I racconti del Premio Energheia Europa

La custode dei miei segreti, Malo Heil

Menzione Premio Energheia Francia 2023

Traduzione a cura di Antonietta Dartizio

Cara Sinna, oggi Papà è morto.

Credono tutti che io l’abbia ucciso. Se solamente fosse vero.

Ma è morto solo al mondo, come una bestia ferita. Solo con la sua rabbia.

La sua ultima preda gli è sfuggita. Io sono scappato. Lontano da lui, lontano dalla tana del mostro. Il solo sangue che arrossisce le mie mani è quello della mia innocenza, di quegli anni di tortura e di supplizio. Io non l’ho ucciso, ma una parte di me è morta quella notte, con lui.

Quella notte in cui avrebbe potuto divorarmi. Mi aveva ancora condotto nella «camera».

Come sempre, aveva richiuso la porta, e lasciato la chiave sulla serratura. Sapeva che io non sarei scappato.

Ma qualcosa non andava. Non era come al solito. I suoi occhi bruciavano di rabbia e di pazzia.

Il suo pugno era talmente chiuso che sembrava pronto a scoppiare. Mi guardava come se stesse per uccidermi, o deliziarsi di me con un appetito ancora più vorace del giorno prima. Ogni giorno mi divorava un’altra volta. Ogni giorno, lasciava un’impronta un poco più profonda. Un succhiotto viscido, là dove nessuno dovrebbe mai guardare. Un graffio gonfio, là dove la carne è tenera e ben nascosta. «Non aver paura», diceva. «Gli altri non capiscono fino a che punto io ti amo». Era il solo modo per calmare la sua rabbia. Di meritare ogni giorno la mia salvezza con il sacrificio del mio corpo. «Tu devi aiutarmi. Sei il solo che può aiutarmi.» Assetato come un vampiro beveva lentamente al calice della mia sofferenza. In quella stanza oscura, dai muri consumati dalla muffa. Delle mattonelle di pietra ingiallite, un letto di legno. E sempre le stesse lenzuola bianche, logorate dagli anni e tinte di rosso dalla pazzia. In quella caverna disgustosa, una sola luce. Una sola apertura. Una finestra chiusa con le sbarre, ultimo sadico cenno al mondo esterno. Voleva che io la guardassi sempre. Che il mio viso si immergesse in quella luce.

Che le mie orecchie sentissero il canto degli uccelli e la melodia delle stagioni. Chiedere aiuto?

Solo gli alberi e il cielo avrebbero sentito le mie grida, e io non volevo dargli questo piacere.

Quella sera, le cose erano diverse. Sul suo viso deformato dalla rabbia e dalla sbornia, io leggevo infelicità e sofferenza. Una furia insaziabile bloccata in una maschera diabolica.

Per la prima volta, lo vedevo così com’era. Orribile. Abominevole. Ripugnante.

Per la prima volta, lo guardavo così com’era. Non dimenticherò mai quella visione dell’orrore.

Quella gola semiaperta per la fame, quella di una bestia ansimante e febbrile, perforata da denti pronti a mordere e affilati su una carne tenera di innocenza, che si bloccava in un sorriso che non aveva più niente di umano.

Quella fronte nodosa e ispessita dalla voglia, dalla quale sgorgavano già alcune gocce di sudore schifoso e umido. E quegli occhi. Quegli occhi mostruosi. Quello sguardo bestiale, tipico della rabbia di una razza degenerata.

Due globi di terrore e di desolazione, pronti ad ingoiarvi in una eternità di dolore. In fondo a quegli occhi gialli, non vedevo che il fuoco pronto a consumarmi. Un braciere di pazzia e di violenza distruttrice. Il riflesso di un inferno di sofferenza in cui la pietà non aveva posto. Quegli occhi erano anche i miei. Nella sua pazzia, vedevo la mia. Quella pazzia senza fine che si chiama infelicità. Nella sua infelicità, vedevo la mia. Una infelicità di uomo in un cuore di bambino.

Per la prima volta, l’ho guardato. Ho guardato negli occhi l’orco che stava per divorarmi. Un istante, ho mescolato la sua sofferenza alla mia. Diventando tutt’uno con lui, volevo che capisse. Che leggesse nei miei occhi ciò che leggevo nei suoi. Che si vedesse finalmente com’era, e che mi vedesse finalmente come mi aveva fatto.

E il mostro è crollato davanti a me. Colpito da una crisi di demenza, era rannicchiato a terra, senza fiato e scosso da atroci convulsioni. Si torceva come un cadavere disarticolato. Aveva perso ogni controllo su se stesso. Io non riuscivo a credere allo spettacolo cinico e terrificante che si consumava sotto i miei occhi. Quell’essere così forte e così sicuro della sua forza, prodigio di crudeltà e perversione, sconfitto come un vecchio storpio, che gesticolava davanti a me come una bestia sconvolta. Non ho riflettuto. Sono scappato. Dopo aver richiuso la porta dietro di me, ho corso con tutte le mie forze. Ho corso fuori da quella casa maledetta, che mi aveva strappato tante grida e lacrime, senza girarmi. Fino a perdere il fiato.

Sto per partire, Sinna. Qua non mi trattiene più niente. Lascerò dietro di me questa storia, la nostra storia, che riposerà per sempre nel limbo dei nostri ricordi. Non mi hanno creduto. Poco importa quello che raccontavo loro, quello che mostravo loro. Per loro io non sono che un pazzo, come lo sono sempre stato. E ora, l’ultimo ramoscello di una vendetta maledetta. Se non parto, chi sa cosa può accadermi qua?

È finita. Per te come per me. Ora, bisogna vivere. Insieme. Non ti dimenticherò mai. Finché potrò ricordarmi, non ti dimenticherò. Tu, Sinna, mia sorella. Compagna del mio dolore, custode dei miei segreti.

Anche se tu non esisti.