I racconti del Premio Energheia Europa

In ordine, Pablo Hernández Palazón

Menzione Premio Energheia Spagna 2023 (ex aequo)

So dove sono, ma non so dove sia questo posto. Quando mi sono svegliato un’ora fa, ero rannicchiato sul pavimento, con un’insidiosa sbornia martellandomi il cranio. Sostenendomi con le mani per alzarmi, ho notato la consistenza ruvida della superficie. Era– ed è tuttora, – di legno grezzo come quello di un bungalow o di una vecchia soffitta. In alcune delle lastre grandi, nodi concentrici come occhi scuri formati dal tempo osservavano i miei movimenti attentamente.

In una prima spinta di entusiasmo, mi sono rallegrato, del fatto che alla fine avessimo deciso di mettere il parquet, che era ciò che avevo sempre voluto perché è più organico e naturale delle piastrelle, anche se non sono mai riuscito ad impormi su mia moglie. Lei lo respingeva in pieno, una e l’altra volta perché era un materiale molto delicato. Se lei puliva e metteva in ordine, lei prendeva le decisioni: in questo consisteva la sua argomentazione. Quindi mi sono stupito di non aver fatto caso per giorni al trambusto dei lavori e dei muratori e dei trapani pneumatici per togliere le piastrelle e mettere il legno. Mi guardai intorno in cerca di una risposta all’enigma.

Una luce polverosa s’intrufolava da un lucernario del tetto inclinato. C’erano scatole senza sigilli e scaffali pieni di cianfrusaglie di ogni tipo: libri, calze, foto incorniciate, borse, telefoni, figure di ceramica pacchiane, chiavi. Non ho avuto dei dubbi: ero, e ancora sono, nel ripostiglio segreto di mia moglie. 

Fino ad ora l’esistenza di questo spazio fluttuava nell’ambito di congetture, ma ora le circostanze dissipano ogni sospetto. Dopo una breve ispezione ho trovato una moltitudine di oggetti perduti da tempo, tutte le cianfrusaglie di maggior o minor valore che mia moglie, dal giorno in cui andammo a vivere insieme quindici anni fa, mi rimprovera di aver lasciato da qualche parte.

Ho trovato l’accendino zippo ereditato da mio nonno e che di solito lasciava in mezzo alla cassa panca all’ingresso. Fu il primo a scomparire dopo che mia moglie insistette che il posto giusto fosse nel cassetto del corridoio e lo avesse messo davanti ai miei occhi, in modo dimostrativo e lento, con un movimento teatrale e quasi beffardo, come qualcuno che insegna un semplice gesto a un bambino un po’ ottuso. Un giorno, non trovandolo in quel luogo che, secondo l’ordine stabilito da mia moglie, non le apparteneva, cioè il piano del cassettone all’ingresso, diedi un’occhiata al cassetto del comò e non lo trovai neanche lì. Indagai negli angoli e dietro a entrambi i mobili, li trascinai avanti per vedere se per sbaglio era caduto dietro, ma niente. L’accendino Zippo di mio nonno, con cui accendeva le sue pipe country sulla sedia a dondolo (me lo ricordo ancora mentre espelleva nuvole di fumo), si era volatilizzato.

Dopo questa prima scomparsa, si accelerò l’evanescenza di tutto ciò che non era al suo posto legittimo. Fu una progressione lenta ma inarrestabile. Dopo quindici anni, ancora tremavo quando mia moglie pronunciava la sentenza: “Quello non va lì”. All’inizio, quando arredavamo la casa, lasciava ancora qualche margine di trattativa per i nuovi oggetti. Inoltre, mi concedeva una tregua di due o tre avvisi per salvare, ad esempio, la rivista automobilistica che avevo lasciato sul tavolo nella sala da pranzo, prima che si smaterializzasse come se non fosse mai esistita. Tuttavia, col tempo ogni cosa – tanto quelle che già possedevamo come qualsiasi altra cosa che avessimo incorporato a casa nostra- acquisì delle coordinate inamovibili. Lei aveva un piano preciso per qualsiasi eventualità. Se si comprava un vaso di fiori, doveva essere disposto accanto agli altri, in modo che l’insieme corrispondesse all’angolo d’incidenza della luce al tramonto; lo spazzolino da denti doveva essere posizionato parallelamente al bordo del lavandino per non creare “dissonanze geometriche”, come le chiamava lei. Non si stancava di ripetermi che ero sbadato e che lasciavo le cose sparse ovunque, senza alcuna considerazione per i suoi continui sforzi per mantenere l’armonia in casa.

Sapevo che i poveri oggetti non si dissolvevano nell’etere, ma che era stata lei a sottrarli, ma amavo – e amo – mia moglie; non chiedetemi perché. Però questo implicava adattarmi alle sue necessità. Ognuno ha le sue fissazioni, giusto? Provavo ad accontentarla per amore e rispetto, ma non andava del tutto bene. In qualcosa ha ragione mia moglie, e cioè che sono molto distratto. Nella mia paura di dimenticare il posto dove andasse la tazza con le stelline blu, lasciavo il cellulare sul piano di lavoro della cucina, tornavo nella mia stanza e quando me ne rendevo conto era già troppo tardi. Tornavo di corsa in cucina, ma il cellulare era sparito. Il periodo di grazia prima dell’esecuzione della sentenza, la stessa in tutti i casi, andava diminuendo; non erano più giorni, ma ore o, addirittura, minuti di disordine che decidevano il destino di qualsiasi oggetto fuori posto: la soppressione immediata.

Arrivati a questo punto, ho pensato più volte di parlarle, ma mi sono tirato indietro. Anche se mi pesa ammetterlo, ha iniziato a intimidirmi negli ultimi anni. Ricordo come una volta, mentre stavo annaffiando le erbe aromatiche sul terrazzo, mi caddero a terra alcune gocce. All’improvviso, mia moglie si materializzò accanto a me. Gli occhi fissi su quelle macchie d’acqua con furia appena contenuta, la mascella serrata, tutto il viso, così dolce e placido quando tutto è in ordine, si indurì e si affilò come quello di un androide assassino. Corsi in cucina a prendere lo straccio per riparare il torto e poi capì il mio errore: avevo lasciato l’annaffiatoio sul pavimento del terrazzo. L’annaffiatoio non doveva essere lì, ma nel soppalco della cucina. Riuscì a scorgere quel dannato innaffiatoio blu celeste, attraverso le porte scorrevoli di vetro ed ebbi la sensazione che quei pochi metri rappresentassero una distanza insormontabile. Mia moglie girava freneticamente la testa tra l’annaffiatoio, le gocce d’acqua e il panno che avevo in mano come se stesse per svitarsi e schizzare fuori dalle sue spalle da un momento all’altro, i suoi occhi ruotavano e io, paralizzato dal terrore e paura di peggiorare le cose semplicemente muovendomi, non vidi che dallo straccio umido che tenevo stordito in mano altre gocce fatali cadevano sul pavimento della cucina, una goccia, un’altra goccia, formando una chiazza di ceralacca sulla mia sentenza definitiva.

Con mio grande stupore, questa “catastrofe” non comportò grosse conseguenze. Pulii i danni, rimisi a posto l’annaffiatoio e il viso di mia moglie tornò a una sembianza di normalità. Non ci furono ripercussioni né rimproveri. Almeno, non all’inizio, perché, data la mia situazione attuale, sospetto di aver superato il limite in quel giorno agli occhi di mia moglie. Dovetti aver oltrepassato una linea dietro la quale si trova il nemico: il caos. Un agente del caos. Questo dovrei essere sembrato ai suoi occhi.

In ogni caso, insistetti più che mai a mantenere l’equilibrio e la simmetria in quel tempio dell’ordine – il suo ordine, perché a me non è mai sembrato del tutto logico – che era diventata la nostra casa. Non mi importava dove mettevamo le cose, l’essenziale era che si sentisse bene. Mia moglie mi sembrava più fragile in questo senso, più dipendente da quel fattore esterno di me. Di conseguenza, toccava a me scendere a compromessi con quella sua fragilità, così come lei accettava i miei sbalzi d’umore o improvvise fantasie avventurose. A poco a poco, persino io mi abituavo a ragionare con la sua visione organizzata del mondo. Sono lusingato di ammettere che avevo quasi raggiunto l’apice della perfezione, vi ero quasi vicino, eppure, sempre commettevo qualche imperdonabile negligenza che smentiva amaramente sia le mie sia le sue speranze. Schizzi di sugo sull’armadietto delle spezie. Le infradito in mezzo al corridoio. Macchie di dentifricio sullo specchio del bagno (lo so, questo è molto comune). Era come una lingua straniera che non ero in grado di parlare bene, o come uno sport in cui non riuscivo a superare un deficit genetico stigmatizzante. Non so quanti soldi avrò speso per sostituire gli oggetti spariti come sanzione per la mia negligenza nell’ordinare. Immagino, ai suoi occhi, che fosse la multa dovuta per le mie infrazioni. 

Dopo “l’incidente”, passarono mesi  che considerai una calma stabile. Con i miei sforzi raddoppiati riuscì a ridurre il numero di oggetti scomparsi a un minimo accettabile. Adesso capisco che, se non ci fossero stati più esplosioni di frustrazione e volatilizzazioni istantanee, era perché mia moglie non provava più a convertirmi al suo sistema. Era in agguato. E l’opportunità le arrivò. 

La sbornia che avevo quando mi sono svegliato un’ora fa mi è quasi passata. Mi vengono in mente i ricordi di ieri, quando sono andato a una cena di vecchi alunni della facoltà di diritto. Molta gioia per le brillanti carriere dei compagni, molto vino e champagne, fiumi di alcool di tutti i cromatismi e gradazioni. Sono tornato a casa tardi barcollando come un professionista di slalom. Le luci erano spente e non ne ho accesa nessuna per non svegliare mia moglie. Sono inciampato davanti al salone e sono caduto come uno stupido. Non so se il materasso di etile abbia anestetizzato il colpo, ma non mi sono fatto male. Al contrario: ho avuto la sensazione di sprofondare in un letto soffice. Mi sono rannicchiato sopra il tappeto e devo essermi addormentato sul colpo. 

Immagino la faccia di mia moglie alla mattina nel vedermi steso in mezzo al salone come un vecchio rottame: un sorriso storto e soddisfatto, da cattiva, e, allo stesso tempo, un mare di tristezza negli occhi. Nella sua logica universale, c’era solo una soluzione possibile per questo disastro. Era la conseguenza naturale dopo quindici anni di provare a raddrizzarmi senza risultato. 

Così sono finito in questo ripostiglio, suppongo. Stavo cercando una via d’uscita però, tranne il lucernario, che è troppo alto per arrivarci, non sono riuscito a trovare né botole, né porte nascoste. Per fortuna, qualche anno fa dimenticai all’ingresso di casa una borsa della spesa con fagioli in scatola e polpette; un amico del lavoro mi chiamò al cellulare proprio mentre stavo arrivando, la lasciai lì e la conversazione si dilungò. L’ho trovata sullo scaffale in fondo a questo recinto, così potrò resistere per un po’. Coglierò l’occasione per ricordare gli ultimi quindici anni di convivenza attraverso questi vecchi oggetti. Ho visto una maglietta dei The Cranberries, un residuo della mia adolescenza, in cui non entro più. E’ tutta piena di ragnatele. Forse troverò qualche altra sorpresa. Spero solo che mia moglie si ricordi di me e torni presto a riprendermi. O almeno che venga a lasciare in questa soffitta qualche oggetto fuori posto e abbia pietà di me. Poi dirà con il sopracciglio alzato come una maestra burlona: “ Ehi! Che ci fai qua?” Ho pensato che fossi un sacco morto quando ti ho visto a terra e ti ho messo qui per non creare intralcio. Dopo l’ammonimento, mi toglierà dalla categoria degli elementi intrusi nel suo cosmo iper-strutturato; mi tornerà ad accogliere come componente ineludibile e addirittura stimolante, perché un mondo senza un po’ di caos non è più che una stella morta.

Soltanto temo una cosa. Adesso che non ci sono io a casa per seminare un umile disordine, e se non rimanesse nulla fuori posto, nessun oggetto discordante che tolga mia moglie dalla sua monotona armonia, dalla sua tranquillità uniforme e oleosa? Temo che, abitando da sola, mai piú trovi un rottame da portare a questo luogo. Dovró razionarmi i fagioli.