L'angolo dello scrittore

Il Libano alla prova del tribunale Onu

 Affari Internazionali  9 Dicembre 2010 di Marina Calculli

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Il Libano è ancora una volta cifra dei fragili equilibri mediorientali. La crisi politica che attraversa il Paese dei Cedri è legata alle incriminazioni per l’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri che il Tribunale speciale per il Libano (Tsl), istituito dall’Onu nel 2005 con l’incarico di individuare i responsabili, sembra in procinto di formulare. Da tempo si ritiene, infatti, che ad essere incriminati per l’attentato dell’ex premier possano essere alcuni membri del movimento di resistenza Hezbollah (Partito di Dio), con un possibile richiamo indiretto al ruolo svolto dalle autorità siriane nell’organizzazione dell’omicidio. Hezbollah ha annunciato possibili ritorsioni se l’attuale premier sunnita Saad Hariri, figlio di Rafiq, non denuncerà quanto prima il Tribunale. Se i membri di Hezbollah dovessero essere incriminati e poi condannati, il paese potrebbe precipitare in una nuova guerra civile.

Negli ultimi mesi la legittimità del Tribunale è divenuta oggetto di un aspro scontro tra le due principali coalizioni parlamentari, quella filoccidentale detta “del 14 Marzo”, guidata da Saad Hariri e quella filosiriana detta “dell’8 Marzo”, capeggiata da Hezbollah. Quest’ultima, ha infatti messo in discussione la credibilità del Tsl, insinuando che possa essere strumentalizzato, in particolare dagli Stati Uniti, per incriminare surrettiziamente il Partito di Dio.

Fragile status quo
Diversi elementi inducono tuttavia a pensare che l’esigenza di fare giustizia possa essere sacrificata in nome del mantenimento del già fragile status quo. Gli sforzi congiunti di Siria e Arabia Saudita, infatti, vanno verso la ricerca di un accordo tra le parti politiche libanesi al fine di evitare una nuova guerra civile e le sue eventuali ripercussioni regionali. L’Onu e le forze internazionali (Usa in primis) insistono comunque affinché il Tsl concluda i i suoi lavori.

La recente pubblicazione del rapporto semestrale sulla risoluzione 1559 adottata il 2 settembre 2004 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu con l’obiettivo, tra l’altro, di porre fine alle ingerenze straniere e sciogliere le milizie armate (in particolare quelle di Hezbollah) esprime forte preoccupazione per le tensioni politiche che attraversano il paese. Il rapporto conferma che due sono i principali fattori di instabilità in Libano: l’esistenza di milizie indipendenti dallo Stato e la permeabilità delle frontiere. Quest’ultima, oltre a minare l’integrità territoriale del paese, consente un copioso transito illegale di armi destinate ai gruppi militanti autonomi. Non è una novità, d’altra parte, che gli arsenali di Hezbollah (soprattutto dopo la guerra con Israele del 2006) siano cresciuti anziché ridursi. Secondo la maggior parte degli osservatori e come in parte confermato dalle recenti rivelazioni di Wikileaks, ciò è avvenuto grazie al flusso di armi provenienti dalla Siria e dall’Iran.

Le armi spuntate di Unifil
Il rapporto sulla risoluzione 1559, inoltre, mette in dubbio l’efficacia – e dunque il senso stesso – della missione Onu (United Nations Interim Force in Lebanon II, Unifil II). I militari impegnati nella missione sono 13.000, compresi quelli dei paesi della Nato (Italia, Francia, Germania e Belgio). Sono dislocati per lo più nel sud del Libano per proteggere la popolazione locale e rintracciare le armi illegali di Hezbollah. Le forze internazionali, tuttavia, sono costrette a muoversi con grande cautela per non incrinare il delicatissimo equilibrio esistente tra i vari gruppi confessionali.

È abbastanza indicativo, a tal proposito, che nelle ultime settimane il comandante del contingente Onu incaricato di rintracciare le armi di Hezbollah nella zona sud tra il fiume Litani e il confine con Israele, abbia dichiarato che “non essendo possibile per i militari Onu entrare nelle case dei civili senza il permesso dell’esercito statale, non si può esser certi che l’area dell’operazione sia effettivamente priva di armi”. La dichiarazione ha fatto seguito a uno spiacevole episodio, avvenuto a Tiro, in cui i militari dell’Unifil sono entrati con la forza nelle case dei civili alla ricerca di armi, provocando una violenta reazione da parte della popolazione locale. C’è un palese divario tra l’impegnativo mandato della missione Unifil II e i limitati strumenti di cui i militari dispongono per assolverlo.

Onu e Stati Uniti hanno ripetutamente accusato l’attuale governo di non essersi impegnato abbastanza per convincere Hezbollah a porre le sue milizie sotto il controllo dello Stato. Ma, al di là della retorica occidentale, è altresì che la cautela del governo verso Hezbollah riflette il timore di non pregiudicare i delicati equilibri interni del paese.

La peculiarità del Paese dei Cedri risiede infatti nella sua composizione sociale. Hezbollah, che rappresenta oggi la maggioranza della popolazione sciita libanese, nonostante la trasformazione da gruppo para-militare ad attore inserito nel sistema partitico, non si è mai veramente affrancato dalla sua natura originaria di gruppo combattente. E questo è sostanzialmente avvenuto con il bene placito delle altre forze politiche. Come mai? Per capirlo si devono guardare i numeri. A partire dalla fine della guerra civile nel 1990, il peso demografico degli sciiti è costantemente cresciuto. Oggi sono la maggiore comunità: circa il 40% della popolazione, contro il 33% complessivo dei vari gruppi cristiani e il 25% dei sunniti. Nel sistema politico libanese, guidato dalle élites cristiane e sunnite, gli sciiti sono palesemente sottorappresentati in Parlamento e rivendicano, dunque, maggiori spazi politici. Se Hezbollah accetta che, almeno per ora, gli sciiti siano sottorappresentati, è perché in cambio gli viene permesso di mantenere le sue milizie e i collegamenti con altri attori come Iran e Siria.

Evitare la guerra civile
Questa tensione, molto più che un processo incompiuto, rappresenta ormai un’anomalia strutturale per il Libano. La tenuta del modello di democrazia consensuale, definito dagli accordi di Doha del 2008, risulta quanto mai precaria. E la paralisi politica sul Tribunale speciale per il Libano (Tsl) ne è la più chiara manifestazione. D’altra parte, la già citata messa in discussione del Tsl – di fatto un “corpo speciale” di natura giuridica inedita, ben diverso dai vari tribunali internazionali delle Nazioni Unite – non è stata avanzata solo da Hezbollah e dai suoi alleati della coalizione dell’8 marzo, ma anche da alcuni esponenti politici della coalizione del 14 marzo, la coalizione di maggioranza guidata da Saad Hariri. Proprio quest’ultimo, per di più, mentre incolpava nelle ultime settimane Europa e Stati Uniti di averlo lasciato sostanzialmente solo in questa “lotta per la verità”, si recava in Siria a stringere la mano di colui che potrebbe essere il vero mandante dell’assassinio di suo padre, il presidente siriano Bashar al-Assad.

La sensazione generale è che l’unica strada per evitare che il paese precipiti nuovamente in una spirale di violenze sia in qualche modo evitare o rimandare il più possibile un pronunciamento del tribunale. Se scoppiasse una nuova guerra civile, il conflitto non si limiterebbe ai vari gruppi armati, ma finirebbe per coinvolgere anche le differenti forze interne dell’esercito. La maggior parte dei soldati è infatti sciita e proveniente da gruppi caratterizzati da una fitta rete parentale. È immaginabile che i soldati sciiti eseguano l’ordine di marciare verso sud e puntare le armi contro i loro fratelli, zii e cugini? Il rischio di una contrapposizione all’interno dell’esercito tra soldati sunniti e cristiani da una parte e i loro commilitoni sciiti dall’altro è molto elevato.

La debolezza dell’esercito è, uno dei timori principali del governo. Basti pensare che il ministro della Difesa aveva avanzato la proposta di aprire un conto corrente presso la Banca Centrale, su cui i cittadini potessero versare donazioni spontanee. La proposta non è stata presa in considerazione per motivi costituzionali, ma è indicativa delle difficoltà in cui versa l’esercito libanese e di quelle che incontrerebbe nel caso di un’escalation delle tensioni. Gli Usa hanno intanto sbloccato i 100 milioni di dollari di finanziamenti militari precedentemente congelati, e Hariri si è recato recentemente a Mosca anche per cercare di ottenere un aiuto dal punto di vista militare.

La verità su chi ha ucciso l’ex premier Hariri difficilmente verrà alla luce perché una guerra civile non la vuole il governo, né tanto meno il popolo libanese. Non la vogliono peraltro neanche gli altri attori regionali, come dimostra l’attivismo diplomatico di Siria, Arabia Saudita e persino Iran. Ed europei e americani, dal canto loro, non vedono grandi alternative a uno status quo che consenta un graduale rafforzamento dell’attuale governo.

Marina Calculli è dottoranda di ricerca all’Università Cattolica di Milano e sta svolgendo un anno di ricerca presso l’Université Saint Joseph di Beirut.