I racconti del Premio letterario Energheia

Maggio_Matteo D’Arienzo, Roma

_Racconto vincitore quattordicesima edizione Premio Energheia 2008.

Non respira. Ecco, mio Dio, non respira più. La testa è accasciata sul dorso ricurvo del divano, lievemente piegata verso destra. Le braccia abbandonate lungo il corpo, inanimate.

Non respira: mio padre non respira più. Ha la bocca appena dischiusa, una fessura nera e sottile. Le labbra sono livide, quasi indistinguibili. Ne viene un rantolo improvviso, un respiro informe e contratto. Poi di nuovo più niente. Mi senti? Papà, mi senti? Parlami, papà. Lo chiamo, lo scuoto.

Ma non risponde.

Sta morendo – mi dico con lucidità –, sta morendo adesso, in questo momento, sotto i miei occhi. Sta succedendo ora.

A lui, a me. Vedrò l’ultimo respiro di mio padre. Non mi era mai sembrato così vecchio come ora che la luce opaca del pomeriggio gli imbianca ancora di più i capelli. Una luce uniforme, che la tenda del salone diffonde asettica e chirurgica come se fosse un neon. Eppure fuori è maggio e se solo fossi altrove, ne sentirei già gli odori. Se solo non fossi qui. Se solo non stesse accadendo.

Tutti dicono che io e mio padre ci assomigliamo molto, fisicamente intendo. È innegabile, credo, anche se adesso accade meno spesso, rispetto a quand’ero ragazzino. Forse il mio essere diverso caratterialmente, l’esser diventato ciò che sono mi ha raddrizzato il naso e ridotto la mascella squadrata.

Il mio volto è più allungato e magro del suo. I miei denti più vicini e regolari. I miei occhi sono azzurri come i suoi, ma più scuri e miopi. O forse, invece, non è vero e dovrei smetterla di raccontarmi quanto io sia cambiato crescendo, come per non vedere in me ciò che di lui non mi piace.

Le estati erano lunghe e ingenuamente inconsapevoli.

Partivamo verso la fine di luglio e restavamo fuori tutto il mese di agosto in un campeggio vicino al mare, a pochi chilometri dalla città. I pini alti e superbi, il terriccio, i cespugli di more ai bordi della strada, le interminabili partite a carte o a nascondino: un piccolo universo che mi attendeva ogni anno e che mi incideva dentro più di quanto mi accorgessi. Il campeggio raccoglieva ragazzi di borgata, abituati a giocare in strada, pronti alla competizione, naturalmente spinti all’affermazione di sé. Io ero terribilmente diverso. Rispetto alla maggior parte dei miei coetanei dovevo apparire un marziano.

Non parlavo come loro. Non mi gettavo con spavalderia nei giochi e nelle gare. Detestavo sporcarmi i piedi con la polvere o con la sabbia, e ogni anno di più non mi piaceva il mare, perché mi costringeva a mettermi in costume e Dio solo sa quanto non volevo. Più crescevo e più diventavo timoroso, frenato, trattenuto.

Nella roulotte di fronte a noi abitava Antonio, un carrozziere della periferia di Roma che possedeva un maggiolino decapottabile rosso bordeaux. Era alto, scuro, con i capelli lunghi e ricci. Un uomo rozzo, ma buono e sincero. Sua moglie Michela era una ragazzina, a pensarci oggi: non aveva ancora trent’anni e già aveva messo al mondo due figli, ovviamente provvisti di ridicoli nomi scappati fuori da chissà quale film americano.

A suo modo Michela era bella. Non fine, ma bella. Anche se nascondeva la sua bellezza dietro la maternità precoce e i piatti da lavare. Di fatto non si curava di sé, come se, valorizzare se stessa, potesse in qualche modo incrinare la sua dedizione alla famiglia e quell’immagine di moglie e di madre in cui aveva deciso di incastonare i suoi vent’anni.

Un giorno spinta dalle vicine – e per la verità anche da me bambino, che in maniera irriflessa, ne coglievo al fondo la bellezza – partecipò al concorso di Lady Campeggio, un titolo spropositato e altisonante riservato alle donne sposate.

Quella sera Michela scese dalla roulotte, come si scende da una carrozza: un tratto sottile di matita calcava il contorno dei suoi occhi, esaltandone lo sguardo nero e pulito; per la prima volta i capelli scuri le scendevano liberi sulle spalle. Un abito bianco un po’ audace, le metteva in risalto l’abbronzatura e il seno: era improvvisamente bella. Michela arrivò terza al concorso ed era evidentemente felice, non perché fosse stata pubblicamente riconosciuta la sua bellezza, ma perché si era ricordata di essere giovane e desiderabile.

Nella roulotte accanto alla loro c’era un’altra coppia con un bambino piccolo. Lui, Manuel, lavorava ai mercati generali ed aveva un fisico ben piantato, che culminava con due spalle rotonde e forti. Nonostante questo era irrimediabilmente brutto e la naturale espressione del suo viso veniva, costantemente corretta in peggio dai movimenti della bocca, che innescava un meccanismo incomprensibile di deformazione ogni volta che parlava. Ma era niente in confronto a sua moglie Brunella. Alta non più di un metro e cinquanta, grassa e con gli occhi storti, trasmetteva volgarità in ogni sua manifestazione. Si muoveva sgraziata su zoccoli di legno provvisti di tacchi vertiginosi, che non abbandonava nemmeno per recarsi in spiaggia e andava in giro fasciata da costumi sgambati anni ’80 che evidenziavano senza pietà i difetti del suo fisico, mantenendola costantemente sulla soglia del ridicolo. Tra loro, e con il resto del mondo, gridavano sguaiati e litigavano perennemente con i genitori, di lei, che avevano la roulotte pochi metri più in là; in tanti anni non avevano costruito nessuna vera amicizia. Quando il loro bambino compì un anno, fecero una festicciola, alla quale invitarono tutti i vicini di roulotte, e perciò anche noi. Io ero spaesato, anche perché Brunella aveva un fratello minore della mia età che mi prendeva ferocemente in giro, tentando ogni volta, senza troppe difficoltà, di escludermi dai giochi.

Mentre cercavo un tovagliolo di carta per pulirmi le mani, mi si accostò Manuel che, non trovando argomento migliore da affrontare con un bambino, mi chiese con aria d’intesa piena di testosterone, se sapevo a cosa servissero solitamente quei tovaglioli bianchi che aveva procurato all’ultimo momento per la festa: erano in effetti un po’ strani, fatti di una carta grossolana e spessa e per questo molto assorbenti. Di certo non erano destinati alla tavola, né tanto meno alla festa di compleanno di un bambino. Con tono cameratesco, in cui si coglieva una sfumatura di vanto tutta maschile, mi mise a parte del fatto che di solito noi uomini li teniamo sempre in macchina, pronti per ogni evenienza, non so se mi spiego.

No, ovviamente non si spiegava e, nonostante un certo sforzo immaginativo, non riuscivo proprio a decifrare l’allusione. Per mostrarmi all’altezza della confidenza, provai a simulare un sorriso compiacente, lasciando intendere che avevo colto il riferimento, probabilmente però senza riuscire a convincerlo.

Ma che non m’hai capito? – disse come risvegliandosi e rendendosi improvvisamente conto che il suo interlocutore non doveva avere più di otto anni. Di fronte alla domanda esplicita, lasciai affiorare un’espressione interdetta, simile a un’imbarazzata confessione. In fondo mi ero sentito trattato da adulto e mi dispiaceva essermi rivelato poco pronto e inadeguato a quel tono confidenziale. Manuel constatò che, forse, era troppo presto per certi discorsi e sentenziò con aria di superiorità che avrei capito quando fossi stato più grande, allontanandosi subito per svanire nel mondo degli adulti. Impugnai una pizzetta al pomodoro, pensando che probabilmente dovevo essere l’unico in quel luogo, o più probabilmente su tutto il pianeta, a non sapere a cosa servissero quei misteriosi tovagliolini con i quali impropriamente mi ostinavo a pulirmi la bocca e le mani. Ogni auto di ogni uomo adulto doveva certo esserne piena. Con ogni probabilità anche quella di mio padre, che mi teneva all’oscuro della faccenda.

Ma il vero banco di prova era il pallone, che decretava il mio assoluto fallimento. Di mattina si giocava in spiaggia tra un bagno e l’altro. Il clima era disteso perché non c’era vera competizione. Il pomeriggio, però, ci spostavamo tutti in pineta, dove si apriva, isolato tra gli alberi, un campetto sterrato: qui ci si organizzava in squadre e le partite diventavano terribilmente più serie. La foga del gioco e la voglia di vincere sollevavano polvere e sudore e schiamazzi. E mentre il ritmo cresceva, i corpi scattanti e forti dei giocatori lottavano per avere ragione gli uni degli altri, avviluppati, poi improvvisamente distanti, veloci, con i muscoli in tensione.

Di tanto in tanto un raggio di sole si faceva strada tra le teste verdi degli alberi e veniva a visitare un angolo del campo: era come se un riflettore illuminasse quella penombra d’aghi di pino e cortecce; improvvisamente l’aria piena di polvere si accendeva diventando pastosa e poi tornava, dopo poco, a spegnersi accondiscendente. Quei pomeriggi si protraevano interminabili fino al tramonto, quando le urla spazientite delle madri minacciavano irripetibili castighi mentre le loro mani avviavano premurose i preparativi per la cena.

All’inizio giocavo anch’io con gli altri. Ma dopo pochi tiri finivo regolarmente in porta, perché incapace di reggere il gioco e di toccare la palla che sgusciava veloce tra i piedi esperti dei compagni. Ma anche in porta non ero bravo perché avevo paura di tuffarmi per prendere il pallone. Mi sentivo fuori posto, responsabile delle sconfitte. Dalla porta al bordo del campo il passaggio fu breve e io lo accettai, senza combattere.

Fu allora che imparai che era meno doloroso non giocare, che giocare e non essere all’altezza del gioco.

Al contrario gli altri diventavano di anno in anno sempre più bravi e competitivi, così, quando il campeggio cominciò a bandire dei tornei di calcetto, rimasi sempre più solo. I pomeriggi diventavano lunghissimi e vuoti. E quando gli altri ricomparivano stanchi e sporchi di terra dopo la partita, non c’era posto che per il racconto delle prodezze dell’uno o dell’altro: i discorsi dei genitori, orgogliosi dei loro campioni, riempivano le serate umide, e i nomi dei più bravi risuonavano come quelli di eroi. Lentamente rinunciai del tutto anche ad assistere alle partite perché mi costava troppo e aspettavo pazientemente che la notte ne portasse via il rumore.

Ho un solo ricordo in cui gioco a pallone con mio padre.

Sulla spiaggia, in un giorno nuvoloso e torvo in cui il mare era mosso e il vento tirava forte verso le dune. Mi piaceva tantissimo quand’era così, e anche adesso. M’insegnò un trucco per cambiare fronte conservando il controllo della palla. Non c’erano altri intorno, se non in lontananza: solo io e lui. Mi sentivo imbattibile per aver imparato quel giochetto e cercai presto un’occasione per mostrarlo agli altri ragazzini.

Non servì a molto: mi dissero che era una cosa da niente e che sapevano già farla tutti, da tempo. Però, mi sentivo felice lo stesso perché me l’aveva insegnata lui. Mi chiesi allora perché non giocava più spesso a pallone con me e non mi insegnava: non vedeva come quello stupido gioco mi rendeva solo?

Sento le sirene avvicinarsi. È un rumore familiare nel traffico: c’è sempre qualcuno che sta male, qualcosa che brucia o altro del genere. Un rumore talmente abituale, da diventare, non più che, uno dei tanti suoni della città. Stavolta per me non è un suono ma un grido. Stavolta viaggia su frequenze diverse, che non colpiscono solo le orecchie, ma percuotono dentro. Mi affaccio alla finestra, l’ambulanza si ferma davanti al portone: è qui per lui. In fretta salgono, lo caricano sulla barella ed è già via. Balzo giù per le scale e mi scaravento in strada. Non so dove è parcheggiata la macchina: per ultimo l’ha presa lui ieri. Istintivamente avverto quante altre cose potrei perdere, non sapere, non trovare se non tornasse: mio padre è anche la mia memoria, o almeno una parte insostituibile di essa.

Poi la vedo, parcheggiata come al solito fuori delle strisce.

Mi arrabbio: perché deve sempre parcheggiare il quel modo?

Ma mi accorgo che quel sempre risuona diversamente: forse vuol dire mai più, forse è solo il ricordo di un modo di fare, di un’abitudine che è già passato. E la rabbia sfuma, veloce e intenerita. Mi assale il desiderio di non spostarla e di lasciarla lì, parcheggiata dove lui l’ha messa. Ma non ha senso, devo correre in ospedale. Ancorato con forza al volante, cerco una via tra le infinite macchine dei pomeriggi romani, meccanico, perso in altri pensieri.

Un giorno mio padre decise che era giunto il momento di togliere le rotelle alla mia bicicletta. Non ricordo bene quanti anni avessi. Era un giorno qualsiasi, insomma, di un’estate qualsiasi e io dovevo imparare ad andare in bicicletta perché tutti gli altri bambini sapevano già farlo.

La mia bicicletta era di un colore verde acido, qua e là scrostato dalla ruggine. Apparteneva al figlio di un collega d’ufficio di mio padre, al quale ormai andava piccola. Era bella e mi sembrava che il passaggio a quella bici sancisse inequivocabilmente che anch’io stavo crescendo. Prima di allontanarci, dopo aver rovistato nella cassetta degli attrezzi, papà cominciò a svitare una delle due rotelle in modo che potessi abituarmi gradualmente a stare in equilibrio. Io avrei voluto dirgli che non mi sentivo pronto, che volevo aspettare.

Ma non lo feci. Così c’incamminammo verso un piazzale lì vicino, dove avrei avuto lo spazio sufficiente per prendere la rincorsa e pedalare.

Il sole d’agosto era caldo, ma non afoso, e un vento fresco, che veniva dal mare, rendeva la mattina odorosa di sale, di resine e di terra. Lui camminava qualche passo avanti a me, trascinando la bicicletta per il manubrio e io lo seguivo, teso e compassato. Sotto le ciabattine di gomma i sassi scricchiolavano gracchianti, quasi commentando provocatoriamente la mia marcia svogliata. La mamma mi aveva messo una canottiera chiara di spugna per assorbire il sudore e il costume, così, una volta terminato, avrei potuto raggiungere gli altri al mare.

Dopo pochi minuti arrivammo al piazzale: era largo, ovale, privo di dossi o di buche e completamente coperto di ghiaia sottile, che sotto il sole brillava di un candore polveroso.

Provai prima con una sola rotella. Mi tenevo tutto sbilanciato verso sinistra, il lato munito della rotella superstite.

Dopo le prime pedalate più incerte mi accorsi che riuscivo a stare in equilibrio: più pedalavo e più mi rendevo conto con stupore di farcela e mi sentivo fiero e felice e sicuro. Era così, avevo scioccamente avuto paura di una cosa semplice, in fondo. Dopo un giro del piazzale tornai veloce al punto di partenza, pronto a ricevere i complimenti di mio padre, che, infatti, non tardarono. Ora, però, la cosa si complicava, disse.

Non dovevo avere paura, ma certo adesso era più difficile: avrebbe tolto la seconda rotella.

Mi rimisi in posizione: di fronte a me il piazzale si dilatava.

Era un deserto africano riarso dal sole, una savana sterminata e minacciosa, una distesa di ghiacci sconfinata. E più si allargava, più mi sentivo piccolo. Mio padre mi consegnò la bicicletta, priva di entrambe le rotelle. Com’è possibile che stia in equilibrio? – chiesi nella speranza che ci fosse un trucco o un segreto in grado di rendere tutto più facile. L’importante è pedalare senza fermarsi: finché pedali non cadi, ma devi prendere velocità. Tranquillo, abbiamo imparato tutti.

Io però non sono tutti. E poi non è vero: anche mamma non ci sa andare, pensai confusamente. La mia attenzione, in realtà, era tutta rivolta alla strada e alle mie gambette vulnerabili e nervose. Ci provo, papà – dissi. Mi misi a cavallo della bici: i piedi ben piantati, le mani strette e forti sul manubrio, poi un bel respiro. Non appena il pedale ebbe fatto poco più di un giro ero già fermo, con una sola intima certezza: era impossibile non cadere. Riprovai, cercando di mostrare buona volontà, ma dentro di me ero sicuro che non ci sarei riuscito: non si regge, papà, non ce la faccio. Non essere sciocco – replicò duro – devi solo prendere velocità: ora ti spingo io da dietro. Quando ti lascio, tu continua a pedalare: è impossibile non saper fare una cosa del genere. Avevo una paura matta: di farmi male, di non riuscire, di deluderlo. Di sentirmi ancora una volta incapace. Dentro di me filtravano sentimenti confusi, prima un malessere indefinito, poi un’ansia crescente.

In fondo al piazzale due donne prendevano l’acqua alla fontana, tutte intente, nei loro discorsi. Da una roulotte proveniva il suono distorto di una radio che trasmetteva il successo dell’estate. E io sentivo di avere una voglia infinita di piangere e di rinunciare. Ma cominciai a lottare per non cedere alle lacrime, che mio padre detestava e che non mi avrebbe perdonato.

Mi spinse, presi velocità, mi lasciò. Nonostante mi ripetessi che avrei continuato a pedalare, ero fermo già dopo pochi metri, ormai in preda al panico: non voglio, papà, lasciami stare, riproviamo un altro giorno, adesso ho paura. Ti prego.

Probabilmente, a suo modo, voleva incoraggiarmi: cominciò allora a gridare spazientito e severo che tutti sapevano farlo e che non ce ne saremmo andati di lì finché non avessi imparato.

Così mi fece rimettere in sella e si preparò a spingermi nuovamente. Io non capivo più nulla. Ero sudato, rosso di disperazione e di rabbia e dentro di me montava un sentimento di odio per quella bicicletta verde che avevo tanto desiderato, che doveva rendermi più uguale agli altri e che invece stava decretando una nuova sconfitta.

Questa volta mi spinse con più forza e per qualche metro la bici restò in equilibrio. Ma non appena mi accorsi che stavo andando da solo mi sentii perduto: non mi restava che cadere, mettendo fine a quella tortura. Così mi gettai a terra, scivolando per un breve tratto sul brecciolino.

Alzati! Svelto, alzati e riprova, gridò tirandomi bruscamente per un braccio mentre mi rimettevo in piedi. Sulle ginocchia spigolose un rivolo di sangue cominciava a mescolarsi alla polvere bianca dei sassi: non era che uno sbiadito riflesso di ciò che in me si era rotto. Mi guardai le mani, gettate avanti nel tentativo di fermare la caduta, anch’esse sporche di rosso; iniziai a piangere, spaventato. Ti prego: ti prego, papà, continuiamo un altro giorno, ora mi fa male, ho troppa paura, non ce la farò mai. Aspro, ribadì che non ce ne saremmo andati fino a quando non avessi imparato. Più piangevo, più mi sgridava.

Più mi sgridava, più piangevo. Rimontai in sella, senza capire più nulla. Ancora una, due, tre cadute. E ogni volta si arrabbiava di più. E ogni volta ero più smarrito. E umiliato.

Con le ginocchia sbucciate, gli avambracci graffiati e il cuore in pezzi feci ritorno alla roulotte. Il vento non soffiava più e improvvisamente il caldo divampava sotto il sole di mezzogiorno. Mi sembrava che il silenzio fosse divenuto d’un tratto più fitto, quasi di vetro. Come se in un istante le voci sguaiate delle donne di borgata si fossero asciugate insieme ai panni stesi e le grida forsennate con cui richiamavano i figli all’ora di pranzo fossero evaporate, insieme agli odori dei sughi, cotti lentamente sui fornelli elettrici. Era per me un silenzio popolato di presenze e di sguardi, nascosti nell’ombra delle siepi e dietro i vetri plastificati delle roulotte. Tutti dovevano avermi visto e ora se ne stavano a tavola, orgogliosi dei loro figli atletici, pronti a ridere di me.

Ci ero riuscito, dopo tanti tentativi. Ma quella misera vittoria non mi dava alcuna soddisfazione: solo un profondo senso di amarezza, indecifrabile e totale. Non mi sentivo bravo per avercela fatta, ma incapace e indegno per ogni caduta, ultimo più degli ultimi, meritevole d’essere preso in giro e insultato.

Da quel giorno c’è sempre una bicicletta che non so guidare, un pallone che non so calciare. Una vita che non so vivere.

Il pronto soccorso è un via vai di gente. C’è un tale concentrato di dolore tra queste pareti che ne sono sopraffatto.

Mio padre è un codice rosso, è passato avanti a tutti. Non mi resta che aspettare, lì seduto in un angolo a contare le sedie e a torturarmi le mani. Perché tra mille ricordi di una vita intera mi tornano in mente proprio quelle estati? Mi giudico duramente, mi detesto, vorrei censurare i miei pensieri: quella della bicicletta non è certo l’immagine più fedele del rapporto con mio padre. È stato anche molto altro. Perché allora proprio quella?

Mentre misuro i miei sensi di colpa, alla ricerca intransigente di altri ricordi, vengo distolto da un magma di voci concitate, provenienti da fuori e da una frenata brusca che annuncia l’arrivo di un’altra ambulanza. Un infermiere si precipita dentro, avvertendo di preparare in fretta la sala operatoria. È un caso grave, evidentemente. Privo di conoscenza, pallido di una morte non ancora compiuta, il corpo di un ragazzo sfila veloce su una barella. Non avrà più di vent’anni. Dietro di lui, si trascina a fatica uno spettro accartocciato, quasi un’ombra.

Suo padre. L’uomo ha sul volto delle lievissime ferite e un’espressione spaurita, che si accentua quando l’infermiera lo blocca mentre tenta di entrare, tutt’uno con suo figlio. Poche file più avanti a me, si siede consumato, aspettando di sapere se suo figlio morirà. Ha una carnagione olivastra e segnata, un colorito terreo e i capelli un po’ ingrigiti, che lo rendono più vecchio di quanto probabilmente non sia. Mi viene spontaneo chiedermi a cosa stia pensando: anche lui avrà ricordi e immagini che lo attraversano disordinatamente. Anni, stagioni, momenti trascorsi insieme al figlio. Quale ricordo gli occupa la mente? Quale priorità, quale decenza, gli suggeriranno l’immagine giusta? Poi mi accorgo che ciò che sto pensando è un gioco folle, distorto, ingannevole: quale momento può essere tanto significativo, da racchiudere una vita intera? Ogni ricordo non é che una sillaba avvizzita. Non c’è ricordo che renda giustizia.

Improvvisamente mi scopro a desiderare che stia pensando a quando suo figlio ha imparato ad andare in bicicletta, senza rotelle. Sarà stato fiero di lui? Si sarà arrabbiato? E comincio a costruire i suoi pensieri, inventandoli come vorrei che fossero.

Sì, è proprio una delle immagini più belle che conserva. Mi racconto di come lo ha guardato allontanarsi per la prima volta su due ruote, padrone di un equilibrio ancora tutto da costruire. Mi chiedo come mio padre pensi a quel giorno d’estate o addirittura se ne abbia memoria. Magari anche per lui è un bel ricordo e pensa a me di spalle, traballante sulla linea orizzontale della strada, per la prima volta senza sostegno e in equilibrio da solo. Come un bambino che se ne va tra i grandi e che comincia un viaggio lungo e difficile. D’un tratto sono di nuovo quel bambino e per la prima volta smetto di fissarmi le ginocchia: sento lo sguardo di papà sulla schiena accaldata, mi volto e lo vedo, fiero di avermi insegnato lui a star su in piedi.

Ma come si fa a non aver paura di camminare senza rotelle?

Come si fa a non aver paura di diventare grandi? E come si fa a non essere arrabbiati con chi ti ha costretto a farlo? Oggi che sono un uomo mio padre lo sta facendo di nuovo: se non esce vivo da questo posto mi avrà tolto ancora una volta le rotelle dalla bici. Se muore mi avrà costretto a diventare un po’ più grande. Solo mi mancherà il suo sguardo che da dietro mi accompagna, maldestro e inadeguato, ma presente.

L’infermiera mi chiama, indicandomi una porta. Entro nella stanza, cercandolo con gli occhi in mezzo agli altri: è lì in fondo raggomitolato su un letto. Il sole entra dritto attraverso i vetri, abbagliante, caldo, assoluto. Apre gli occhi, mi guarda, accenna un saluto. Dentro questa stanza finalmente è maggio.