I racconti del Premio letterario Energheia

Nero di pece_Annarita Falsacappa, Bevagna(PG)

_Racconto finalista diciottesima edizione Premio Energheia 2012.

 

 

Spesso per capire delle situazioni, soprattutto quando sono troppo lontane da sé, dal suo mondo, dalla realtà che vive, Rita mette in moto la sua immaginazione.    Che strumento fantastico abbiamo – pensa – ti fa andare e ritornare; partire per mete distanti e luoghi sconosciuti, addirittura bastano pochi elementi, magari visti sfogliando un libro e ti trovi a pensarti un mercante di stoffe, un marinaio, un venditore di pietre preziose… E’ un po’ che Rita segue la sua immaginazione per puro divertimento, perché non la delude mai e le situazioni, i luoghi si riempiono di vita inventata, che è più bella di quella vera, perché hai la possibilità di cancellare qualsiasi intromissione scolorita. L’immaginazione ti fa volare, ti fa sentire leggera e puoi snodare ogni piega, infilarti nei contorni dei disegni, farli animare. A volte succede che Rita continui a fantasticare anche nel sonno, cosi che la sua storia si completa, si articola, si dilata, si colora e sfuma in rivoli di sensazioni, che sfociano in piacevoli suggestioni. E’ un po’ però che la sua immaginazione le fa brutti scherzi: tenta di spiegarle il perché di certi sguardi tristi, di mani che si aggrappano, di corpi esili, che si ammassano sulle carrette del mare per una traversata a rischio della vita.        Per Rita il dato certo, il punto da cui partire con la sua immaginazione è che dietro ognuna di quelle persone c’è una storia di miseria, di fame, di sfruttamento, di diritti calpestati, di violenza, c’è il desiderio di rifarsi una vita. Le suonano strane quelle voci sempre più nitide che parlano di invasione, difesa delle tradizioni, ragione del rifiuto, difesa del lavoro, dei nostri diritti e quelli degli altri? E poi bisogna intendersi sugli altri e se è davvero giusto che abbiano i nostri stessi diritti, perché…   E poi noi abbiamo la religione, migliaia di anni di storia, che ci ha insegnato davvero molto, così tanto che siamo diversi, certo migliori e abbiamo il dovere di far rispettare i nostri diritti… Degli altri dobbiamo capire chi sono, che cosa vogliono, da dove vengono, che cosa fanno e che cosa hanno fatto finora, per chiedere quello che per diritto abbiamo acquisito.

Certo che abbiamo spirito cristiano, ma la cittadinanza agli stranieri, la loro accoglienza o semplicemente non avere pregiudizi nei loro confronti, quello è davvero un’altra cosa! Invece Rita parte con la mente, dietro a quegli occhi intensi e profondi, che sanno di dolore, a quelle mani di ragazzo, che cercano un appiglio e finisce in terre riarse dal sole infuocato, in cui non crescono le patate, le messi dorate non attecchiscono e l’acqua non lava le strade, né schiarisce le idee, dove ore ed ore sotto il sole come d’agosto ti sfianca, mentre tutt’intorno è miseria assoluta e a casa, quel tugurio di terra e frasche, altri occhi come i tuoi gridano l’ingiustizia di un mondo feroce. Rita lo sente su di sé il peso di quest’esistenza senza presente né futuro, in un imbuto asfissiante che ti porta a contare i giorni tutti uguali con l’angoscia della morte per una malattia anche banale. Così Rita raccoglie i suoi spiccioli e, seguendo la scia dei disperati, tanti e silenziosi, arriva allo scafista. I soldi non sono sufficienti per portare con sé i figli. Deve fare una scelta difficile: sarà Alsman, il più grande, a seguirla… La paura la trattiene, lo guarda per un attimo: ha solo dodici anni, ma il suo viso è già spento, senza gioia, tantomeno entusiasmo. Andrà lei, da sola, cercherà un lavoro, poi ritornerà, certo che tornerà a prenderli tutti. Il suo cuore è gonfio, ma ha deciso di provare a cambiare quella vita fatta del troppo niente quotidiano. Si riempie gli occhi del tramonto di un rosso fuoco, che tocca la sua terra color mattone e di quel cielo limpido che guardi fin dentro, al di là dell’orizzonte, senza stracci di nubi, sempre uguale, magnifico e terribile. Qua e là piante filiformi si allungano, dipingendo strane figure inanimate. Rita ha fatto provvista dei colori, dei profumi della sua terra, della luce che le è attaccata al cuore, come i suoi figli. Il suo compagno se ne è andato qualche anno fa, stroncato da un’infezione, che lo ha consumato tra dolori insopportabili. La sua capanna laggiù è uguale a quella di tante altre famiglie e ci vive con la madre. Quella capanna è l’unica cosa che le rimane del marito: lo rivede, mentre carica l’acqua con cui bagna la terra per costruire la loro casa, o tentare di far crescere quelle sementi, che già non bastavano a sfamarli. Ormai Rita sa che deve andarsene, sua madre ha capito, non c’è bisogno di nessuna spiegazione. Non ha niente da portare con sé, solo i ricordi e l’idea che la vita dei suoi figli dipende dal suo ritorno.

Davanti a quel gommone, sulla spiaggia di sabbia fina e bianca, forse anche bella, ha intorno tanti piedi scalzi, uomini e donne disperati, bambini stranamente troppo silenziosi, con il cuore che piange. A guardarlo, quel gommone è davvero piccolo, è anche malconcio! La disperazione è la stessa per tutti e partire per sopravvivere è il pensiero comune.

Partire anche a costo di perderci la vita! I giorni sono devastanti, sempre uguali, alla ricerca di qualcosa da fare e qualcosa da mangiare… Lo scafista ha modi rudi, che tagliano un cuore già in gola. Le strappa veloce i soldi dalle mani e con una spinta la sistema come un pacco, un oggetto, addosso agli altri. Lo spazio di cui ha diritto è davvero poco. Si accorge di essere troppo attaccata ad altri corpi, ma tanto l’Italia è vicina, l’Italia che risolverà i suoi problemi! Ancora prima di partire, anche se è ormai sera, il caldo si fa insopportabile, mentre il silenzio assoluto. Vorrebbe che tutto fosse già finito. Non ha diritto al cibo, l’acqua è razionata; si guarda intorno: le persone sono davvero tante e quel gommone troppo piccolo…

Accanto a lei, troppo vicina da sentirla respirare e percepire ogni minimo movimento c’è una giovane donna. Quanti anni potrà mai avere? Sedici, forse qualcuno in più ed ha in grembo un esserino dagli occhi inespressivi. Il suo viso è dolce e piccolo, ha pochi mesi. Rita li osserva di nascosto. Quella donna bambina con suo figlio si trova a vivere la sua stessa situazione. I suoi occhi neri e profondi sono l’espressione della paura; ha il viso abbassato sul suo fagottino, mentre intorno si sono sistemati, in silenzio, dei ragazzi, alcuni uomini e qualche bambino. Forse la sua vicinanza, pensa Rita, non è stata casuale, forse ha visto in lei una protezione, forse ha percepito che anche lei è una mamma. Ma che senso ha pensare questo? In fondo tutte le storie si somigliano, sono storie di sopraffazione, di miseria, di fame, di disperazione, di afa che polverizza ogni speranza, fino a quando non ce la fai più e tenti l’ultima carta, tenti la sorte, fuggi dal destino di lenta dissoluzione. Dopo un po’ che sono in silenzio i loro occhi si incontrano e Rita vorrebbe abbracciarla, assommare il loro coraggio, che è poca cosa per affrontare una storia così grande per lei ma anche per Carim, che non sono mai uscite dal loro villaggio. Quello era tutto il loro mondo, lì sono cresciute, ogni villaggio si assomiglia: la polvere fa parte della vita, speri per mesi in un temporale, passi ore a fare lunghe file per riempire le brocche, non puoi lavarti né sprecare una sola goccia d’acqua. L’acqua… è la loro angoscia: non basta mai e costringe a stare fuori casa per ore. A volte ha un cattivo odore e un colore strano ma è solo quella, non si può pensare e tanto basta. Carim è timida e Rita immagina tutto, senza che dica una sola parola: le sue mani sono da bambina, come il suo corpo piccolo e ben fatto. Ha in testa un fazzoletto colorato messo a crocchia ed un bracciale all’omero; si rivolge ogni tanto al figlio, che si chiama Aam. E’un bel nome  – pensa Rita – mentre li osserva stretti l’uno all’altra.

Chissà se ha fame, forse sete… Ma non piange, come se sapesse la scelta dolorosa della madre. Si fa forza e spezza questo silenzio. Tra qualche minuto lasceranno quella spiaggia tanto familiare, i motori sono già accesi ma non deve alzare la voce, perché le sta attaccata. Sembra contenta di parlare con qualcuno, le sorride, allunga la mano per stringere la sua. E’ calda e morbida, con dita piccole e sottili. La storia di tutte si ripete nel suo racconto: il marito l’ha comprata a tredici anni per due mucche e un sacco di grano, ma la sua famiglia era così povera e tanto numerosa… Un giorno è arrivato e l’ha portata con sé in un villaggio vicino e subito ha capito il suo ruolo. Aam è il loro unico figlio ma ha già avuto altre due gravidanze finite male. La sua vita di sofferenza è diventata insostenibile, quando Abus, suo marito, ha cominciato a non mangiare, a farsi sempre più magro. Così si sono messi in marcia per l’ospedale. Camin aveva in braccio Aam, che non ha mai lasciato, proprio come ora. Rita la osserva, mentre parla: sul suo viso passano mille espressioni e non è più una bambina, quando mette insieme i pezzi della sua vita, perché niente è stato facile. Le suore vestite di bianco hanno raccolto Abus sulla soglia dell’ospedale e pochi giorni dopo è morto. Ora Carim è sola e sa che non può restare, che la vita per lei è impossibile. Le risuonano nella mente le parole di quella suora gentile ma insistente, che voleva visitare lei ed il suo bambino, che parlava di infezione. Carim una notte in quella stanza d’ospedale, dove il cibo era buono e l’acqua pulita, aveva preso la decisione di partire, lasciare quello che conosceva per l’ignoto, doveva farlo soprattutto per Aam.

L’aveva detto alla suora bianca e buona, che aveva annuito in silenzio; le aveva preparato delle medicine e un po’d’acqua, il latte per Aam e si era fatta promettere che sarebbe andata, una volta in Italia, in un ospedale per un controllo accurato.

Carim non capiva perché, ma ricordava che al suo villaggio erano morte in poco tempo parecchie persone. Forse erano stati gli insetti, affamati anche loro, o il caldo esagerato, o quella fame che non ti lascia mai o forse quell’acqua che sempre più spesso ha un odore strano o forse quei barili che da qualche tempo sono sotto il ponte. Ma da quando? Forse lei era appena una bambina, quando li ha visti per la prima volta ma lo è ancora e dunque è poco che sono là mezzo coperti dalla sabbia infuocata. Ma sono rossi e i bambini, si sa, sono curiosi e spesso a crocchi lì davanti si fermano a giocare, a scavare… Carim non sta male, è forte, poi ora deve proteggere suo figlio, è davvero pronta per quella traversata.

Rita l’ascolta e poi prende a parlarle di sé, della sua storia, per niente originale. Si sentono vicine anche nell’anima, mentre il gommone si è staccato dalla riva e il respiro sembra fermarsi. E’ questo il momento peggiore – pensa Rita – ormai non puoi più ripensarci e fra qualche minuto saranno in mare aperto, con l’acqua ovunque e si sentiranno in balia del destino.

Non rimane altro che sperare forte di farcela, mentre la paura le attanaglia per ogni sussulto del gommone, che è tanto piccolo e troppo pieno. Aam è ancora silenzioso, si scalda al tepore del corpo della madre, che lo tranquillizza, si assopisce, nonostante il rumore assordante del motore ed il brusio quasi impercettibile delle persone. Anche Carim chiude quei suoi occhi grandi da bambina. Ora Rita sente di doversi prendere cura di loro, forse per il suo senso materno, forse perché semplicemente ha un animo generoso e condivide il loro dolore. Si dice che lei, per quello che le sarà possibile, ci sarà. La paura le prende la gola. Il mare è nero ed il cielo pieno di stelle; sono così tante che Rita per non pensare, si mette a contarle una ad una; sembrano lì per lei.

Ma nella mente ha i figli, il suo villaggio, mentre fissa gli occhi in quello spettacolo. Le viene quasi da pensare che la vita vale comunque la pena viverla, anche per lo spettacolo sempre sorprendente e grandioso a cui assistiamo. Mentre è combattuta tra una sensazione di sconfitta e di disperazione ed una meraviglia crescente per l’ordine armonioso dell’universo, per l’infinitamente perfetto, per il suo essere fragile ed incolpevole, inerte di fronte a tanto abbandono, si sente le guance umide. Si sa, quando si è madri, ci si commuove per niente – smorza Rita – mentre il suo sguardo va ad Aam, così piccolo e così perfetto, con quel nasino e quelle manine, che si muovono nel sonno e con quegli occhi neri, che sembrano un puntino ma sono già profondi e ti ci perderesti davanti alla domanda d’obbligo: – Perché proprio io? Che colpa ho commesso o chi l’ha commessa per me? – Aam forse non ricorderà nulla e conoscerà solo il lato bello della vita, quello fatto di lavoro, di pane, di amicizie… Carim, che la vede persa dietro ai suoi pensieri, la chiama; pensa che forse è triste per la nostalgia, anche se sono passate poche ore dalla partenza o è proprio lei ad aver bisogno di una parola, quando tutto intorno è nero pece. Le dice che troveranno certamente delle persone disposte ad aiutarle, perché gli italiani sono buoni e poi vivono tra lussi e ricchezze, così se li immagina, e nessuno potrebbe convincerla del contrario. Mentre parla, ha un brutto colpo di tosse ma Rita non ci fa troppo caso, del resto sono in mare aperto, l’umidità penetra nelle ossa e nei polmoni.

La tosse riprende fastidiosa. Rita la guarda. E’ stanca, provata, non sembra poi così giovane, anche gli occhi sono incavati e lamenta delle fitte all’addome. Le dice di resistere, perché prima di quattro ore non toccheranno terra, sempre che tutto vada bene. Carim non si lamenta ma lentamente si ripiega su se stessa, quasi fino a far scomparire quel piccolo fardello che è Aam, tranquillo per quell’abbraccio più forte del solito. Rita sente il fremito del suo corpo. La luce è fioca e a tratti il buio copre tutti quei volti; la lampadina rimanda immagini spente e stanche, tante vite inerti in balia di quel mare salato, freddo e nero. Rita sente Carim abbandonarsi all’indietro, appoggiandosi con il collo sulla barra di ferro. Le sembra addormentata, mentre Aam incomincia a piangere; allora Rita lo prende in braccio, lo culla per un pò. Come è leggero! Continua a piangere e allora con una scrollata cerca di svegliare Carim, piano, per non spaventarla. La testa sembra un cencio e le ricade sul mento. Rita si trattiene dal gridare, non sa cosa fare ma nessuno può aiutare Carim, tanto vale rimanere al proprio posto. Del resto non c’è nemmeno lo spazio sufficiente per alzarsi in piedi e, se gli scafisti scoprissero che Carim sta male, o che addirittura sta per morire, in un attimo si sbarazzerebbero di lei. Loro non vogliono guai, glielo hanno detto prima di farli salire su quel gommone.

E’meglio tacere ed ingoiare i singhiozzi. Guarda Aam, che sembra aver compreso tutto: è ritornato silenzioso e spento.

Che ne sarà di lui? Rita immagina il suo domani, che si arresta ad un traguardo tragico, la fine della sua mamma. E’ in totale balia del nulla, forse crescerà per strada o, ancora peggio, accanto a persone senza scrupoli. Rita avverte intanto che il corpo di Carim è immobile, non sente più nessun fremito, i suoi occhi chiusi sembrano distesi come il volto, per quel poco che si può distinguere. Rita non ci pensa due volte: Aam è suo figlio, lo deve fare per quella donna bambina e per se stessa. E’ troppo piccolo per lasciarlo a casa e così l’ha dovuto portare con sé. Lo stringe con delicatezza, lo culla, non sarà facile fargli capire che da quel momento è lei la sua mamma, ma ci proverà. Intorno a Rita intanto c’è un po’di brusio, forse qualcuno ha capito e parla di malattia, di contagio, di morte ma anche di polizia e di controlli. Rita

finge meraviglia per quanto è successo, davanti allo sguardo indurito del giovane scafista, alle braccia inanimate di Carim e a quel collo senza ossa. Poi un tonfo nel buio e il mare si richiude nel silenzio più assoluto.