I racconti del Premio letterario Energheia

Il giardino del cacciatore, Francesco Sciannarella_Matera

Racconto finalista Premio Energheia 2020_XXVI edizione – sezione adulti

(ispirato a una storia vera)

Tutto ebbe inizio con un calcio in culo…

Nel bel mezzo degli anni ottanta, avevo undici anni ed ero un ragazzino taciturno. In quel

decennio della mia vita l’oggetto tecnologico che conoscessi era il gelosino, oggetto che, però, mi sognavo di avere. Allora, l’alternativa per trascorrere il tempo, nelle lunghe giornate estive, era star fuori casa.

Vivevo in quel di Segrate, nel cuore pulsante della Lombardia laboriosa e mi divertivo con gli amici dell’oratorio parrocchiale o con il gruppo scout. Avevo trovato la mia dimensione e ogni cosa era al posto giusto.

Fino a che il tutto ebbe un tragica e inaspettata svolta.

In quella estate, il primo devastante scossone lo ebbi per quella frase perentoria di mio padre: “ho avuto il trasferimento!”

Era un uomo d’altri tempi, pragmatico. Il suo linguaggio era fatto di poche ruvide parole che solo sua moglie sapeva decodificare. E, nonostante quella sua espressività ridotta, in casa sapeva ugualmente imporsi! E mia madre, in perfetta sintonia con l’uomo della sua vita, a quell’affermazione aveva risposto muovendo appena la testa. Subito dopo aveva guardato me, il suo unico e amato figlio. Ogni suo muscolo facciale era rimasto immobile. Poi si era alzata e aveva iniziato a sparecchiare.

In casa mia era così, si pronunciavano dalle dieci alle quindici parole al giorno, eravamo in tre… viene facile capire quanto fossimo loquaci!

Un mese dopo, la fine della scuola, avevo salutato per sempre Segrate, i miei amici delle

elementari, quelli della scuola calcio e ci eravamo trasferiti a Matera.

Da qui tutto era ricominciato.

La città dei Sassi era il punto di partenza dei miei genitori, poco prima che nascessi, per loro rappresentava l’alpha… per me era l’omega!

Piansi una notte intera. Il mondo improvvisamente sembrava essersi trasformato. Tutto era diverso, i suoni, i colori, gli odori, il cibo e persino il cielo mi sembrava non essere lo stesso di prima. E io mi sentivo spaesato, senza alcun riferimento.

“Troverà altri amici, statti tranquilla, Carmè!” aveva sentenziato mio padre, in auto, senza

neanche girarsi a guardare sua moglie. E intanto stringeva le mani, in posizione undici e cinque, attorno allo sterzo della sua amato Ritmo. Mia madre si era voltata. Io avevo abbassato lo sguardo.

Alla fine di quel viaggio infinito e dopo aver sistemato la roba per giorni interi, non misi il naso fuori di casa per una settimana. Quando mi decisi a farlo, era perché avevo sentito il richiamo della mia passione più forte: il calcio.

A Segrate ero portiere titolare della squadra della Polisportiva. E piuttosto bravo. Così, in pieno stile Romero, mossi i primi passi nella mia nuova città, attratto dal suono melodico del pallone, dall’eco delle urla dei calciatori improvvisati e dal colorito sacramentare di tutti. La curiosità mi spinse a tornare a vivere, ma non avevo calcolato quanto sarebbe stato insidioso il tragitto da casa mia fino al quadrato di gioco.

«Sei nuovo?» con quella domanda demenziale, più adatta a un maglione, fui accolto da un

gruppetto di tre coetanei, che mi sbarrarono la strada. A capo del trio c’era un tizio brufoloso e obeso.

«Sì» avevo risposto, timidamente.

«E allora da qui non puoi passare!» li avevo guardati alternativamente, identici nella loro postura da duri, braccia incrociate e mento all’insù.

«Perché?»

«Perché?» il capo aveva scimmiottato il mio accento milanese «che sei un polentone te?» e mi aveva spinto, facendomi cadere.

I glutei avevano accusato il colpo, ma non il mio orgoglio preadolescenziale. Quasi in procinto di piangere, mi ero alzato ed ero scappato via, con le loro risate ridondanti nelle orecchie. Il tutto accompagnato da un’espressione che appresi in quella occasione: trimone*! E a quanto pareva nel gergo materano era una parola d’uso comune anche tra i grandi. Quelli che vedevo giocare nel campo di calcio che ero riuscito a scovare, dopo essermi ripreso dalla splendida accoglienza della mia nuova città.

In verità, l’espressione “campo di calcio” è piuttosto pretenziosa. In realtà si trattava di un

quadrato di terra battuta a ridosso di un cantiere stradale. Le porte erano delimitate da due mattoni di tufo, non c’erano pali. Ancora oggi non capisco come si facesse a stabilire l’altezza della traversa!

E così provavo a crogiolare la vista con quelle partite arrangiate, con impavidi campioni in

mocassini e pantaloni della domenica. Prima di arrivarci circumnavigavo l’intero quartiere per evitare quei tre bulli che mi avevano fatto odiare ancora di più Matera.

Inutile dire che potevo solo stare a guardare gli altri giocare. I miei guantoni erano intonsi dal giorno in cui mio padre me li aveva regalati, a fine anno scolastico.

Ancora una volta le cose cambiarono all’improvviso.

Un giorno ero al margine del campo e non mi accorsi dei miei tre trimoni di fiducia! In un

secondo mi furono addosso, spintonandomi e prendendomi in giro. Nello stesso istante, uno dei grandi, con un maldestro calcio “mocassinato”, fece un fuori campo che provocò le ire funeste di tutti, avversari compresi.

«Franco… ma che cazzo di piede storto di merda che hai?»

«Fra’… ma c’hai le ciabatte ai piedi?»

«Adesso ci vai tu a prendere il pallone a casa di quello lì!»

E alla fine di tutto, lo scarsissimo calciatore puntò l’indice su di me, salvandomi dal pestaggio.

«Oh! Lasciatelo stare!» i miei torturatori, alla vista di quell’energumeno, mi lasciarono andare.

Inforcarono le loro biciclette e, urlandomi contro un’enciclopedia di parole, andarono via.

Felice di quel salvataggio, mi chinai per prendere i miei guantoni caduti per terra e quasi avessi dato le spalle a un asino (vero!), ricevetti una sonora pedata sul didietro, così forte da farmi bestemmiare!

«Uagliò… vai a prendere il pallone, muoviti!» ringhiò Franco, con il dito indice sotto il mio naso.

«Dove?» gli risposi, schiacciato dal suo sguardo da duro.

«A casa di quel cacciatore malato di mente!» e mi indicò una casa che si trovava al di sotto della strada in costruzione.

«E perché io?» ebbi il coraggio di dire, sfregandomi la chiappa.

«Perché altrimenti ti prendo a calci in culo fino a che non ci arrivi» si avvicinò ancora, fino a farmi sentire il suo alito di sigaretta.

E senza altre possibilità, mi avviai, sotto lo sguardo in parte divertito, in parte incuriosito, di tutti.

Camminavo curvo sotto il peso dell’umiliazione e con l’umore nelle scarpe. Nella mente c’era l’eco delle parole… malato di mente! Avevo iniziato a immaginare scene sanguinolente del mio corpo straziato, fatto in due dalle mani di quel misterioso cacciatore che incuteva lugubri timori persino ai grandi.

Mi avviai, tagliando in diagonale la strada di terra.

Quando giunsi a pochi metri dal cancelletto, osservai il mio nuovo aguzzino, lassù, come un sacerdote azteco sulla piramide sacrificale, mentre ringhiava maledizioni contro di me.

Con il dito tremulo, suonai all’unico bottone di quel citofono che stavo fissando da un tempo senza lancette. Le gambe erano diventate di burro e la vescica era in procinto di cedere. Con uno sforzo sovrumano riuscii a evitare quella ennesima umiliazione al mio corpo.

«CHI E’?» la voce roca di un uomo gracchiò così forte da farmi spaventare.

«Ehm… sì… scusate… ehm… dovrei prendere il… il pallone… nel vostro giardino…»

«Il pallone?»

«Ehm… si…»

«Nel mio giardino?»

«Eeeee… ehm… si!»

Calò un silenzio mortale che mi raggelò, nonostante la calura di luglio.

«Aspetta… mo’ vengo!»

La comunicazione si chiuse, il torace pareva una grancassa, le pulsazioni del cuore echeggiavano fin nelle orecchie.

Dietro il cancelletto, dopo un paio di minuti (o forse ore), si materializzò un uomo. Indossava una maglietta bianca, deforme e sporca, pantaloni di lino, lisi e alla zuava che mostravano mocassini incartapecoriti e sporchi di terra. A coronamento di tutto, radi capelli sale e pepe che sembrava non aver mai visto un pettine, una barba ispida e la dentatura in tecnicolor, con tutte le scale di grigio e giallo. In una mano aveva il Super Santos.

«Uagliò… è questo il pallone?»

La mia testa si mosse appena, con lo sguardo fisso su quegli occhi che da adulto avrei associato a quelli di Jack Torrance. Il cacciatore deformò il volto in un ghigno malefico e all’improvviso, con la mano sinistra, sino a quel momento nascosta dietro la schiena, infilzò il povero pallone con una cesoia da giardiniere. Sobbalzai, lasciandomi scappare un piccolo urlo, mentre sentivo sibilare della sfera rosso sangue. E non contento tagliò in due perfetti emisferi quell’oggetto che sapeva procurare gioie a tutte le età.

«Tieni!» mi disse, aprendo il cancelletto e facendomi dono di quella salma di plastica che non avevo potuto salvare «e la prossima volta… te lo faccio in quattro, hai capito?»

Senza riuscire a proferire parola, presi i resti e mi avviai mestamente verso il bullo numero due, che mi aspettava sulla sacra altura del campo di calcio. Inaspettatamente non ci fu nessuna conseguenza per me, ma solo una valanga di ingiurie e maledizioni per il brutale ammazzapalloni!

«Hai fatto nuove amicizie?» quel giorno mia madre mi rivolse quella domanda, mentre apparecchiava per il pranzo, senza guardarmi.

Come no! Due intere squadre di calcio, tre bulli e un malato di mente!

«Sì» risposi, sapendo di mentire a metà, in fondo qualcuno l’avevo conosciuto, anche se a spese del mio didietro.

«Bene» e la chiacchierata madre-figlio si esaurì lì.

«Hai fatto nuove amicizie?» mio padre mi rivolse la stessa identica domanda, dieci minuti più tardi, durante il pranzo, a capo chino sul piatto, mentre inforcava tre maccheroni al sugo.

«Si» utilizzai la stessa telegrafica semi menzogna di poco prima.

«Bene» replicò lui, spostando il boccone nella guancia e fissando il vuoto davanti a sua moglie.

Guardai a lungo quell’uomo ermetico come pochi, nella speranza leggesse nei miei occhi l’altra metà della storia, ma non accadde. Dovevo cavarmela da solo, senza neanche un supporto psicologico da parte dei miei genitori. Quello sarebbe stato, in pratica e per sempre il mood della mia vita, ma allora non lo sapevo.

E da quel giorno, per quasi due settimane di seguito, uscivo di casa con due consapevolezze: una era quella di essere preda di tre idioti, dai quali dovevo fuggire come una gazzella che fiuta il leone arrivare. L’altra era che, non appena riuscivo a sopravvivere a quella savana di quartiere, mi ritrovavo ad affrontare la certezza che, mio malgrado, ero diventato il raccattapalle ufficiale dei grandi. Soprattutto quando il pallone finiva nel giardino del cacciatore. Franco, quello che si era autoproclamato leader indiscusso, mi guardava e muoveva appena la testa. Io mi alzavo e andavo incontro al mio destino.

«Un’altra volta il pallone?» quell’uomo burbero esordiva ormai con quella frase al citofono, quasi sapesse ero io.

«Sì, però, per fav-» e chiudeva, smorzando la mia preghiera di non bucarlo. Prece che rimaneva, ovviamente, inascoltata. Il vecchio cacciatore, gongolante, sempre nel suo abbigliamento raffazzonato, appariva dietro il cancello e sotto i miei occhi pugnalava a morte l’ennesimo Super Santos. Succedeva ogni sacrosanta volta!

Fsssssssssssssssssssssss!

Guardavo ogni volta la palla che si afflosciava nella sua mano bitorzoluta. Quel suono non l’ho mai più dimenticato. Ogni volta tornavo al campo con i due emisferi che mostravo al legittimo proprietario di turno e puntualmente sentivo improperi di ogni tipo.

Un giorno, però, appena sceso al campo, già moralmente pronto a oziare pieno di invidia, non trovai nessuno.

Stranissimo.

«U’ milanes’…» urlò il bullo ciccione che non voleva saperne di lasciarmi in pace «oggi niente palloni da raccogliere, eh?» e per fortuna rimase a debita distanza, in sella alla sua bicicletta. Senza i suoi scudieri era un ragazzino come me!

«Dove sono gli altri?»

«Che sei sordo? Non le senti le moto?» preparò il pedale per la partenza «stanno facendo le gare di motocross!» e senza aggiungere altro diede faticosamente la prima spinta e partì. Aspettai che fosse a debita distanza e mi avviai dietro di lui.

Quando giunsi a destinazione, mi resi conto che un folto gruppo di improvvisati centauri, stava adoperando una montagna di terra da cantiere come trampolino. Ovviamente, data l’esigua potenza dei loro cinquantini, si trattava di salti appena accennati, simili a pernacchie smorzate per dovere di galateo.

Scesi a valle e trovai un posto tranquillo, ai margini di quella accozzaglia di motociclisti,

sovraccarichi di adrenalina e testosterone agli esordi. Lo spettacolo era piuttosto piacevole, o meglio… bizzarro! Chi aveva già “osato” saltare, era tronfio di piacere nell’elargire consigli a chi stava per cimentarsi.

Uno: sgasare da fermo, per portare a temperatura la bestia!

Due: rilasciare repentinamente il freno e contestualmente dare una poderosa spinta con il piede!

Tre: mai accelerare oltre la metà della rampa di lancio.

Era questo l’iter. La parte divertente era l’atterraggio. Tutti barcollavano come ubriachi,

riuscendo a stento a riprendere il controllo del mezzo. I meno fortunati si ritrovavano per terra, con il loro motorino a mo’ di coperta, tutti, però, si rialzavano e ci riprovavano. La breccia fine li stava colorando di bianco uno a uno, a qualcuno strappava il pantalone, ma tutto passava in secondo piano.

Quando arrivò Franco, con il suo Caballero “truccato”, tutti gli fecero largo. La piccola fiumana si aprì, come le acque al cospetto di Mosè, al rombo sferzante di quella moto che tutti guardavamo a bocca aperta. Per tutto il tempo che ammorbò l’aria con i suoi gas di scarico, sognai un giorno di poter cavalcare una meraviglia come quella, aveva bellissime gomme, capaci di mordere la terra.

Con la bocca semichiusa fissavo inebetito quei parafanghi che vibravano per il ruggito del motore.

Non la finivo di rimanere ammaliato dal largo manubrio che dava, a chiunque la guidasse, un’aria da super fico!

«Oh.. che fai… salti pure tu?» una domanda del genere, per Franco, il più tosto di tutti, era una provocazione, una sfida! E lui alle sfide rispondeva con i fatti!

Il suo volto si dipinse di un sorriso che era una via di mezzo tra Diabolik (che non sorrideva quasi mai, tra l’altro!) e Antony Perkins in Psyco.

«Oh.. Franco… mi raccomando» gli si era avvicinato uno dei centauri, trafelato «quando sei a metà salita non accelerare, se no te ne vai a cicorie!»

«E mica sono trimone come a voi!» replicò l’altro, dando le ultime sgasate.

Franco lo guardò con occhi alla Clint Eastwood in un western di Sergio Leone. Quasi sembrava di sentire andare la musica di Ennio Morricone.

Tutto era immobile.

Nessuno fiatava.

Tutti guardavamo Franco e il suo mostro a due ruote.

Aspettavamo quello che per tutti sarebbe stato il salto del secolo.

La frizione scattò.

Il mitico Caballero prese a morsi la brecciolina sotto la ruota, facendola schizzare dietro e alzando una nube di polvere bianca. Sfrecciò veloce come una saetta. Tutte le moto che avevano saltato sino a quel momento apparivano come biciclette.

E la moto filava!

Pegaso e Bellerofonte!

Giunto a metà salita, Franco, deciso a dare spettacolo ed entrare nell’olimpo del motocross, accelerò ancora, impavidamente, dimentico dei consigli ricevuti.

La moto si librò in aria.

Tutti, ma proprio tutti, alzammo il naso al cielo ad ammirare quello sprovveduto Icaro in Lamberjack andare incontro al suo destino.

In alto.

Ancora.

E ancora.

All’improvviso la moto e il suo guidatore presero due strade diverse! Franco si schiantò faccia a terra, nella breccia, mentre la moto atterrò… nel giardino del cacciatore!

La folla, per un secondo, rimase in ossequioso silenzio. Credo che, in quel momento, l’atterraggio di un extraterrestre a Matera avrebbe fatto meno effetto.

Nell’istante in cui Franco alzò la testa puntellata di pietrisco, che sputava disgustato, il boato di una risata corale esplose nella vallata. Tutti si tenevano lo stomaco divertiti.

Tutti… tranne me!

Il mio disappunto non era per quel fesso di Franco, ma per la sua moto. I miei occhi non si

muovevano da lì, da quella siepe che divideva quel posto tanto odiato dal resto del mondo.

E mentre ero ipnotizzato dal giardino del cacciatore, non mi resi conto che la folla si era dispersa in ogni dove, in fuga dalle ira funeste di Franco che incutevano un terrore infinito. Ognuno aveva trovato un altro posto dove continuare a deridere il Bellerofonte sconfitto che, nel frattempo stringeva tra le sue grinfie una persona a me tanto “cara”: il bullo ciccione! Lo stava strigliando per averlo deriso, ma soprattutto gli stava dicendo che doveva andare a prendere la sua moto a casa di quello là!

«Muoviti, o ti faccio una faccia di schiaffi!» gli stava urlando.

Il mio primo torturatore era paonazzo e non riusciva a parlare, scuoteva la testa, fissando Franco.

Ancora oggi non so perché lo feci, ma iniziai a correre verso i due e mi fermai davanti a loro con il fiatone.

«Lascialo stare… vado io… a prendere… la tua… moto!» mi ero avvicinato appena in tempo, prima che partissero un paio di sonori ceffoni.

I due mi guardarono basiti, poi l’unico neurone di Franco reagì.

«E allora muoviti!» ruggì, lasciando andare il bullo ciccione che mi guardò con occhi di

immensa devozione. E in un istante si dileguò.

E per l’ennesima volta mi incamminai verso quel cancello grigio e freddo, certo che questa volta non sarebbe stata come le altre.

Alzai la mano, lentamente, e infine spinsi il bottone. Il bip di rimando sembrò echeggiare tutto attorno, mentre deglutivo con uno sforzo esagerato.

«Un’altra volta il pallone?» la voce del cacciatore risuonò attraverso l’altoparlante.

«Ehm… no… veramente… questa volta… è il motorino!»

«IL MOTORINO?»

E prima che potessi rispondere e spiegare, una valanga di improperi mi travolse, molti dei quali impronunciabili, altri intraducibili dal suo linguaggio arcaico che, da materano adottato da pochi giorni, mi era sconosciuto. A sfogo finito il cancelletto scattò.

Ero paralizzato. Non c’era un muscolo che si muovesse.

«Muoviti!» e l’uomo chiuse la comunicazione.

Volevo scappare. Alla fine, spinto da una forza sconosciuta, feci il primo passo, varcando il

cancelletto. E poi un altro. E un altro ancora. Mi incamminai lungo quel vialetto quasi fosse stato il mio miglio verde. A ogni movimento delle gambe il terrore mi smorzava il respiro. Fino a quando mi ritrovai davanti un secondo cancello, grande, invalicabile. Oltre le sbarre vedevo una stradina in penombra, tra il palazzo e il muro di mantenimento del cantiere, lì dov’era la pista da moto cross.

Spostando continuamente il peso da un piede all’altro, cercai di capire cosa mi aspettasse. Era spaventato a morte e quando decisi di tornare indietro, il cacciatore apparve all’improvviso.

«Aaaaah!» urlai.

L’uomo mi fissava.

«E’ tua la motocicletta?» mi stava schiacciando con il suo sguardo inferocito.

Mossi lentamente il capo in un “no” appena accennato.

«Datti una mossa!» aprì il varco infernale, mi diede le spalle e aggiunse a denti stretti «dannata gioventù di oggi!»

Mi incamminai pedissequamente, consapevole che ero sul punto di piagnucolare, ma andai avanti, come il più inconsapevole dei suicidi.

La stradina era stretta e si snodava come un budello dantesco. Quando girai il secondo angolo, la sensazione che mi travolse fu la stessa di quando il sole ti acceca dopo ore chiuso al buio.

Davanti a me c’era il più bel giardino che avessi mai visto!

Tutto attorno una siepe di viburno meraviglioso, potata con una perfezione così meticolosa da farmi credere, di primo acchito, che si trattasse di piante finte. Nell’angolo più lontano spiccava il giallo e l’arancione della lantana, come la gonna di una dolce fanciulla china sull’erba. Poco oltre una pianta di fucsia di un rosa gentile e accecante al tempo stesso, così ben curata da richiamare l’attenzione anche del più distratto degli essere umani. C’era anche una mimosa pudica, meravigliosa creatura dalle foglie sensibili. Un sentiero di pietre scure di mille forme, levigate dalla pazienza del tempo, si snodava sereno tre il verde perfettamente rasato del prato, diramandosi in direzione di ogni pianta. In un punto in cui questo percorso si attorcigliava su sé stesso, a mo’ di tornante, vi era un meraviglioso ligustro, a cui era stata data una forma sferica perfetta. Non c’era una foglia fuori posto, tutte erano di un verde splendente alla luce del sole. In un angolo, quasi a voler chiudere ideologicamente la prua di quel giardino dell’Eden, c’era un cotino che si apprestava a crescere maestoso, dalla mia giovane prospettiva era decisamente oltre i due metri. Ai piedi del tronco, un piccolo tappeto di foglie bronzee, quasi qualcuno le avesse strappate con forza.

O qualcosa!

Non appena misi a fuoco, vidi la moto di quel deficiente di Franco, lì a devastare quella preziosità, con il manubrio storto, come i resti di un guerriero lasciato sul campo a decomporsi. Il cacciatore era rimasto in attesa che andassi a prendere quella dannata motocicletta che in quel momento mi dava solo la nausea. La vera bellezza era tutt’attorno e non volevo uscire da quel posto che cancellava ogni bruttura del mondo esterno.

«Assai devo aspettare?» incalzò il padrone di casa, mani ai fianchi.

Mi ridestai all’improvviso da una sorta di ipnosi di fronte a quei meravigliosi colori che mi

avevano avvolto. Mi avvicinai e con uno sforzo immenso cercai di rimettere in piedi il Caballero, ma era troppo pesante per i miei muscoli evidentemente non ancora pronti a simili imprese!

L’uomo, accennando pietà, afferrò il mezzo da una manopola e lo tirò su come fuscello.

«E di’ al tuo amico che se lo vedo per strada, gli gonfio la faccia, chiaro?»

Annuii e mi avviai.

A ogni metro rischiavo di cadere e di rimanere schiacciato dal peso della moto. Quando arrivai sulla strada ero madido di sudore come non mai. Guardai in giro, sperando di veder sbucare Franco, ma ero solo. Tutto attorno a me il deserto, non un altro essere umano a darmi manforte. E nonostante fossi sfinito, spinsi ancora il Caballero. Quando giunsi fuori dalla vista di quella abitazione che non mi spaventava più, finalmente qualcuno riapparve dal nulla.

«Era ora!» disse Franco, furioso, strappandomi il manubrio dalle mani «cazzo, le canne si sono storte!»

«Il cacciatore ha detto che se ti vede per strada…» Franco si girò a me con uno scatto «ti

prenderà a schiaffi!»

«Se solo si avvicina lo prendo io a calci in culo!» disse, con un diavolo per capello. E senza aggiungere altro si avviò con il suo destriero ferito. Non mi stupii che non mi avesse neanche ringraziato. Guardai un’ultima volta quella casa e andai per la mia strada.

Il giorno dopo, quando arrivai al campo di calcio, prima che andassi a sedere al mio solito posto da spettatore, il bullo ciccione che mi aveva preso di mira si avvicinò con un viso carico di mestizia.

«Vuoi giocare?» con lui c’era un gruppo di altre cinque persone «ci manca un portiere!»

Gli dissi sì con la testa e ci avviammo insieme, ma prima i miei occhi incrociarono quelli di

Franco. Lui mosse appena il capo, in un saluto che non voleva mostrare a nessuno, e io ricambiai allo stesso modo.

E da quel giorno tutto cambiò.

Quei ragazzi, sono rimasti miei amici a lungo, nonostante l’età e le vicissitudini della vita ci

abbiano portato a prendere direzioni diverse. Franco, dopo quell’estate, non l’ho più visto. Voci di quartiere dicevano che era emigrato in Germania, dove non se l’è passata benissimo. Il cacciatore morì cinque anni dopo, stroncato da una lunga malattia. Dopo quella volta non sono entrato mai più nel suo meraviglioso giardino.

Oggi, a cinquant’anni, ho trovato anch’io la mia buona strada, ma di quel giorno mi è rimasto negli occhi e nel naso il piacere di quei colori e quegli odori paradisiaci che mi hanno trasmesso la passione per il giardinaggio, che coltivo ancora oggi.

* trimone: agg. m.s. nel linguaggio gergale adolescenziale di alcune zone del Meridione d’Italia, significa persona imbranata, di poco conto, insignificante. SIN. pippa, sega, mezza sega.