza condizionata. Entrai nella cava, per la prima volta con la gioia di entrarci. Dovevo guardarmi intorno e capire tutte le operazioni necessarie a portare avanti la mia missione. Avevo deciso che il giorno di Pasqua, che era ormai alle porte, sarebbe stato il giorno perfetto per compiere il mio dovere. Forse quel giorno, quando tutti sarebbero stati intenti a mangiare, io avrei potuto fare tutto, avrei potuto distruggere la cava e bruciare il sale, avrei potuto spezzare la mia croce e dimostrare che il futuro, per quanto ignoto, non è costretto a ripetersi nel tempo. In quei giorni fino ad arrivare alla Pasqua, provai tutto il piano da compiere ogni giorno, dentro casa. Come esplosivo avrei utilizzato le cisterne di gasolio, presenti nella cava che servivano per i macchinari del sale. Arrivò quel giorno e tutti tra uova di pasqua e dolci si leccavano le dita nelle proprie case, io, invece, ero già all’opera. Il giorno prima avevo predisposto tutto, la cava era pronta per diventare un forno e bruciare quel destino sciagurato che aveva consegnato a quella gente, incapace di sottrarsi ad esso. Così, davanti alla fessura, ero ormai pronto per accendere la miccia di quell’esplosivo collegato alle cisterne. Mi guardai intorno, poi alzai lo sguardo al cielo e nel liberare il mio animo, con un gran respiro diedi fuoco alla miccia. Ritornai di corsa verso il paese. Sapevo che da quando avrei acceso la miccia a quando sarebbe venuta l’esplosione sarebbero passati 10 minuti e la fiamma avrebbe dovuto coprire una distanza di 2 km. Proprio il tempo che mi serviva per ritornare a casa e far finta di gioire della resurrezione del Signore. Così, nel momento in cui arrivai a casa e mi sedetti a tavola, la mamma, il babbo e la nonna mi erano di fronte. Presi il bicchiere in mano e senza volerlo le lacrime iniziarono a scendere sul mio viso e io dissi: «Mi chiamo Jesù e per quello che ho fatto mi tremano le mani e mi si inumidiscono le guance dalle lacrime che scendono e che non credo possano placare ancora la voglia di verità che è viva dentro me.

Per il nome che mi porto, avrei dovuto fare altro nella vita, avrei dovuto cercare la verità degli eventi con altre forme o forse avrei fatto meglio a non agire, restando invisibile a chi, guardandomi, non mi giudicava per quel che ero, ma per quel nome che mi segnava l’esistenza e comunque per il nome che mi porto, avrei dovuto impegnarmi di più e meglio».

La mia famiglia pensando che stessi recitando una preghiera, concluse dicendo in coro «Amen». La gente, il giorno dopo, quando il fuoco ancora non finiva di bruciare il sale, esclamava: «Jesù mio, cosa faremo ora?», ma dopo un po’, quasi senza volerlo, iniziarono a scendere verso quei campi lasciati al sole, ad asciugare come il sale nelle saline, come l’anima nella carne. In fondo quell’esplosione aveva aperto un nuovo mondo, bruciando il sale della cava per ridarlo alla vita. Io da quel giorno cammino felice, contento di chiamarmi Jesù e di lanciare le pietre sui muretti a secco dei campi sempre verdi.