L'angolo dello scrittore

L’uomo che lavora

_racconto di Giorgio Fontana_

 

L’uomo seduto di fronte ai cancelli della fabbrica, con le mani raccolte e il cappello su un ginocchio, stava lavorando. Non si era legato con catene o corde, non aveva cartelli che parlano della crisi, non fumava e i capelli erano corti, un po’ grigi. Aveva quarantasei anni, si chiamava Diego, teneva il cappello su un ginocchio e stava lavorando.

 

Dieci giorni prima, dopo che Roveda aveva fatto un lungo discorso per spiegare la necessità dei nuovi turni e chiedere a tutti il massimo impegno e la massima elasticità, lui aveva alzato la mano. Nessuno doveva alzare la mano. Ferri, il sindacalista, aveva pregato tutti di stare zitti e buoni perché, si sa, con Roveda erano cazzi — aveva preso il posto del vecchio direttore da sei mesi e già ne aveva licenziati due. In compenso la fabbrica andava, niente da dire. Ma c’era da scendere a qualche compromesso.

Invece Diego aveva alzato la mano e chiesto: “Scusi, ma perché gli straordinari ce li pagate in nero invece che in busta? Non è giusto.”

Si era fatto silenzio. Non potevi contraddire Roveda. Potevi arrivare vestito da clown, se volevi, o anche lavorare strafatto — l’importante era fare il numero di pezzi richiesto — ma contraddirlo, no.

Nel silenzio Roveda aveva sorriso e detto: “Scusa, ma tu chi cazzo sei?”

“Pinotti”, aveva risposto Diego.

“Pinotti. Bravo, Pinotti, bravo. Un applauso per Pinotti, dai, che abbiamo il rivoluzionario! Grande Pinotti!”

Prima erano partite la segretaria e un paio d’altri. Poi tutti gli operai, piano, e quindi in crescendo, e infine il battere di mani aveva riempito lo spazio di fronte agli uffici, e fu come se ogni singolo colpo scavasse nel vuoto del capannone per sottolineare quanto uno dei due uomini avesse ragione, e l’altro — be’, e l’altro fosse semplicemente un idiota.

A quel punto Roveda aveva girato le spalle e se n’era andato.

 

L’illuminazione era arrivata la sera, dopo cena, di ritorno dalla partita di suo figlio al campionato degli oratori. Non sapeva dire perché o come. Di insulti gratuiti e angherie ne aveva ricevute tante — chi non le aveva ricevute? Ogni capo è uno stronzo e ogni padrone è cattivo: queste erano le sole lezioni sul lavoro che aveva appreso dal padre, e aveva avuto modo di verificarle in trent’anni di carriera.

Diego non aveva studiato, quindi i nomi per le sensazioni più complesse gli sfuggivano. Ma da un po’ di tempo pensava di essere una cosa tipo l’italiano medio, le frasi che sente al telegiornale la sera — l’italiano medio che è in crisi, l’italiano medio che però va in vacanza, l’italiano medio che come lui ha due figli e fa un po’ fatica a tirare fine mese — però va in vacanza — e così via. Ma non c’era niente di medio in quel che gli era capitato. A conti fatti, non c’era niente di medio nell’essere umiliati. E non c’era stato niente di medio nemmeno nel suo gesto, nell’alzare la mano.

“Questi parlano solo una lingua”, gli aveva detto un amico vent’anni prima. “La lingua del potere”. Quell’amico aveva studiato. Non era un italiano medio, e se n’era andato dal paese in fretta, ora insegnava in Canada o sa Dio cosa: parlava tre lingue, mangiava gli hamburger ed era felice. Ad alcuni succede, ad altri no. Ma benché a Diego sembrasse uno stronzo, aveva ragione: quelli parlavano la lingua del potere e non c’era modo di capirsi. Un universo separato dall’altro. Non era una questione di gesti, e nemmeno di cattiverie, ma in primo luogo di significati: pezzi di realtà diversi attaccati alle stesse parole: io ti chiedo perché ti comporti male, tu mi dici che non ti comporti male affatto. A dire il vero, Diego era convinto che per loro la realtà non esistesse proprio.

Era venerdì. Per la prima volta, andando a letto, non si addormentò di schianto.

 

I pensieri lo accompagnarono per tutto il sabato e la domenica. Era qualcosa di nuovo che lui cullava come poteva, qualcosa di interamente vergine: un’idea era nata e domandava tutta l’attenzione possibile.

Ebbro di confusione e privo di concetti prese la mountain bike di Alberto e cominciò a girare in paese invece di sedersi al bar come faceva di solito: e ad ogni pedalata era come se anche l’ambiente attorno cambiasse: ora le grida del macellaio al ragazzo che aveva appena preso acquistavano un suono diverso, e così gli spintoni del tredicenne grande e grosso al magretto di due anni in meno: e ancora lo schiaffo di un vecchio al nipote, o il nipote che spintonava il vecchio — ogni particella di potere andava al suo posto in un grande disegno.

Il luogo dove era nato e cresciuto, l’hinterland milanese che niente aveva di bello rivelava nuove sfumature, una promessa di riscatto. Serviva soltanto coraggio.

 

Da lunedì aveva cominciato a sedersi davanti alla fabbrica, per otto ore, a lavorare — cioè a fare l’unico lavoro che ora, era certo, meritasse di essere compiuto.

Adesso era mercoledì. Erano già due giorni di assenza e nessuno aveva detto nulla — non una telefonata a casa, non un richiamo di Roveda, e nemmeno uno dei colleghi cui lavorava fianco a fianco da tanti anni. Ma questo era perfetto, era l’esatta conseguenza dell’idea: siamo soli fino alla fine.

A Marta non aveva detto niente. Che poteva dire? L’avrebbe preso a calci in culo. Era un padre e non avrebbe trovato un altro lavoro nemmeno a pagarlo. Doveva vestire i figli, dar loro da mangiare, mandarli a scuola. “Ti sembra il momento di fare le proteste?”, avrebbe detto. “Scusati e vai al tornio. Non riguarda te, riguarda loro.” E infatti sarebbe finita così, senz’altro — o forse no.

Perché su una cosa Marta aveva torto — non erano proteste — e su una aveva ragione: non riguardava lui. Riguardava i suoi figli. Riguardava cose più grandi cui non aveva mai riflettuto, o che aveva dato per scontate. Il rispetto e il futuro. L’eredità che lui e Roveda avrebbero trasmesso a chi veniva dopo: era una questione morale, il vincitore e il vinto, una questione di buoni esempi.

Quindi Diego non stava protestando, perché non c’era più niente per cui protestare. Da due giorni aveva semplicemente smesso di andare al tornio e adesso sedeva lì davanti alla fabbrica, aspettando almeno di incrociare lo sguardo di Roveda. Non perché sperasse di poterlo convincere, anche solo mostrandosi lì — il potere non conosce appello — ma perché lo annientasse. Era lui il dio, no? E allora doveva a tutti una soluzione. Che scendesse a finirlo.

 

E così, quando durante la giornata alzava gli occhi più in là del suo mondo — la fabbrica, il quartiere industriale, le ultime case del paese — quando alzava gli occhi e cercava qualcosa di più in quell’orizzonte mai pulito, mai piatto, sempre colpito dall’intervento umano, la provinciale, le rotonde, gli enormi ristoranti e i cartelli PRANZO A 9 EURO TUTTO INCLUSO per i lavoratori della zona, gente come lui — quando alzava gli occhi e cercava un segno, un dono del cielo che potesse redimerlo, che rimettesse le cose in ordine, ciò che vedeva era solo il risultato di tanti decenni passati a inseguire la stabilità e il denaro, e che invece avevano portato a quello, un uomo solo che attende la fine e un figlio di puttana che niente capisce: un impero che anche lui, con le sue mani, aveva contribuito a costruire.

Ma ora tutto era diverso. Ora stava lavorando, e di tempo per guardarsi intorno non ce n’era. Quindi tornava con lo sguardo a terra, stringendo un attimo le mani, e ricominciava ad aspettare che qualcosa, finalmente, cambiasse come lui era cambiato.