I racconti del Premio letterario Energheia

Kismet_Resmie Hallulli, Altamura(BA)

_Racconto finalista ventunesima edizione Premio Energheia 2015. 

 

bazaarOsservo.                                                                                                                    Chissà dove sarà. Magari è nascosta dietro quegli alberi o in una di quelle pietre, in uno di quei profondi buchi dove le lucertole costruiscono le loro case. Probabilmente si è sdraiata e le spighe immature del tritico la nascondono alla mia vista che già è debole. Forse dovrei lasciar perdere e arrendermi e dar ragione a quelli che dicevano che ormai era morta, estinta, o adirittura nemmeno esistita. Eppure io so che c’è, e la sento perfino prendersi gioco di me quando credo di averla scoperta, come se dal principio sapesse che nessuno potrebbe mai scovarla. Penso che si sia mimetizzata colorandosi il volto con la terra e ricoprendosi i capelli di timo, papaveri e chissà quali altre foglie e fiori. Inaspettatamente avverto dietro il pruno al mio fianco un suono di passi furtivi e ricordo che l’oggetto della mia ricerca adesso è Valja, la quale è a un atomo di distanza dall’albero sul quale deve battere il palmo della mano per vincere la battaglia. Pensandoci Valja non ha bisogno di indossare la terra per confondersi e mascherarsi da tronco. Sua madre e suo padre le hanno donato una pelle d’ocra, capelli di catrame e occhi sempreverdi, per non parlare di quella voce antica quanto i viaggi dei suoi avi per il mondo. Fra tutti gli zingari che conosco lei è senza ombra di dubbio quella più strana, e alta. Conosce una miriade di erbe, sa spaccare la legna e balla come una sciamana in estasi. Il più delle volte parliamo lingue inventate, frutto di sillabe che vengono in mente al primo colpo, e pensiamo di capirci molto di più in questo modo che in altri. Non ama particolarmente la scuola e ogni volta che le domando dove è stata e perchè non è venuta, mi dice che ha studiato altrove quel giorno, che ha letto questo o quel libro bruciandolo nel fuoco, che ha scoperto una nuova danza e sa suonare un altro strumento, che ha parlato con Dio e con un gatto. Una volta mi ha anche fatto un incantesimo che, stando alla sua  traduzione della formula magica, mi avrebbe portato una buona fortuna, e per quanto mi sforzi di ricondurre alla luce l’ultimo termine che aveva pronunciato con tanta solennità quella sera, proprio non riesco a ricordare. Per quanto conosco Valja, so che se le chiedessi ora di ripetere quella sentenza sarebbe un atto inutile, dato che detesta ripetere le sue formule più di una volta, specialmente quando le crea nel medisimo istante in cui le recita, e poi non vorrei farla innervosire proprio l’ultimo giorno che dorme qui. Domani lei e la sua famiglia ripartono, dove non si sa o, meglio, non ha voluto dirmi il nome della sua prossima meta e le uniche parole sensate, se così possono definirsi, che sono riuscita a cogliere del suo parlare assurdo sono <<dasvi>> e <<dania>>. Se poco conosco le terre e gli stereotipi che in esse l’uomo semina, Valja sarebbe andata verso Est. Conosco quanto basta uno di quei paesi che si trovano oltre l’occidente, poichè sono in parte prole di quella regione che a tratti raggiungo quando ne ho l’occasione. Anche lì stavo cercando ciò che ancora non riesco a trovare e mi era sembrato di intravederla nel canto di un muezzin in una caldissima notte d’estate. Il sole sarebbe sorto a breve e per tutto quel tempo non avevo chiuso occhio a causa della figura spettrale che aveva assunto la madre di mia madre, la cui immagine nel buio mi parve per un attimo quella della morte stessa. Quella donna secolare sapeva involontariamente come terrorizzarmi quando posava il suo  corpo scheletrico su di un letto vecchio quanto il mondo. Ero in preda ad un’ansia paralizzante, la quale tuttavia si dileguò immediatamente al suono di quella voce soave che i fedeli di un qualche credo attendono per la prossima preghiera. Quasi certamente l’attendevo anch’io, nella convinzione che quell’uomo,dall’alto di una moschea,invocasse la luce che avrebbe scacciato i miei mostri. In quel canto non solo sentii riaffiorare la serenità derivante dalla certezza di poter assistere ad un nuovo giorno, ma vidi anche muoversi furtivamente la sagoma di ciò che, alle volte, gli stessi culti umani hanno cercato di uccidere.

Ecco, Valja ha toccato il pruno prima che la potessi bloccare. Sarà che ho perso perchè ho lasciato correre troppi pensieri e farsi troppi pensieri, a quanto pare, significa battaglia persa. Ma va bene, se per una volta vince lei, specialmente se è l’ultimo dei  giochi che facciamo, è un destino più che giusto.  Ora dobbiamo rincasare entrambe, e ci incamminiamo lungo la strada che conduce fuori da questo campo di grano ancora giovane. Questo posto sarà diverso senza la presenza di una gitana che fa magie. Chi darà vita alle pietre, chi parlerà con il vento? Chi canterà e ballerà con la povera cicala quando l’inverno sarà arrivato ? Scommetto che anche Valja si domanda tutto ciò mentre attraversiamo in silenzio la via sulla quale abbiamo lasciato le nostre impronta. Il suo volto illuminato dagli ultimi raggi del sole è più arcano del solito e forse il suo sguardo lascia sfuggire una certa tristezza che tuttavia si perde nella smisurata gaiezza di cui è fatta. Valja mi ha fatto promettere di dirle addio e così l’accompagno fin dove saremo costrette alla dipartita. Il punto è che non so come si possa dire addio. Insomma, quando arriva il momento di farlo, le corde vocali sembrano spezzarsi come fili d’erba nelle mani di un ragazzino agitato e perfino gli occhi che non stanno mai zitti ammutoliscono e diventano sterili, come il suono che si propaga nei timpani di un sordo. E questo è proprio quello che accade, mentre lei mi abbraccia per un’ ultima volta con tutta la forza che ha in quel corpo da donna tutta d’un pezzo. Credo che mi stia dicendo qualcosa, un buon augurio forse o uno dei suoi incantesimi da negromante del momento. Ma io sono sorda e muta, e mi arrendo alla convinzione che questo sarà l’ultimo ricordo che Valja avrà di me.

Il suo carro è già parecchio distante e un vecchio con un turbante bianco si avvicina per chiedermi chi sono quelle persone e dove stanno andando. Io gli spiego che non ne ho la più pallida idea, il che è vero in parte, perchè tutto quello che so di Valja e della sua famiglia è probabilmente un’invenzione. Eppure ciò non mi addolora. Io so che lei non ha mai mentito quando risvegliava la luna con i suoi richiami in lingue che solo gli dei conoscono; so che non ha mai finto di danzare con il cielo e con le formiche e di riposare con i lupi in una caverna dispersa in chissà quale foresta. Tutto questo è vero, come è vero che lei facesse magie invocando l’anima di carcasse di treni e aiutasse affanosamente una scarpa lercia ed abbandonata a trovare la sua compagna in una discarica vasta quanto l’oceano. Ma ora è tutto finito. Lei sta andando via e sento che non la rivedrò finchè un’altra vita e un’altra epoca ci riuniranno. Quell’ arcaico vecchio è ancora qui e forse sta cercando di capire, come me, in che modo lasciare quel posto senza dover necessariamente salutare , senza dover dire necessariamente addio. E così mentre guardiamo per l’ultima volta la polvere lasciata dal carro all’orizzonte di questa desolata periferia, egli dice qualcosa nel dialetto dei suoi padri di cui riesco ad afferrare solo una parola. Si, è proprio quella parola, il suono è lo stesso, perfino il tono con cui è stata detta è identico. Valja l’aveva usata per formulare il suo abracadabra su di me e adesso posso essere certa che lei sarà in tutti gli anziani e in tutte le periferie deserte che incontrerò nel mio cammino. Ora posso anche gridare addio, gridarlo con tutte le mie forze, poichè adesso non ha più alcun valore.

<<Addio!>> urlo, <<e Kismet anche a te! .. qualsiasi cosa voglia dire>>.

Saluto allo stesso modo il vecchio decrepito che tuttavia sembra essersi allontanato già da un pezzo e mi dirigo verso quella che dovrei chiamare casa. Mi hanno sempre detto di non guardare in basso mentre cammino, ma il nero di questo catrame allo sfacelo è davvero interessante quando tutto il resto appare così monotono. E cosa possono essere le crepe nell’asfalto se non la volontà della terra di disfarsi di un abito così scomodo?  E per quale motivo l’edera dovrebbe crescere in questo bitume se non per mostrare all’umanita la vacuità e l’impotenza delle sue creazioni?  Eppure l’uomo è tale grazie alla sua facoltà di creare, di generare simultaneamente bellezza e mostruosità, di costruire nella realtà uno spazio per i propri sogni. Dunque che cos’è che rende le utopie della nostra specie tanto vuote alle volte? Forse è quell’atto stesso di stabilire dei confini fra gli spazi, forse sono quelle medesime mura di cui ci siamo serviti per proteggere i nostri ideali che hanno finito per sovrastarci ed inghiottirci, ribaltando ciò che è del mondo e ciò che è nostro. Ed ecco che da allora in molti la cerchiamo, sperando eventualmente di porre fine al suo smarrimento, e al nostro.

Smarrirsi, già. Temo sia proprio quello che sta per accadermi dato che cammino  in un viottolo di cui, fino ad un secondo fa, ignoravo l’esistenza. Non mi meraviglio più di quanto facilmente perdo la familiarità che con strade che percorro diverse volte nello stesso giorno, ma potrei giurare che questo viottolo è qui perchè l’hanno costruito oggi o è semplicemente frutto di una mia visione. Entrambe le ipotesi mi sembrano decisamente ridicole, fatta eccezione forse per la seconda; ma sono sicura di non aver assunto nulla che possa alterare la mia già guasta percezione della realtà. Stabilito ciò, non posso far altro che proseguire lungo il sentiero e osservare stupita le abitazioni misere e decadute che lo circondano. Di sicuro questo posto non è stato edificato oggi e tantomeno una dozzina d’anni fa. Le case sembrano portarsi addosso il peso di secoli di intemperie e razzie di ogni sorta, sebbene ciò che mi inquieti maggiormente è l’assenza di gente o di una qualunque forma di vita. La consapevolezza di trovarsi nella più assoluta delle solitudini mi fa rabbrividire al punto che non non posso impedire al mio corpo di correre, cercando disperatamente una via d’uscita che mi riconduca dal baccano delle macchine e dalla moltitudine dei singoli che accetta di vivere in compagnia la propria individualità e indifferenza. All’improvviso devo abbandonare questi pensieri dato che qualcuno sta urlando alle mie spalle. Rivolgo lo sguardo indietro per avere una chiara immagine del mio ipotetico assassino e penso che non ci sia creatura più bella. Penso che potrei anche accettare di morire per mano sua e non mi dispiacerebbe se quel volto fosse l’ultima cosa che vedo prima di farla finita.  l colori della pioggia e del muschio si intrecciano nei suoi occhi che contrastano così intensamente con la carnagione ambrata e i capelli corvini; poi, il suo sorridere  inaspettato mi dà la certezza che gli sarebbe difficile impugnare un coltello anche solo per sbucciare un’ arancia. Non posso fal altro ora che gridargli qualcosa in risposta allo strillo che aveva emesso qualche istante fa, così gli chiedo di svelarmi il suo nome.  Tuttavia egli è  completamente immobile, al pari di una statua, e non sembra che abbia intenzione di soddisfare la mia domanda. Allora mi avvicino, giusto per assicurarmi che non si sia realmente trasormato in pietra.

<<Hai davvero così paura della solitudine?>> mi chiede. Non so cosa dire. Non credo di temere l’idea di poter essere l’unico supersite della vita in un pianeta deserto, ma mi riesce impossibile anche solo immaginare un dialogo tra me e la coscienza del mio ego. Il perchè non lo so, credo. Sento solo di aver bisogno dello schiamazzo della gente nelle strade, dei passi fastidiosi dell’affittuaria al piano di sopra,del rumoroso scarico di merci del negozio accanto, del frastuono delle campane che segnano le ore andate, del blaterare di personaggi in scatole costantemente accese.

<<Non avere timore di perderti nel silenzio, potresti trovare quello che stai da lungo tempo cercando>>. Sono sbalordita. <<Come sai che sto cercando qualcosa?>> domando. <<Beh, non so. Non è quello che facciamo tutti? Prendi me ad esempio. Ho  lasciato i Ghati per scovarla, e per tutti questi anni di lei nessuna traccia. Ma adesso ecco , tu sei qui, come me, e tutto è semplice. Che strano destino è il tuo, e il mio. Qualcuno deve avercelo benedetto. Abbiamo cercato abbastanza sulla superficie, è giunto il momento di guardarci dentro.. Ora però devo lasciarti, è quasi l’alba dove sto per andare. Ti rivedrò quando l’avrai trovata, è il buon fato che ti è stato augurato a dirmelo..>>.

Sta andando via, solo Dio sa dove. Suppongo che volti il suo sguardo verso di me per  un’ultima volta. Dai suoi occhi cadono lacrime. Non saprei dire quale emozione le abbia provocate e sento gridargli che non ha un nome, così come quella cosa che cerchiamo non ha un nome che le si addica, poichè essa è tutto e il nulla. Egli guarda infine davanti a sè e prosegue il suo cammino fondendosi nella nebbia del mattino.

Sono sola adesso, sola con me stessa e con tutto quello che non conosco. Ora mi rendo conto di non averla mai cercata come si deve . Pensavo che la Verità si trovasse nelle pagine di un libro, nel canto di una zingara, nel pianto di un bambino che ha fame, nella tradizione dei vecchi, nello scorrere del Krishna e del Nilo, nel bacio di due amanti, nelle perdite dei tubi, nelle fessure dei muri. E avevo ragione, la Verità si trova in ognuna di queste cose. La Verità si trova in un verme, in un addio e nelle stelle, nelle cose più distanti. Ma avevo bisogno di conoscere quella sua parte che si trova in me, nelle mie profondità, che si risveglia quando me ne sto in silenzio e lascio dialogare in santa pace me e  la coscienza del mio ego.

Non credo si possa indicare un modo per trovare la Verità. Ognuno la coglie seguendo il percorso del suo destino e, quando meno te lo aspetti, riesci a distinguere in lontananza l’eco del suo nome cantato da un lupo. Ora, non mi rimane che ritrovare il ragazzo dei Ghati e chissà che, se il kismet lo vuole, con lui ci sia anche Valja, la gitana con timo e papaveri nei capelli mossi dal vento.