L'angolo dello scrittore

Quando il freddo era più freddo

– di Matteo Bordone_

 

Tempo fa sul Corriere della Sera è uscito un articolo triste. Un intellettuale italiano di una certa età, Guido Ceronetti, una di quelle personalità che passano per sagge, ha pubblicato un suo sfogo lirico indirizzato al telefono cellulare, strumento che dopo tanti anni anche lui ha deciso di utilizzare. Vent’anni dopo la popolazione di cui fa parte, un uomo di cultura decide di partecipare a una pratica quotidiana del paese cui appartiene, dei tempi che frequenta, del pianeta su cui si muove. Non gli piace. Non gli piace per niente. E anzi ci trova i segni di una decadenza vorticosa.

Il fatto in sé non è così grave. È pieno di persone che pensano di fare della sociologia spicciola sul quotidiano di milioni di concittadini, partendo dal presupposto che loro quel quotidiano non lo frequentano, che non ne sono inquinati, che hanno il distacco necessario per capirlo. Strano che poi nessuno trovi sensato il “distacco” quando si parla di critica dantesca: non esiste uno studioso che porti in palmo di mano la propria ignoranza, l’avere lettola Divina Commediasolo una volta di sfuggita come arma segreta per non essere troppo impastoiato nelle terzine, e coglierle quindi con la giusta misura.

Ma al di là di questo è il Corriere, quotidiano che primeggia nella pratica del racconto del paese intero da una sola via, da un solo caffè, da una sola elegante sartoria per uomo benestante del centro di Milano, pensa che Ceronetti non si renda ridicolo, non dica sciocchezze, che il suo acume sia una moneta in corso legale, battuta dalla Banca Centrale della Cultura Alta, spendibile in qualsiasi bazar, per tutti gli argomenti al mondo.

La nostalgia degli anziani è dolce. Ricordano con trasporto pezzi importanti della loro vita, momenti di felicità, di serenità, di passione, di quando gli amici erano ancora tutti vivi. E va benissimo sentire i racconti delle persone di una certa età: non fa niente se si ripetono, anzi è giusto così, fa parte delle cose della vita. Ma la nostalgia come misura del mondo fa schifo, è ciarpame, e se non contiene abbondanti dosi di ironia, risulta imbarazzante.

Non solo nella pagina del Corriere c’è un’immagine di Ceronetti con un basco e un fiore, cioè un dagherrotipo dell’intellettuale mummia, saggio, lontano dal flusso del tempo e delle cose: si pensa anche di stimolarlo a dire la sua sul telefonino, l’oggetto che nessun italiano mette più in discussione, così come nessun indiano, nessun cinese, nessun africano, un pianeta intero che si domanda solo se se lo può permettere, e se può lo utilizza serenamente, senza problemi, come strumento, come una vanga.

La tecnica è quel pezzo dell’intelletto umano che ha costruito la modernità, ha allentato il giogo della natura, messo al proprio posto dio, permesso a tutti noi di essere non tutto, ma un bel po’ di quello che siamo. È normale che i ricordi di un anziano siano legati, dal1900 inpoi, ai cambiamenti legati all’evoluzione tecnica, ai cavalli di mio nonno, alle ghiacciaie di mio padre, ai miei telefoni con la rotellona. Forse nei secoli passati la gente si ricordava della gioventù riferendosi a altre maddalene («Ti ricordi la prima volta che ci siamo baciati? Il papa era ancora ad Avignone!»). Ma se si pensa di continuare a rappresentare la cultura e la saggezza più pure come un allontanamento dall’andare delle cose, se facciamo dell’antimodernismo di Ceronetti e dei muretti a secco di Erri De Luca non una scelta individuale eccentrica, ma una via di salvezza, un santuario del senso, un caveau che contiene gli unici semi pregiati che ci rimangono, allora la cultura italiana è nostalgica, passatista, narcisistica e consolatoria. E se è così, non è cultura. Sono vedove al cimitero, insomma, non intellettuali.