I racconti del Premio Energheia Europa

L’invasore di Livio Ciancarella

_Racconto vincitore Premio Energheia Libano 2014.

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“Avanti con i corazzati!”
Il generale stava osservando quella terra dai declivi così dolci eppure aspra nella sua connotazione geologica. Il sud del Libano si presentava come una serie di vallette parallele tra di loro e perpendicolari alla linea di costa. Non proprio l’ideale per il movimento di grosse formazioni militari. Gli abitanti sembravano pacifici, ma da quella terra muoveva un pericolo mortale per la sua nazione.
Aveva ricevuto l’ordine di invadere quella terra per impedire al nemico che vi si nascondeva di colpire al cuore la sua gente. Nessuna difficoltà lo avrebbe dissuaso dall’attacco, nessuna remora lo avrebbe trattenuto anche se il nemico ed il terreno non andavano sottovalutati. Un errore che molti suoi colleghi avevano fatto e pagato con la vita.
Anche per questo era pervaso da una volontà di rivincita, dalla determinazione ad infliggere loro una sonora lezione, facendolo rapidamente, in memoria dei tanti caduti.
Si ergeva ritto sul confine, già in vista del villaggio di Rmeich, impavido e noncurante dei rischi, dall’alto dei suoi due metri di statura. Una figura imponente che da sola incuteva timore. Eppure le truppe lo adoravano, riconoscendo in lui il capo ideale, competente, sicuro di sé e fiducioso anche nelle avversità. Aveva combattuto sempre in prima linea e sempre con coraggio: questo i subordinati apprezzavano e ricordavano di lui. In lui non vedevano il borioso teorico della guerra, ma un compagno che si era fatto da solo, con il sudore ed il sangue delle battaglie, che pertanto meritava il suo attuale incarico.
Egli forse se ne rendeva conto, ma non dava mai a vederlo, quasi ostentasse un costante distacco da tutto ciò, in una modestia che strideva con la grandezza, non solo fisica, del personaggio.
Il reparto stava avanzando ora a fianco della sua posizione.
Molti lo salutarono, felici nel vederlo ancora una volta in mezzo a loro.
Il morale di un simile esercito era altissimo e qualunque nemico, anche il più agguerrito e capace, avrebbe avuto filo da torcere nell’affrontarlo.
—-O—-
Il nemico aveva cominciato gli attacchi con una serie di provocazioni, incursioni condotte sempre più in profondità e a colpire quasi sempre inermi civili. Ora la misura era colma. Sebbene la loro organizzazione militare non fosse originaria di quella terra, era su quella terra che essa doveva venir scardinata e battuta per contrastare una volta per tutte la minaccia incombente.
Il consiglio dei ministri aveva dato via libera alle operazioni, stanziando una quantità ingente di fondi per la mobilitazione e dandosi da fare sul piano diplomatico per isolare gli alleati del nemico.
Gli erano stati dati pieni poteri per conseguire l’unico obiettivo strategico: annientare la minaccia.
Tuttavia egli sapeva che tutti questi presupposti erano solo un paravento, una scena per convincere i meno accorti, mentre la guerra era un affare sporco, molto complicato e ancora sporco.
Tanto per cominciare la mobilitazione non sarebbe mai stata completata per i tempi delle operazioni che egli aveva in mente, quindi poteva contare solo sui contingenti già reclutati alle sue dipendenze.
La differenza tra loro ed il nemico era un altro problema. Tecnicamente loro erano forti, capaci e motivati, ma se si fossero spinti troppo in profondità sarebbero rimasti intrappolati in una situazione che avrebbe annullato il loro vantaggio tattico. Inoltre il nemico poteva contare su risorse umane praticamente illimitate. Loro no.
Poi c’era il terreno, nella sua compartimentazione così marcata. Le sue truppe corazzate erano imbattibili in campo aperto, ma in quel labirinto di valli rocciose, di uadi e di boschetti, esse rischiavano di subire gravi perdite.
Ed era proprio questo ciò che egli stava meditando mentre l’invasione cominciava.
Certo, se l’avversario fosse stato così poco accorto da accettare una battaglia campale, sarebbe stato tutto più facile. Ma perché “Loro” avrebbero dovuto danneggiarsi da soli, solamente per semplificargli il compito? Non aveva senso sperarlo e bisognava concentrarsi su ogni singolo centro di resistenza.
Così facendo, però, avrebbero perso soprattutto la risorsa che più scarseggiava: il tempo.
—-O—-
Incontrarono la prima posizione fortificata a Aita-ech-chaab, poche centinaia di metri dopo il confine. I corazzati lì erano inutili e venne fatta avanzare la fanteria. Come egli aveva previsto, lo scontro fu cruento, dimostrò la scarsa preparazione delle fanterie e la vittoria andò agli attaccanti solo dopo numerose perdite.
“Accidenti!”
Il generale era stizzito e nervoso per la conferma delle sue fosche previsioni. Così non andava.
Chiamò subito i suoi subalterni e li sgridò, forse con troppa veemenza, ma la posta in gioco era troppo alta.
Raccomandò loro di non fare l’errore di separare le forze pesanti da quelle leggere e indorò leggermente la pillola ricordando che la loro organizzazione logistica era impeccabile ed avrebbero potuto contare su munizioni praticamente illimitate.
Li congedò infine, quando non ebbe altro da dire. Nessuno avrebbe voluto deludere o spazientire il generale.
L’invasione proseguiva. Doveva proseguire.
Poche ore dopo si trovò in una valle leggermente più ampia che si apriva sul mare prospiciente la città di Tiro. Riconobbe i posti studiati sui libri e finora solo immaginati.
“Arsak! Vedi quelle pozze?” disse rivolto al conduttore del suo carro.
“Sono rare sorgenti di acqua dolce, Ras-el-ayn, antichissime… in uso sin da quando i primi uomini si stabilirono in questa regione.”
Il suo subordinato non poteva capire, non poteva immaginare quanta storia avessero visto quelle sorgenti. Pochi chilometri prima si erano imbattuti in Iskanderouna, i resti della cittadina macedone fondata da Alessandro dopo la presa e la distruzione di Tiro. Un’impresa non riuscita nemmeno al re dei re, il babilonese Nabucodonosor.
Ricordò l’immagine dell’assedio vinto con la costruzione di un pontile artificiale per raggiungere le isole che erano il centro della resistenza fenicia a migliaia di metri dalla terraferma. Un’impresa epica, eroica, un momento unico nella storia.
Nondimeno la storia si ripeteva, quella dolce terra, odorosa di fragranze mediterranee, era di nuovo in guerra. Sarebbero stati capaci di emulare imprese così eccezionali?
Il generale, così capace di infondere sicurezza nei propri uomini, stavolta esitava dubbioso.
—-O—-
L’attacco al secondo forte, a Bint-Jubeil, fu una replica esatta del primo.
Di nuovo subirono perdite che non avrebbero voluto avere, di nuovo la lotta fu sanguinosa, di nuovo egli fu in mezzo e davanti alle sue truppe per incitarle e prendere parte all’attacco in prima persona.
Fecero anche dei prigionieri ed egli li volle vedere.
Non sembravano affatto appartenere a quelle schiere di demoni invincibili che tanto spaventavano i suoi uomini: tutt’al più erano dei ragazzotti coinvolti in un gioco più grande di loro. Almeno questa era l’impressione che la maggior parte dei presenti aveva dei prigionieri.
Ma non per lui. Aveva scorto qualcosa di terribile in quegli occhi: la fredda determinazione a battersi e a non arrendersi.
“Portateli via!”
L’ordine fu urlato più per la propria intima catarsi che per effettiva necessità di comando.
No. Questo nemico non andava sottovalutato.
L’invasione procedeva, con grande soddisfazione della sua nazione, ma con sua crescente nausea.
Osservava da lontano colonne di profughi fuggire dalle loro case, case che bruciavano in roghi appiccati a bella posta, scene strazianti di morti gratuite che sembravano lasciarlo freddo ed insensibile.
Ma solo in superficie.
La notte nella sua tenda si poneva mille domande: se tutto questo fosse giusto, fosse accettabile e per quanto, se avesse un senso…
Quelle stesse notti, nel corso delle poche ore di sonno, le stesse domande miste a sogni premonitori affioravano al limite del subconscio: immagini di schermaglie combattute in modo diverso, dove l’intelligenza avrebbe preso il posto della violenza, né morti né feriti…
Ma la risposta alle sue domande era sempre la stessa, immancabilmente la stessa, ossessivamente la stessa ed era la risposta di chi ha conosciuto troppo da vicino la guerra per cantarne la bellezza. E si trattava di un monosillabo.
Si chiedeva se ci fossero altri come lui, al di qua o al di là della linea, ma sapeva che questa invece era una domanda senza risposta. O meglio, semplicemente, una domanda da non fare.
—-O—-
Ordinò l’alt.
Non aveva senso procedere oltre, nonostante le proteste, le recriminazioni e le minacce dei politici rimasti a casa che già pregustavano una conquista totale.
Che illusi! Ora il problema consisteva nel far capire loro che proseguire l’avanzata avrebbe portato solo ulteriori morti senza alcun vantaggio operativo. Il nemico era stato provocato a sufficienza ed ora bisognava aspettare la sua reazione. Meglio farlo mantenendo tutte le proprie truppe coese ed efficienti, pronte a reagire senza disperderle inutilmente in un territorio vasto ed impraticabile.
Ovviamente non mancò di notare il disappunto tra i suoi subordinati, soprattutto tra i giovani ufficiali.
Questo lo preoccupava meno, però, di un eventuale ordine perentorio di riprendere l’avanzata. Dovevano far tesoro di quelli che erano i loro punti forti e non offrire quelli deboli all’avversario. In fin dei conti la logica delle campagne militari era tutta qui.
Ugualmente, il volto dei prigionieri tornava spesso ad affacciarsi alla sua mente. La riflessione che egli fece fu che vi era una sostanziale differenza tra essi e loro.
Il nemico non faceva mistero di voler sottomettere tutto e tutti al proprio modo di essere e di vivere, senza nessuna pietà o tolleranza per chi aveva, ad esempio, una religione diversa. La sua nazione certo non incoraggiava, ma tollerava diverse confessioni che andavano onorate tutte. Non così per il nemico che costituiva anche per questo una minaccia mortale.
Allora avevano ragione i burocrati di casa sua che volevano l’annientamento dell’avversario?
Egli era fortemente dubbioso, ma più si sforzava di trovare ragioni e meno chiaramente i contorni del problema etico gli apparivano. Solo una cosa gli era apparsa chiaramente: la necessità di mantenere un controllo ferreo sul suo contingente, altrimenti sarebbe stato lo sbando, la sconfitta.
Sapeva di essere a disagio, per tutte le brutture che la guerra significava, ma sapeva anche che nessuno avrebbe potuto evitarle meglio di lui.
A volte ti prepari per tutta la vita ad affrontare un evento e quando ti ci trovi dentro nulla è più come ti saresti aspettato.
E devi improvvisare, cosa che egli odiava fare.
—-O—-
Finalmente il nemico uscì allo scoperto offrendogli l’occasione tanto sperata.
La battaglia campale che ne seguì fu una grande vittoria, una vittoria memorabile conseguita contro ogni pronostico.
Aveva trionfato, ma i suoi dubbi non erano svaniti, anche se li celava accuratamente.
—-O—-
A bordo del suo carro, condotto dal fedele Arsak, passò in rassegna le schiere delle sue truppe: i catafratti corazzati, gli arcieri a cavallo, le fanterie giudee alleate e anche i cammellieri che tante frecce avevano portato ai guerrieri impegnati in battaglia. Fu una grande soddisfazione, ma fu anche l’ultima.
Venne richiamato in patria e le cose precipitarono, ma stranamente non ne fu sorpreso.
Rostam Surena Pahlavi, comandante dell’esercito dei Parti, vincitore dei Romani a Carre nel 53 a.C., latore della testa e delle mani di Marco Licinio Crasso, aveva appena gettato ai piedi del suo re Orode le insegne delle legioni romane sconfitte quando venne fatto arrestare per ordine del suo stesso sovrano.
L’accusa non importava. Nulla importava più, ormai, tranne una cosa.
Legato ed inginocchiato davanti al carnefice, divenne conscio che i suoi pensieri, maturati in una terra dai dolci declivi e dalle odorose fragranze, pensieri comuni a mille altri generali prima e dopo di lui, avrebbero avuto finalmente la giusta considerazione presso Ahura Mazda, l’inizio e la fine di ogni cosa, il Signore della vita che stava per incontrare.

rostam2Rostam Surena Pahlavi, con il ciondolo del Faravahar-spirito guardiano,
Museo nazionale di Teheran.