I racconti del Premio letterario Energheia

Oltre questo mare, Ginevra La Barbera_Vittoria(RG)

Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione giovani

Buio. C’è solo buio intorno a me. Le tenebre mi avvolgono facendomi sentire perso, spaesato. Impiego poco tempo a rendermi conto di ciò che sta avvenendo: una benda mi copre gli occhi costringendomi a rimanere nell’oscurità. Cerco di muovermi ma subito mi accorgo di essere bloccato. I miei polsi sono stretti in delle spesse corde che impediscono qualsiasi movimento. Do uno strattone nella speranza di liberarmi ma ottengo solo un gran dolore; le corde sembrano stringersi sempre di più ad ogni mio minimo movimento. Un lamento esce inevitabilmente dalle mie labbra e una smorfia compare sul mio viso. «Ali» il mio nome risuona nello spazio circostante, pronunciato da una voce inaspettatamente vicina a me, che riconosco subito. Privo della vista, lascio che siano gli altri sensi a guidarmi: un motore in sottofondo sussulta e delle ruote sobbalzano mentre procedono in una strada non asfaltata. Inizio a tremare non appena realizzo: mi trovo su un furgone, bendato, incapace di muovermi e decisamente destinato a morire. «Mokhtar» rispondo alla voce percependo la presenza del ragazzo al mio fianco. «Sono qui, non avere paura» dice cercando di rassicurarmi, nonostante percepisca la sua voce tremante. Anche lui è spaventato, anche se cerca di nasconderlo. «Mi dispiace» mormoro. «Non scusarti, non è colpa tua» ribatte deciso. «Sì invece, se non ci fossimo mai incontrati forse…» cerco di dire ma la sua risata mi interrompe. Non una risata spontanea, ma breve, di scherno. «Per favore, sarebbe finita allo stesso modo, magari con qualcun altro ma il risultato sarebbe stato lo stesso» dice ironico. Deglutisco e poggio la testa contro la fredda parete dell’autovettura. «Dove ci stanno portando?» chiedo sperando in qualcosa che so che non accadrà mai. Lui sospira, privo di energie. «Temo di avere qualche idea». Un brivido di paura mi fa drizzare la schiena e all’improvviso l’andamento turbolento del veicolo mi spinge in avanti. Le mani legate non mi permettono di parare la caduta e urto con la spalla il pavimento del furgone. Un lamento mi sfugge dalle labbra e malamente mi rimetto seduto. «Ali, che succede?» chiede Mokhtar preoccupato. «Sono solo caduto» dico affannato. Lo sento muoversi rumorosamente per avvicinarsi a me; un attimo dopo le nostre spalle si sfiorano e il suo capo si appoggia sul mio. Sospiro e cerco di concentrarmi solo su quel semplice contatto lasciando fuori quella realtà che mi spaventa così tanto. «Ti penti di avermi incontrato?» sussurra la sua voce. Sulle mie labbra compare un sorriso triste, sono felice che lui non possa vederlo. «Come potrei? Sono stati i mesi più belli della mia vita…e anche se finirà così, voglio che tu sappia che non avrei potuto desiderare persona migliore al mio fianco» affermo senza alcuna esitazione. Voglio che queste parole rimangano impresse nella sua mente per tutto il tempo che ci rimane e oltre. «Anche io» dice di rimando e lo sento sorridere lievemente. Non riesco a vederlo e forse non riuscirò mai più a farlo, ma so per certo che in questo momento sta pensando a noi. Sapevo sarebbe finita così, forse l’ho sempre  saputo; ho provato a farlo ragionare più volte per allontanarlo da me e metterlo in salvo ma in fin dei conti sono felice che non mi abbia mai ascoltato.

 «Devi andartene, adesso!» sbottai indicando la porta di casa. «Nemmeno per sogno, non mi allontanerò soltanto perché qualcuno minaccia di ucciderci» ribatté deciso incrociando le braccia. «Ma ti senti quando parli?! Soltanto perché qualcuno minaccia di ucciderci?! Non hai imparato nulla da loro?» replicai sbattendo sul tavolo una copia del quotidiano “Etemaad”, fresco di stampa. Non ero arrabbiato, ero deluso e amareggiato. Non potevo accettare che la nostra storia finisse così. Mokhtar lo prese tra le mani, divenendo pallido non appena lesse il titolo scritto a grandi caratteri neri in prima pagina.

15 marzo 2005

DUE UOMINI CONDANNATI A MORTE PER ATTI OMOSESSUALI

Avevo letto più e più volte quell’articolo cercando di intravedere una luce, un pizzico di speranza che potesse consolarmi in qualche modo, un motivo valido che potesse giustificare quell’arresto. Ma non c’era nulla. In quelle pagine vi era solo la cruda e nuda verità. Eravamo destinati a morire. «Q-Questo non c’entra nulla con noi due» balbettò incerto. Scossi la testa, rassegnato. «Come può non riguardarci? Guardaci! Se ci trovassero…insieme, finiremmo come loro» replicai stringendo i pugni. «Basta solo essere discreti» provò ancora. «No, non posso rischiare di perderti, non me lo perdonerei mai» dissi categorico. «E quindi cosa vorresti fare?! Smettere di amare, di innamorarti, di provare qualsiasi emozione solo perché qualcuno senza cervello al potere ha deciso così?» sbottò arrabbiato gettando via il giornale che ancora teneva tra le mani. Abbassai lo sguardo sentendo un grosso nodo alla gola. «Hai detto bene, qualcuno senza cervello al potere» sorrisi amaramente chiudendo gli occhi.

«Lo sai, sono felice che tu non mi abbia ascoltato quel giorno e non te ne sia andato» gli dico stringendo forte gli occhi per non lasciarmi vincere dal dolore. «Non l’avrei mai fatto, sono sempre stato un amante del rischio» ride. «Sei sempre stato matto da legare» replico e un sorriso nasce spontaneo al ricordo di noi due e della nostra più grande avventura.

«Tu sei proprio pazzo» affermai ridendo. Uscii dall’auto non appena il ragazzo al mio fianco spense il motore e mi catapultai verso la nostra meta sentendolo a stento mentre pronunciava un «ma tu mi ami per questo». Il rumore delle onde del mare mi giunse alle orecchie prima che potessi vederle e il sorriso si allargò sulle mie labbra. Una distesa d’acqua comparve davanti ai miei occhi e si faceva sempre più vicina mano a mano che avanzavo verso il molo. Il golfo di Gorgan mi salutò facendo sbattere le sue onde sugli scogli vicini. Percorsi tutta la sua lunghezza fermandomi nel punto più lontano. «E’ meraviglioso» sussurrai sentendo Mokhtar raggiungermi e sedersi al mio fianco. Chiusi gli occhi lasciandomi cullare dal dolce suono delle onde che sbattevano tra di loro e dal profumo di mare capace di inebriarmi. «Sogni mai di andare via?» chiese all’improvviso. Aprii gli occhi di scatto e mi voltai verso di lui; un’espressione interrogativa mi si dipinse sul volto. «Sai, guardando questo mare e le barche che ogni giorno partono non posso fare a meno di immaginare di prenderne una e semplicemente partire…andare in un luogo dove non vieni considerato un mostro solo perché ami» sussurrò tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé. «Ti piacerebbe?» ripeté poi rivolgendo la sua attenzione su di me. «Da morire, eccome se mi piacerebbe» sospirai immaginando una terra lontana oltre queste onde. Il profumo del mare mi invase e, nonostante ciò non fosse possibile, sorrisi immaginandomi insieme al ragazzo mentre scappavamo lontano. «Dove vorresti andare?» domandò con un lieve sorriso in viso. Ci pensai su e cercai di ricordare qualche paese distante anche se le mie conoscenze geografiche erano molto limitate. «Vorrei andare lontano in un luogo dove non si rischia di morire se sei te stesso» mormorai più a me che a lui. «E quindi dove?» insistette. «Magari in Europa o negli Stati Uniti» scrollai le spalle. Che importanza aveva? Chi aveva tutti quei soldi per permettersi un viaggio così lontano? Avevo solo 25 anni, svolgevo qualche lavoro di fortuna e non avevo che dei piccoli risparmi da parte, ma non ce l’avrei mai fatta a trasferirmi e ad iniziare una nuova vita con quello. «E così sia, un giorno ti ci porterò…andremo lontano da qui» affermò stringendomi la mano. La sincerità nei suoi occhi mi portava a pensare che in quelle parole lui ci credeva sul serio. «Me lo prometti?» quasi lo implorai di darmi quella conferma e, anche se falsa, ne avevo bisogno. «Te lo prometto» si aprì in uno splendido sorriso che quasi mi fece credere che, un giorno, noi ce l’avremmo fatta.

«Posso aprirli adesso?» chiesi impaziente tenendo una mano davanti agli occhi. Sentii Mokhtar ridacchiare mentre continuava a condurmi verso un posto ancora a me sconosciuto. «Abbi pazienza Ali» esclamò dolcemente il ragazzo bloccandosi improvvisamente. Per qualche secondo mi sentii sperduto, al buio, senza nessun contatto da parte sua a cui potessi aggrapparmi per trovare stabilità. Poi però riconobbi il rumore di un mazzo di chiavi e lo scatto di una serratura. Una porta si spalancò e finalmente lui afferrò la mia mano per riprendere il suo precedente ruolo di guida. Solo qualche passo in avanti, infine si fermò e impaziente lo imitai. «Okay, ora puoi aprire gli occhi» esclamò con un tono stranamente serio. Respirai a fondo cercando di accumulare quanto più ossigeno possibile ma inutilmente perché non appena aprii gli occhi il fiato mi mancò per un attimo. La prima cosa che vidi davanti a me fu il sorriso quasi abbagliante di Mokhtar, gli occhi chiari che luccicavano d’emozione mentre cercavano di catturare ogni singola sfumatura della mia reazione. Poi spostai lo sguardo, sbattendo le palpebre velocemente per abituarmi al nuovo ambiente. Mi ritrovai in questo piccolo salottino, così luminoso da costringermi a socchiudere gli occhi per riuscire a vedere qualcosa. Non era un luogo molto ampio ma decisamente accogliente, i mobili erano disposti in modo da raccogliere lo spazio e creare un’atmosfera confortevole. Girai in lungo e in largo per scoprire ogni cosa di quel luogo, rendendomi conto di essere in una casetta di campagna composta solo da tre stanze, poi con uno sguardo interrogativo mi girai verso il ragazzo che aveva organizzato la sorpresa, alle mie spalle, rimasto in silenzio fino a quel momento per cogliere al meglio ogni mia espressione. «È per noi» asserì infine guardandomi dritto negli occhi. «Ho pensato che, vista la situazione, era meglio starsene appartati per un po’; giusto il tempo che le acque si calmino» spiegò meglio e tutto mi fu subito più chiaro. Non esitai un secondo a stringerlo tra le mie braccia, grato di avere accanto una persona come lui che, piuttosto che scappare o respingermi come avevano fatto già molti altri prima di lui, era rimasto al mio fianco, deciso a rischiare con me piuttosto che perdermi.

«Quell’appartamento era proprio bello, mi piaceva» sospiro stremato, non sono più riuscito a dormire così bene da quando lo abbiamo lasciato -da quando ci hanno costretti a lasciarlo-. «Sai che avevo passato tre settimane a cercare un posto che ti piacesse?» ridacchia come se stesse ancora vivendo quei momenti e la realtà fosse lontana anni luce da noi. «Nessuna delle case che avevo visto sembrava adatta a te, volevo che fosse perfetta» conclude, poi rimane in silenzio. Probabilmente si è svegliato da quel sogno ad occhi aperti. Alle sue parole mi commuovo e se le mie mani non fossero legate non esiterei un secondo a stringerlo a me. «Avrei dovuto scegliere un luogo più nascosto, magari andare più lontano» sbotta improvvisamente arrabbiato facendomi sobbalzare. Capisco subito a cosa si riferisce. «Eravamo già lontanissimi dal centro, qualunque posto sarebbe stato pericoloso» cerco di rassicurarlo, fargli capire che lui ha fatto tutto ciò che poteva per metterci al sicuro. «Allora dovevamo andarcene! Dovevamo scappare subito, appena abbiamo capito che stavano iniziando le persecuzioni!» continua alzando il tono della voce. «Come potevamo saperlo? Abbiamo cercato di vivere la nostra vita, in tranquill…» cerco di dire ma lui mi blocca e la sua voce sovrasta la mia. «Per favore Ali, quanti ragazzi sono morti in questo periodo perché sorpresi a mantenere relazioni amorose con persone dello stesso sesso? Quante notizie del genere sono uscite sui giornali?! Sono stato uno stupido a non capirlo subito». Si blocca, cerca di riprendere fiato. Trema e mi si stringe il cuore sapendo che non posso fare nulla per farlo stare meglio, nemmeno stringergli la mano. «Ascoltami, non potevamo saperlo, credevamo di essere al sicuro. Tu hai il tuo lavoro e la tua famiglia qui, non potevamo semplicemente andarcene, così all’improvviso. Siamo stati ingenui, è vero, ma non credevamo succedesse tutto questo» esclamo cercando di farlo ragionare. Non voglio che abbia rimpianti proprio ora, non voglio che si senta in colpa per ciò che non ha fatto e che avrebbe potuto fare. Non voglio che porti questo peso sulle spalle da solo.

«Mi piacerebbe vedere il mare da qui» sussurrai poggiando il braccio sul davanzale del salone, il mento sul palmo aperto. «Come mai?» chiese Mokhtar apparecchiando la tavola. «Il mare riesce a trasportarmi lontano con il solo rumore delle onde che si scontrano, il suono mi conforta, e in un certo senso mi piace pensare che funzioni un po’ come la vita…può essere calmo e filare tutto liscio, ma in un secondo può trasformarsi in una tempesta e tutto può andare a rotoli» mormorai guardando la campagna in lontananza fin dove il mio sguardo poteva arrivare. «Grazie per avermi portato a vedere il mare, il mese scorso» sorrisi raggiungendolo a tavola dove lui si era già seduto. «Un giorno riuscirai a vederlo ogni volta che vuoi» promise con un grande sorriso. Quanto avrei voluto che fosse vero. «Riesci a sentire la tua famiglia ogni tanto?» chiesi e il suo sorriso sparì in un attimo. «No, da quando hanno saputo…di noi si sono rifiutati di aiutarmi. Hanno paura delle conseguenze» spiegò e la sua voce iniziò a tremare. Avvertii un nodo alla gola e per un attimo non riuscii a parlare. Strinsi la sua mano nella mia, cercando di tranquillizzarlo. Mi faceva soffrire vederlo così, solo. «Vedrai che le cose si sistemeranno, questo brutto periodo finirà» dissi speranzoso. Entrambi sapevamo che quel periodo non sarebbe finito presto, non eravamo sicuri nemmeno che sarebbe finito un giorno; ed entrambi facevamo promesse che difficilmente si sarebbero realizzate, promesse che sfumarono all’improvviso quando delle pesanti nocche iniziarono a battere ripetutamente alla porta del nostro piccolo e modesto casolare di campagna. Per un secondo io ed il ragazzo di fronte a me ci guardammo negli occhi pieni di terrore, poi la porta si spalancò con un tonfo; sussultai e il mio corpo fu scosso dai tremiti non appena tre uomini armati fecero irruzione nella stanza. Tutto avvenne in un secondo: una presa forte mi strattonò e subito la mia faccia fu premuta contro le fredde mattonelle del pavimento, le mie braccia strette dietro la schiena. «Lasciatemi andare!» sentii la voce di Mokhtar urlare sopra il mio orecchio e poco dopo si trovò disteso al mio fianco mentre una guardia gli premeva un ginocchio contro la schiena. Voltai il viso e osservai il terzo uomo girare per la nostra piccola dimora. Era un poliziotto vestito con la sua divisa scura, un cappello dello stesso colore gli copriva la testa rasata e con una pistola in mano frugava tra i cassetti, rivoltava le coperte lasciando tutto in disordine. «Lasciateci andare, non abbiamo fatto niente!» Esclamò ancora il mio ragazzo dimenandosi. Questo peggiorò solo la sua situazione, la presa sulle sue braccia si fece più stretta, ben presto sostituita da strette manette di freddo metallo mentre la terza guardia continuava la sua ispezione. «Siete in arresto, avete il diritto di rimanere in silenzio» affermò duro il poliziotto sopra di me strattonandomi per sollevarmi dal pavimento. Io, ormai rassegnato a ciò a cui stavamo andando incontro, lo assecondai senza fare storie. Dopo ciò ci caricarono nella loro auto e ci sbatterono in una cella fredda e buia senza battere ciglio. «Tirateci fuori di qui! Non siamo criminali!» gridò Mokhtar, le mani chiuse attorno alle strette sbarre della stanza. Buttai fuori un sospiro e mi sedetti su una delle brande di cui la stanza era dotata.«Mokhtar» lo chiamai ma lui non mi prestava attenzione. «Mokhtar» riprovai. Nulla. Il ragazzo continuava a urlare rivolto verso un osservatore inesistente. Urlava al vuoto. «Mokhtar, basta!» sbottai alzandomi e lui finalmente si ammutolì per un attimo. Poi il suo sguardo si incupì. «Come puoi startene qui seduto senza fare nulla mentre siamo rinchiusi in questo schifo di cella e quelli là fuori stanno progettando di ucciderci?!» affermò gesticolando furiosamente. Era fuori di sé e sicuramente molto vicino ad un crollo nervoso. «Cosa vorresti fare? Spaccare tutto e peggiorare ancora di più la nostra posizione? Sapevamo che sarebbe potuto accadere. Lo sapevi Mokhtar! Non possiamo cambiare il passato, per ora possiamo solo aspettare e sperare che vada tutto per il meglio» dissi cercando di farlo ragionare. Rimanemmo in quella cella per settimane, senza la possibilità di uscire né sentire i nostri cari. Non che io avessi cari a cui telefonare ma più passavano i giorni più Mokhtar era sofferente. Il nostro processo, se così poteva chiamarsi, durò un paio di minuti circa. Il giudice elencò una serie di leggi che avevamo infranto e non ci diedero nemmeno la possibilità di difenderci; il tutto si concluse con la nostra sentenza di morte. Mokhtar smise di ribellarsi presto, man mano che il tempo passava i suoi occhi perdevano la loro luce e il suo volto appariva più sciupato; stava perdendo la speranza. Io l’avevo già persa da un pezzo. Ero pronto ad affrontare tutto ciò che sarebbe avvenuto dopo. Ma lo ero davvero?

Il furgone si ferma all’improvviso ed entrambi sobbalziamo. Le ante si aprono con forza e delle braccia mi strattonano gettandomi fuori dal veicolo. Mi sento spaesato nel nuovo ambiente, senza più nulla a cui aggrapparmi. Le stesse mani di prima mi spingono rudemente in avanti e faccio una grande fatica ad avanzare senza inciampare. L’aria è fredda in quella giornata di metà Novembre, ma sento il sole bruciare sulla mia pelle come se volesse darmi ancora un po’ di calore prima che la vita mi abbandoni. L’unica cosa che riesco a sentire sono centinaia di voci intorno a me che gridano mentre continuo a muovermi in avanti. Vorrei scappare, fuggire lontano da qui ma non posso. Non riuscirei mai ad abbandonare Mokhtar qui, da solo e per di più bendato e legato non farei molta strada prima di essere nuovamente catturato. La figura alle mie spalle mi costringe a salire su una pedana, quasi inciampo nel tentativo di farlo. Il mio respiro si fa pesante ma cerco di calmarmi facendo respiri lunghi e profondi. No, non sono affatto pronto a morire. Non sono pronto a non rivedere più i colori del mondo, l’azzurro del cielo e il blu profondo del mare aperto. Non sono pronto a non rivedere più il dolce viso di Mokhtar, il ragazzo che ha deciso di mettere a rischio la propria vita per me, e che ora avrebbe condiviso il suo ultimo respiro con me. Delle braccia mi bloccano e mi girano mettendomi in posizione. «Lasciatemi vedere!» prego buttando la testa all’indietro. «Vi prego!» imploro e le lacrime finalmente scivolano sulle mie guance. «Lasciatemelo vedere un’ultima volta» sussurro. «Ali» risponde lui al mio fianco. «Siate umani! Come potete farci una cosa del genere?!» continuo a urlare, faccio respiri veloci e singhiozzo forte. Tutto ciò che ottengo è la folla di persone probabilmente radunate davanti a noi che urla più forte. «Ali ascoltami, cerca di respirare. Lentamente. Non sprecare i tuoi ultimi respiri inutilmente» consiglia con la voce spezzata. Seguo il suo consiglio e inizio a respirare piano. «Ricordi quello che mi hai detto? La vita può diventare una tempesta in un secondo. Basta solo trovare un porto sicuro, un’ancora a cui aggrapparsi. Sei tu la mia ancora Ali, lo sei stato fin dall’inizio. Preferisco finire la mia vita, qui, ora, con te, piuttosto che vivere senza averti al mio fianco» dice calmo e la sua voce smette di tremare. Le lacrime continuano a scendere più copiosamente dopo quelle parole. Non riesco a dirgli che è esattamente ciò che provo anche io, che ho sempre provato. Mi sono innamorato di lui dal primo momento in cui l’ho visto e per questo motivo sto per essere ucciso, qui, in questa piazza, davanti a centinaia di persone. Il tempo sembra fermarsi in quegli ultimi istanti: sento una corda passare sulla mia testa e stringersi attorno al mio collo. Pronuncio le mie ultime parole prima che la pedana si apra sotto i miei piedi. «Ora potremo finalmente essere liberi».

Lo stesso giorno, il 13 Novembre 2005, il quotidiano “Kayhan” riportava la notizia: «due ragazzi iraniani, identificati come Mokhtar N. e Ali A., di 24 e 25 anni, sono stati impiccati nella città settentrionale di Gorgan, in piazza Shahid Bahonar. Erano stati condannati a morte per aver avuto una relazione omosessuale».