L'angolo dello scrittore

Pasolini conteso (e respinto) da Destra e Sinistra

“Una lunga incomprensione” di Adalberto Baldoni e Gianni Borgna, prefato da Giacomo Marramao, è una pubblicazione importante perché, anche attraverso i ricordi personali dei due autori, militanti e dirigenti l’uno nel Msi e l’altro nel Pci, ricapitola i molti punti di contatto e di acuta frizione che lo scrittore friulano ebbe sia con i comunisti, per cui pure votava, sia con i fascisti post-bellici, che invitò sempre a non demonizzare.

di Domenico Donatone_

«Voto comunista perché, nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro.»

(P. P. Pasolini, Dichiarazione di voto al Pci, 8 giugno 1975, Roma.)

«No, Pasolini non è stato un intellettuale “organico” (almeno non nell’accezione comune del termine) né, tanto meno, un “intellettuale del dissenso”. Pasolini è stato un grande intellettuale organico-disorganico, un singolare “compagno-non compagno”, uno straordinario disobbediente-obbediente. Che ha scelto sempre (al di là delle incomprensioni e delle polemiche, e contro le sue stesse irrisolte “contraddizioni”) i comunisti come i suoi compagni, i suoi veri interlocutori.»

(G. Borgna, L’accusato Pasolini, in «L’Unità», 2 dicembre 1977)

Secondo il mio punto di vista Pasolini intellettualmente e nel comportamento era stato un populista, perché aveva sempre incentrato la sua ricerca culturale sul popolo, considerato come oggetto aggregato sociale omogeneo e depositario di valori positivi. Come modello di vita aveva spesso richiamato quello rurale, esaltando il lavoro, il sacrificio, l’unità e soprattutto la genuina schiettezza della povera gente delle campagne. […] Spesso Pasolini è stato accusato, da destra e da sinistra, di voler tornare indietro nel tempo, alla società agricola. Ma Pasolini, come intellettuale, non ha mai preteso di essere la Verità. Con i suoi interventi laceranti e provocatori ha mirato a stimolare la mente e a risvegliare le coscienze della gente. Lo ha fatto per quanto riguarda le stragi e il terrorismo, la tv, la scuola, l’aborto.

(A.        Baldoni, Pasolini? Più populista che marxista, in «Una lunga incomprensione», Vallecchi, 2010.)

Risarcire un intellettuale incompreso nel segno della politica

«È una storia da dimenticare | è una storia da non raccontare | è una storia un po’ complicata | è una storia sbagliata ||»[i][i]. Incomincia così il testo dell’unica canzone commissionata a Fabrizio De André sulla morte di Pier Paolo Pasolini. Dei versi semplici, lineari, al cui interno è racchiuso il clima che circonda tuttora la vicenda umana, politica, artistica e intellettuale dello scrittore di Casarsa. A questi versi sembra non arrendersi, includendo proprio la volontà esplicita di dire e di raccontare per dare giustizia ad un grande intellettuale, il testo scritto da Gianni Borgna e da Adalberto Baldoni dal titolo Una lunga incomprensione. Pasolini fra Destra e Sinistra, con prefazione di Giacomo Marramao, pubblicato da Vallecchi (Firenze, 2010, pp. 342, € 16,00).

Un libro che intende non riaprire ferite, scontri ideologici e nemmeno “glorificare” la figura di Pasolini, bensì risarcire lo scrittore, mettendo in evidenza la “lunga incomprensione” che c’è stata e continua ad esserci tra lui e la politica, innanzitutto, e tra lui e i media, produttori inconsolabili di articoli pro e contro il poeta delle Ceneri di Gramsci. Su questa “lunga incomprensione”, ovvia a chiunque conosca il poeta, le sue vicende e i suoi testi, il loro immediato inserirsi in argomenti politici, sociali, di costume e di alto umanesimo, s’innesca il desiderio di Borgna e di Baldoni non di solo elencare i punti salienti di un incontro-scontro con il pensiero di Pasolini, ma di leggere in vitro gli atti e i procedimenti, a volte davvero provinciali e ottusi, che hanno scatenato questo costante dissidio tra gli organi politici, dirigenziali e verticistici dei partiti, tanto di sinistra quanto di destra, con l’opera e l’attività giornalistica dello scrittore friulano. È esattamente questa la peculiarità del libro, quella di trovarsi davanti ai ricordi personali degli autori, fatti di incontri realmente accaduti con Pasolini, di indicare parallelismi umani quando le vicende del vivere erano per tutti difficili da affrontare (miseria, povertà del dopoguerra, maturazione politica, ecc), fino alla documentazione, con atti alla mano, di discorsi e di articoli, con i quali questa incomprensione emerge all’apparenza involontaria e naturale con la responsabilità, però, di non aver saputo reagire nobilmente alle sollecitazioni e alle provocazioni del pensiero di Pasolini. A garanzia di questa “incomprensione” c’è, per il lettore, la storia dei due autori del libro, Gianni Borgna e Adalberto Baldoni, i quali, nel risarcire Pasolini per quel che ha dato sia alla destra che alla sinistra con il suo illuminante pensiero, ammettono, senza preterizione, gli errori della sinistra e della destra, indicando anche come entrambe temessero di perdere consenso elettorale se solo il pensiero, in fondo, di uno scrittore, avesse avuto il sopravvento.

Una lunga incomprensione che oltre che essere un bel titolo per un libro è, anzitutto, dichiarazione di emotività, di debolezza, di inferiorità e finanche di colpa: dichiarazione di un sentimento per troppo tempo condiviso su fronti opposti che ammette la responsabilità, senza invadere oggi il campo politico altrui, visto che invasioni nel passato ce ne sono state ed hanno prodotto abbastanza morti e feriti, per riesaminare quelle luci che a suo tempo furono ombre, ombre indissolubili.

A Gianni Borgna spetta il compito di rammentare e di articolare il complicato rapporto tra Pasolini e il Partito Comunista italiano: una persona attenta che è giornalista, docente universitario e autore di celebri saggi. Mentre ad Adalberto Baldoni, anch’egli giornalista, saggista, attivista nel movimento della Giovane Italia e capogruppo di An al comune di Roma negli anni Noventa, spetta il compito, forse ancora più impegnativo, di emendare dal rapporto tra Pasolini e il Msi il raggiungimento di un processo di opinione assai avvalorato che addossa alla destra fascista la responsabilità di aver aperto giudizi e pregiudizi gravi sul poeta e, al contempo, di aver “incriminato” la necessità umana di essere omosessuale, emarginando dal confronto acceso di quegli anni il riconoscimento non a latere, bensì al centro del rapporto tra società civile e mondo politico a trecentosessanta gradi, i diritti di chi era cosiddetto “diverso”. Il tema che si pone è, dunque, politico e, in quanto tale, naturalmente problematico perché Borgna confessa che, partendo dalla sua esperienza giovanile di attivista responsabile della Fgc romana e poi di assessore alla cultura nel comune di Roma tra il 1993 e il 2006, intricato era il panorama di riflessione all’interno del movimento studentesco e dei partiti che in qualche modo, affascinati indubbiamente dalla personalità di Pasolini, non potevano non accorgersi che la sua grandezza espressiva era figlia già di una ben altra consapevolezza.

In anticipo sui tempi, Pasolini si scontra involontariamente con il Pci e la Fgc, la quale fa di tutto per far sì che il poeta, nonostante il rapporto non idilliaco con il partito, possa essere riconosciuto un elemento valido dal movimento studentesco quanto altrettanto fondamentale per iniziative politico-parlamentari. Fuori dal Palazzo, come lo scrittore stesso ha identificato il significato del potere politico nei suoi aspetti meno nobili, egli vi entra agendo dall’esterno, lanciando strali e azioni esplicitamente polemiche che nulla avevano della posa intellettuale, ma esattamente erano frutto dell’esigenza di comunicare con un mondo sempre più alienato. A tal proposito Borgna esprime tutta la necessità genuina di non perdere di vista il significato delle riflessioni di Pasolini contenute nei suoi articoli giornalistici, ammettendo che per quanto complicato fosse il rapporto con il Pci, la sua analisi sul fenomeno del Sessantotto, fino al tema delle stragi, terroristiche quanto politiche, non poteva essere escluso per questioni di esigenze partitiche, perché così facendo si sarebbe palesata la debolezza di un organismo elettorale non sufficientemente pronto a comprendere quello che nel cuore della società italiana, proletaria e non, stava avvenendo. Pasolini era più vicino alla gente di quanto il Pci non pensasse. Così quel rapporto conflittuale e non di certo voluto dallo scrittore con i “compagni”, viene naturalmente ad abbracciare le esigenze di lotta dei giovani, per quanto Pasolini stesso non le condividesse a pieno. Spiegando in una intervista del 1971 le ragioni dei giovani a Jean-Michel Gardair di «Le Monde», viene a svelarsi il genuino comportamento amichevole e “fraterno” dello scrittore nei confronti di chi solo per determinate prerogative partitiche lo vedeva un nemico interno a quella esigenza di cambiamento. Così Borgna riprende quell’intervista:

«Ho criticato a suo tempo, con violenza e forse con inopportunità, l’azione politica dei giovani: molte di quelle mie critiche si sono sfortunatamente rivelate giuste, e non ne abiuro. Tuttavia mi sembra che la tensione rivoluzionaria reale – la stessa che nei lontani ’44 o ’45 – così più pura e necessaria, allora – sia vissuta oggi dalle minoranze di estrema sinistra. La critica globale e quasi intollerante che queste esprimono contro lo stato italiano e la società capitalistica mi trovano completamente d’accordo nella sostanza, anche se non spesso nella forma. Perciò, fin che ne sono capace, e ne ho la forza, è ad esse che mi unisco.»

Questa dichiarazione, come altre, apre la mente di molti attivisti della Fgc, meno quella dei vertici del Pci. Borgna stesso non stenta a riconoscere che vi era qualcosa di deviato, di ostinatamente forviante nel Partito comunista, così come nelle redazioni dei giornali di area politica ex-partigiana ma opportunamente comunista, da incanalare ogni dichiarazione di Pasolini nella diatriba. «Fu solo nel 1974», scrive Borgna, «quando Pasolini aveva cominciato da qualche tempo a scrivere i suoi articoli di prima pagina per il “Corriere della Sera” e io ero diventato da poco il segretario della Federazione giovanile comunista di Roma, che stabilii con lui un dialogo diretto. Inutile dire che anche quegli articoli, poi pubblicati nei due celebri volumi degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, incontrarono l’ostilità della maggior parte dei dirigenti comunisti. A me, invece, il pessimismo pasoliniano intrigava molto, perché vedevo serpeggiare tra i giovani una delusione profonda per come il Pci stesse affrontando quella fase politica, all’interno di un più generale smarrimento di ideali e di prospettive. […] Cercammo perciò Pasolini e gli chiedemmo di partecipare a un dibattito durante la nostra festa a Villa Borghese. Era di quei giorni la polemica sul significato della vittoria del referendum sul divorzio. […] Molti dei nostri compagni furono perplessi. Perché mai – si chiedevano – offrire una tribuna a un intellettuale in aperto contrasto con il partito? Rispondere non era facile. Perché la risposta vera era che ad avere ragione, almeno per me, era Pasolini, non il partito. E che le sue critiche erano benvenute, perché contribuivano a ridimensionare le granitiche certezze del Pci. Soprattutto quella di credere che la fase politica evolveva naturalmente e trionfalmente a sinistra.»

Il significato di questa apertura nei confronti di Pasolini da parte della Fgc romana riscuote poco successo. Il tutto viene visto come una iniziativa condotta da giovani non ancora allenati alla politica, pieni di ideali ma non ancora capaci di distinguere i veri vantaggi delle direttive partitiche. Borgna è chiaro: gli errori del partito rimangono gli errori del partito. Niente da addossare a Pasolini, se non la sua intelligenza come atto di superiorità mal letto e mal capito da moltissimi in generale. Nel proseguo di questo confronto con lo scrittore, il coronamento avviene nel 1975, quando Pasolini accetta l’invito della Fgc di dichiarare il suo voto al Pci in un incontro-dibattito pre-elettorale al cinema Jolly di Roma. «L’intellettuale più prestigioso e più polemico del momento accettava di partecipare a un nostro incontro elettorale», scrive l’autore. E aggiunge: «mi si stringe il cuore ancora oggi a vedere il manifesto “povero”, a un solo colore, di quelli che si usano per la propaganda di quartiere, che potemmo fare coi nostri pochi mezzi, perché anche in quel caso la reazione dal partito fu, sorprendentemente, ben poco positiva. Ricordo che un dirigente del partito, all’ingresso della federazione romana di via dei Frentani, mi chiese se il Pasolini del manifesto fosse lo stesso che scriveva sul “Corriere della Sera”, con l’aria di chi vuole metterti in guardia dal compiere qualche strafalcione o qualche ingenuità. Solo lo spirito di disciplina, allora fortissimo, mi fermò dal mandarlo su due piedi a quel paese. […] Più che tanti discorsi, più che tante parole, bastava vedere l’affetto di quelle persone per Pasolini e il modo in cui lui lo ricambiava per rendersi conto di quanto autentico fosse il suo amore per il popolo, di quanto effettiva e scevra di intellettualismi fosse la sua capacità di stabilirvi un contatto immediato. Bastava quell’immagine, insomma, per capire quanto fosse più Pasolini in sintonia con la gente semplice di Roma di tanti iscritti al Pci. […] Quando iniziò a leggere con la sua voce dolcissima un testo che sembrava più una poesia che un intervento politico, nella sala calò il silenzio. Tutti erano tesi all’ascolto di quelle parole. “Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947 […]”. E subito dopo: “Un’altra volta vi dirò – dirò a voi giovani, soprattutto quelli di diciotto anni – che cosa, nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare e sapere. Oggi sono qui per dirvi che cosa voglio ricordare e sapere”. […] Uscimmo da lì contenti», prosegue Borgna, «di aver contribuito ad avvicinare Pasolini al partito. […] Era la nostra migliore rivincita». Questo passo del libro, anche commovente per chi rivive col cuore l’avvenimento espresso dal nostro autore, chiarifica quanto l’incomprensione tra Pasolini e il Pci fosse dettata da una supervisione politica e partitica che in pochi casi suggeriva ai giovani di avvicinarsi al pensiero e alle idee dello scrittore. Peccato che in quella occasione Pasolini non disse ai presenti cosa non intendeva ricordare nel momento del voto. Qualcosa che sicuramente avrebbe incluso compromessi amorali, in costante prosecuzione con gli atti politici del mondo. I giovani presenti quel giorno, 8 giugno 1975, hanno dovuto apprendere da soli quello che Pasolini precauzionalmente si era riservato di dire in quell’incontro, perché di lì a poco sarebbe stato assassinato all’Idroscalo di Ostia. Il contributo di Gianni Borgna, per quanto riguarda il rapporto tra Pasolini e la sinistra, è fondamentale non solo per l’efficacia dei ricordi, ma perché questi stessi fanno emergere in vivo gli elementi di una incomprensione dettata da «motivi di ordine politico e culturale», una cecità evidente fin dai tempi dell’espulsione dal partito del poeta in età giovane perché omosessuale. Borgna sintetizza il rapporto conflittuale con il Pci in questo modo:

«In primo luogo, dal fatto che il marxismo e il comunismo di Pasolini – permeati sin dagli anni giovanili, sin da quando egli era segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, da quella sua inconfondibile ispirazione populista e evangelico-ereticale – erano assolutamente eccentrici rispetto alla ortodossia marxista e alla tradizione teorico-politica dei comunisti italiani. È accaduto così che Pasolini – il quale utilizzava solo di rado i medesimi strumenti teorici e conoscitivi dei comunisti – sostenne frequentemente posizioni fin troppo dissimili da quelle del Pci senza tuttavia essere pienamente (e immediatamente) compreso dai comunisti stessi. Altre volte, invece, le divergenze erano reali e di fondo, ma, anche in questi casi, le posizioni di Pasolini costituivano sempre uno stimolo importante e positivo per il Partito, così come il Pci rimaneva per Pasolini un punto di riferimento saldo e costante».

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Più spinosa è, invece, la lettura del medesimo fenomeno di “incomprensione” tra Pasolini e la destra da parte di Adalberto Baldoni, perché egli individua una parte di essa, migliore e democratica, estimatrice dell’opera e del pensiero dello scrittore, e un’altra destra, benché fosse nella sostanza sempre la stessa, decisamente avversa a Pasolini. Da destra, che da tempo si presume provenire l’avversione peggiore nei confronti dello scrittore, addirittura la responsabilità materiale della sua morte ad opera di fascisti pericolosi, incattiviti a dovere nei confronti del poeta, ci giunge integro un pensiero di rispetto e di deferenza che Baldoni rappresenta con umanità e dignità. Certo il rapporto tra lo scrittore e il Msi fu indubbiamente più complesso, pericoloso in molti casi dal punto di vista della incolumità dello scrittore (tantissime furono le aggressioni che Pasolini ha subito da giovani di estrema destra), perché distaccato, nella sostanza reale, dall’appartenenza al partito per questioni ideologiche, e perché gran parte del Msi, fin dal 1960, intendeva introdurre pene più severe contro i «pervertiti», ovvero gli omosessuali. Baldoni in tal senso è subito chiaro. Scrive: «Ma com’era l’atteggiamento dei vertici del Msi verso le intemperanze dei loro ragazzi? Di piena approvazione. […] Pasolini, il “cantore dei ragazzi di vita, l’apologeta dei magnaccia e delle peripatetiche, il rimestatore letterario delle cloache, il marxista impegnato”. Per il “Secolo” quella dello scrittore-regista era nauseabonda mercanzia gabellata come arte, pornografia sistematica e strumentale, tendente ad abbassare il paese ad un livello comodo per l’arrembaggio social-comunista». Ma c’è stata anche nella destra una sua componente meno intollerante e decisamente disposta a comprendere le ragioni del poeta, al punto che così come Baldoni individua un atteggiamento decisamente riprovevole, al contempo ne individua un altro, rappresentandolo, molto più interessato alle riflessioni e ai film dello scrittore. «Noi a differenza di altri ambienti di destra», afferma Massimo Anderson, leader della Giovane Italia dal 1954 al 1966, e dal 1967 al 1970, «non abbiamo mai attaccato Pasolini per le sue tendenze sessuali. È sufficiente sfogliare la collezione della rivista “Azione” per sincerarsi delle mie affermazioni. Pasolini lo apprezzai, in alcune opere, per la forza poetica. Ma lo contestammo in molte proiezioni dei suoi film che consideravamo cruenti». Il rapporto, dunque, con la destra non fu dei migliori, e il poeta subì in molti casi aggressioni ripetute e manifestazioni e slogan a lui avversi, come alle uscite delle prime dei suoi film. Il clima di confronto con il Msi era sicuramente incandescente. Solo dopo la morte dello scrittore, nel 1988, in maniera decisiva e clamorosa, non più banalmente ammiccante, la destra e, in particolare, la sezione del Msi-Dn di via Acca Larenzia a Roma, ebbe l’accortezza e l’intelligenza di accostarsi al pensiero di Pasolini, ponendo al centro del dibattito il suo ultimo film Salò-Sade. Una pellicola-metafora del potere fascista, non storicamente inteso solo come tale ma altrettanto contemporaneo, da cui trarre i motivi dell’avanzata di un “nuovo fascismo” che si presenta vincente nelle forme del consumismo e nella radicalizzazione della Dc.

I punti di contatto tra Pasolini e la destra sono individuabili sicuramente nella critica all’egemonia culturale della sinistra e dell’Italia «edonistica, americaneggiante e consumistica, dove borghesi, capitalisti, operai, sottoproletari, rurali, si sono fusi in un magma che ricerca spasmodicamente il benessere e lo sviluppo». Punti di contatto con una destra sicuramente conservatrice più che liberale, i cui ideali di giustizia sociale, di rispetto della legge e delle regole da parte dei governanti, che si scopriranno essere trasversalmente dei “signori dell’impunità”, riduce la distanza ideologico-culturale con lo scrittore friulano; oppure nella difesa di alcuni valori cattolici, come l’urgenza di limitare o arginare l’istituto del diritto per l’aborto, da Pasolini osteggiato in quanto trionfo dei principi edonistici rispetto al valore della vita. Inoltre Baldoni fornisce al lettore una interpretazione personalistica e quasi parallela delle vicende del poeta con quelle della sua famiglia: il trasferimento da Venezia a Roma (da Casarsa a Roma, per Pasolini); l’impatto con una Roma urbanisticamente disordinata, caotica, fatta di palazzoni di cemento e di ampi prati dove la vita sottoproletaria brulica confusa; ma soprattutto contatti simili con vicende familiari assai rilevanti, da determinare la storia del proprio pensiero e della propria maturazione politica. L’apertura di Baldoni in tal senso è ammirevole, perché non s’impiglia in storture logiche e ideologiche, bensì ricava dalle stesse condizioni di difficoltà esistenziale una continuità di sentimenti e di affezioni che furono altrettanto evidenti in Pasolini. Il fratello ucciso dalle formazioni partigiane comuniste della Garibaldi-Natisone, che ubbidivano agli sloveni di Tito, le cui mire erano quelle di annettersi la Venezia-Giulia. Guido, fratello dello scrittore, apparteneva invece alla brigata partigiana Osoppo-Friuli, composta da cattolici, monarchici e azionisti, pronti a battersi per l’annessione all’Italia. Trovatosi ad abitare nello stesso quartiere di Roma, Monteverde Nuovo, Baldoni ha la possibilità di incontrare Pasolini e di parlare con lui anche di fatti personali che vedono le loro rispettive famiglie coinvolte con una somiglianza che non imbarazza, ma acuisce il senso della tragedia umana. L’autore ne ha un ricordo nitido: «Pier Paolo ascoltava paziente, glissava sui truci episodi della guerra civile che avevano coinvolto le nostre rispettive famiglie, anche se con esiti differenti. […] Ma come, avevo detto a Pasolini, i comunisti ti ammazzano un fratello che adori, e invece di voltare le spalle ai suoi assassini, ne condividi il percorso. Ma era un’osservazione pretestuosa, perché anch’io avrei dovuto odiare i fascisti, che avevano ammazzato i miei cugini e di cui faceva parte mio padre che ci aveva trascinato in un burrone.» Questa parte del libro è volontariamente intimista, senza risultare falsa o ipocrita, ma semplicemente sincera, ottima a far capire quanto il poeta fosse nella sua sostanza travagliato da drammi che si perdevano nel tempo della sua adolescenza. Ricordando il fratello assassinato, si univa a quel dolore una missione critico-marxista che non poteva mai unicamente trovare una corrispondenza politica o meramente partitica.

Baldoni ci fa capire che Pasolini non avrebbe potuto mai essere solo “un nunzio marxista-gramsciano”, ma un elemento della contemporaneità già percorso al suo interno da visioni, traumi e vedute che avrebbero inevitabilmente acuito conflitti e incrementato capacità di risposte, non necessariamente politiche, come la vulgata avrebbe voluto intenderle. Risposte educate, rispettose, diligenti? In lui vi era una capacità sovversiva, che nessuno definirebbe di destra, perché Pasolini  era destinato a prevalere solo su se stesso, a determinare una forza che avrebbe causato una incoerenza purché l’ammissione delle proprie debolezze fosse risultata umana, vitale, sincera. È nella ricerca di se stesso che Baldoni individua una mancata comprensione da parte della destra nei confronti dello scrittore: lui impegnato a capire, a capovolgere i ruoli, a determinare sempre nuovi impulsi, altro non stava facendo che quello che la destra postfascista era impegnata altrettanto a raggiungere come ricerca di sé, come forza politica nuova, più responsabile, meno deludente elettoralmente, capace di interpretare tutte le esigenze degli italiani, pronta a risarcire un popolo la cui deriva ideologica era stata segnata dalla dittatura. Su questo aspetto, quello della violenza della guerra, e poi del riassestamento fazioso di esso dentro la destra di Michelini e di Almirante, motivo che induce lo stesso Baldoni a riconoscere che è con Gianfranco Fini che nel Msi-Dn che si inizia a respirare davvero “aria nuova”, una democraticità concreta, pronta ad aprirsi a vari obbiettivi politico-sociali, a torto considerati prerogative della sinistra, che tra il poeta e il Msi è possibile riconoscere l’esigenza di un’alternativa. Scrive Baldoni che «argomenti scottanti come l’aborto, la droga, lo stragismo, la criminalità e la violenza furono trattati da Pasolini con lucidità, onestà intellettuale e realismo. Erano temi che costituivano i cavalli di battaglia del Msi e dei giornali fiancheggiatori della destra. Ma all’interno del partito di Almirante si continuava a ignorare il “provocatore”, nonostante la bontà delle sue denunce». È sul tema della violenza che in quegli anni si perpetua la diatriba intestina tra destra e sinistra, e lo scrittore, nonostante l’affanno, la delusione e il rammarico per una sconfitta ideale, riesce a determinare un’apertura che da molti intellettuali e giornalisti di destra sarà apprezzata perché analisi veritiera dell’azione umana. Sui fatti del Circeo (di Ghira, Izzo e Guido), del 30 settembre 1975, si scatena un dibattito tra la sinistra e la destra. La prima è pronta ad accusare la destra di una violenza congenita nei suoi militanti; la seconda invece si accorge che la violenza è propria dell’uomo, così come Pasolini dirà in un suo intervento giornalistico, costatando un mutamento antropologico-culturale dei giovani romani sottoproletari. Scrive Pasolini in merito:

«Il modello piccolo borghese è stato loro definitivamente imposto, una volta per sempre. E i loro modelli concreti sono proprio quelli borghesi idioti e feroci che essi, ai bei tempi, hanno tanto spiritosamente disprezzato come ridicole e ripugnanti nullità. Non per niente i seviziatori sottoproletari della ragazza di Cinecittà, usando di lei come una “cosa” le dicevano: “Bada che ti faccio quello che hanno fatto a Rosaria Lopez”. La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale, che oppongo ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose, mi insegna che non c’è più alcuna differenza vera nell’atteggiamento verso il reale e nel conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari della borgata.»

Su questa drammatica presa di coscienza della trasformazione che stava inesorabilmente avvenendo nella società italiana, di cui proprio i giovani mostrano i segni più evidenti, si intrecciano le vicende umane del poeta con il progredire di una violenza che sarà “lotta armata”. Violenza atroce, indicibile, che infiamma le piazze d’Italia. Questo contesto determina un uso politico di Pasolini: alla sinistra quando le fa comodo contro la destra, e alla destra quando lo scrittore esprimendo le sue posizioni interrompe un sistema di silenzio e di abnegazione che può servire a spostare opinioni, consenso, voti. La violenza che Pasolini condanna è per la destra uno strumento per riequilibrare la bilancia del giudizio che pende a suo sfavore, una retorica antifascista che la sinistra ha saputo adoperare contro l’avversario. Nonostante il giudizio di Pasolini sui fatti del Circeo e sui casi di violenza fosse tutt’altro che di censura, per Baldoni le responsabilità dello scrittore permangono, sia come libero intellettuale, sia come uomo di cultura, perché per anni aveva ritenuto che l’ideologia marxista, i comunisti (non il Pci, perché anch’esso imborghesito), potessero davvero modificare in bene una società chiaramente malata. Da qui scaturisce la delusione e l’amarezza del poeta, perché costretto a constatare che i suoi sogni si erano dissolti davanti alla realtà. Tant’è che per Baldoni si arriverà ad una sorta di equazione, per la quale «per il giovane intellettuale di destra Pasolini era di sinistra più per un fatto sentimentale che ideologico, più poetico che critico».

Il cromatismo pasoliniano, la sua contraddizione umana, il sentimento sincero per il popolo, l’avversione verso l’omologazione di massa, l’avvento del consumismo come nuova fede che sostituisce l’ideologia, assumerà i contorni per un dibattito sulla figura del poeta che indurrà col tempo ad una “tregua” imposta con l’evolversi di un appiattimento culturale, per cui meno si ricorda e più non si solleva una polvere che potrebbe ancora offuscare opinioni e osservazioni imparziali, oggettive (E. Siciliano). Tra Pasolini e la destra non c’è mai stata pacificazione, ma semmai un tentativo di dialogo postumo, avvenuto con disciplina e rispetto dagli anni ’80 in poi, così da determinare il senso di una “pacificazione” senza però volontà di pace. Baldoni lo osserva con puntualità quando ricorda che all’uscita del film di Marco Tullio Giordana nel 1995, Pasolini, un delitto italiano, fu invitato dal regista ad un dibattito dopo la proiezione: e lì si scatenarono ancora apostrofi e invettive da parte dei presenti così prontamente disposti a riconoscere che l’assassinio del poeta fosse avvenuto per mano fascista:

«L’8 ottobre 1995 venni invitato dal regista Giordana alla proiezione del film in una sala cinematografica di Frascati. […] La sala era piena. Credo che fossi l’unico dirigente della destra ufficiale. Presi la parola dopo alcuni interventi deliranti di alcuni attivisti di sinistra, secondo cui Pasolini era stato ammazzato dai fascisti, colpevoli dei peggiori misfatti che avevano insanguinato il paese. […] Sapevano i partecipanti che Pasolini prima di morire aveva affermato più volte che le stragi e il terrorismo erano da attribuire al Potere? E che il Potere andava individuato nella Dc? Fogli alla mano cominciai a snocciolare i passaggi di alcuni suoi interventi che suffragavano le mie tesi. Pasolini ce l’aveva con i democristiani e non con i fascisti. Considerava la Dc come il nuovo fascismo. Pasolini ce l’aveva con il Pci che marciava verso il compromesso storico, quindi verso l’accordo con i democristiani che detestava. […] Ma all’ennesimo insulto, alzando la voce affermai che se delitto politico era stato, bisognava indagare anche a sinistra, dato che Pasolini aveva dato tremendamente fastidio non solo ai democristiani ma pure ai comunisti.»

Un resoconto indubbiamente veritiero, saggio, obbiettivo. Qualcosa che in sé però non si arrende alla volontà di indicare, di porre a giudizio, di mettere all’indice un clima favorito dall’ignoranza, ma soprattutto dalla scarsa conoscenza di cosa sia sul serio il potere, quanto il suo esercizio quotidiano corrisponda più al delitto che alla volontà di far emergere il sommerso. Dentro questa tensione permangono gli errori verso uno scrittore, un regista, un poeta, un intellettuale che vuole dire quello che pensa affinché l’esercizio democratico sia confermato oltre che garantito. La destra rimane la destra, e Pasolini rimane Pasolini, al punto da definirsi come atteggiamento sistematico la sostanziale facilità, a destra quanto a sinistra, a riconoscere l’importanza dello scrittore nel panorama culturale del secondo Novecento, grazie all’incomprensione scaturita tra le parti. A pesare come un macigno rimane, a distanza di anni dalla scomparsa del poeta, il romanzo incompiuto, Petrolio. Un romanzo che indica un sottobosco di affinità e di volgarità nel sistema politico italiano, tale da innervosire chiunque non accetti che il potere, con la P maiuscola, come usava scrivere Pasolini, è esattamente il contrario di quello che i cittadini da esso si aspettano. Un libro che lega destra e sinistra al destino del capitalismo in Italia, perché l’Eni, di cui parla il romanzo non in termini puramente aziendali, ma speculativi ed economici (Eugenio Cefis, Enrico Mattei, le stragi di Stato), è la natura stessa della politica, del potere e del compromesso. Tutto analizzato attraverso un lavoro giornalistico con un sapore letterario indissolubile, capace di mettere sotto accusa la destra per la sua politica di sviluppo capitalistica utile al malaffare, e la sinistra che impotente, capace solo di imitare una politica economia non propria, perde il confronto con le generazioni future e con la stessa storia economica dell’Italia del benessere. Tradito da tutti, incompreso, Pasolini si sceglie i suoi interlocutori privilegiati, ovvero la gente povera, il popolo sognato e toccato con mano nei corpi e nella forza dei giovani. Così è Pasolini stesso, come fa notare Baldoni, che da vittima risarcisce i suoi carnefici, prima che quell’appuntamento del 2 novembre 1975 alla stazione Termini di Roma, lo conduca all’Idroscalo di Ostia per scoprire il senso reale, veritiero del pregiudizio, del crimine, dell’ignominia, ma soprattutto di questa “lunga incomprensione”.

Dirà Pasolini dei fascisti: «Ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti […]. Nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male». Proprio sulla figura del giovane fascista, che in sostanza sarà colui che verrà in senso non prepotente ma culturale, Pasolini a lui dedica una delle sue ultime poesie, a dimostrazione del fatto che il cambiamento che lui sperava avvenisse con idee marxiste, di sinistra, avvenga altrettanto da destra, anticipando l’errore commesso da anni dalla sinistra nell’adoperare la retorica antifascista a spregio dell’intelligenza e della comprensione.

«Difendi i paletti di gelso, di ontano, | in nome degli dei, greci o cinesi. | Muori d’amore per le vigne. | Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi. | Per il capo tosato dei tuoi compagni. | Difendi i campi tra il paese | e la campagna, con le loro pannocchie | abbandonate. Difendi il prato | tra l’ultima casa del paese e la roggia. | I casali assomigliano a Chiese: | godi di questa idea, tienla nel cuore. | La confidenza col sole e con la pioggia, | lo sai, è sapienza santa. | Difendi, conserva, prega! […] | ma ama i poveri: ama la loro diversità. | Ama la loro voglia di vivere soli | nel mondo, tra prati e palazzi | dove non arrivi la parola | del nostro mondo […] | Porta con mani di santo o soldato | l’intimità del Re, Destra divina | che è dentro di noi, nel sonno. | Credi nel borghese cieco di onestà, | anche se è un’illusione: perché | i padroni hanno | i loro padroni, e sono figli di padri | che stanno da qualche parte del mondo […] | Hic desinit cantus. Prenditi | tu, sulle spalle, questo fardello. | Io non posso: nessuno ne capirebbe | lo scandalo. Un vecchio ha rispetto | del giudizio del mondo; anche | se non gliene importa niente. E ha rispetto | di ciò che egli è nel mondo. Deve | difendere i suoi nervi, indeboliti | e stare al gioco a cui non è mai stato. | Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: | portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò | leggero, andando avanti, scegliendo per sempre | la vita, la gioventù. ||»

Una lunga incomprensione è un libro che s’impone subito nel panorama editoriale dei testi prodotti indubbiamente a favore dell’intelligenza e dell’analisi politico-sociale condotta da Pasolini dagli anni Cinquanta del Novecento in poi, fino al 1975, anno della sua morte. Un testo che ha come scopo quello di indagare, con dovizia di particolari e con analisi e giudizi personali, il rapporto a lungo conteso tra l’attività artistica e, soprattutto, giornalistica di Pasolini che più delle sue opere lo ha esposto, con la politica dell’epoca: il rapporto assai conflittuale con il Pci, la sua linea interna che escluse lo scrittore perché omosessuale, il suo essere cristiano in senso marxista e socialista in conflitto con l’oratoria purista del marxismo nel partito, i termini socio-culturali della lotta non più a favore del popolo ma del compromesso storico, di cui lo scrittore fu un convinto oppositore, avversario della stessa parte politica; e il rapporto molto più acuto, introflesso, con la destra storica nella sua subitanea esigenza postfascista di Michelini e Almirante, da cui Pasolini trasse continue riflessioni per individuare l’ascesa di un “nuovo fascismo”, a torto letto dai movimenti studenteschi della Giovane Italia e dal Fuan, come un assiduo inimicarsi la destra, mentre Pasolini faceva riferimento al fascismo della Dc e, in generale, ad una pratica diffusa di sopraffazione, criminalità e compromesso che andava oltre i parametri netti della destra e della sinistra. Questo di Borgna e Baldoni è un libro da leggere assolutamente, per evitare ulteriori incomprensioni.

[1]F. De André. Come un’anomalia, (saggio e cura dei testi di R. Cotroneo), Einaudi, 1999.

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