L'angolo dello scrittore

Il Dio impassibile di Malick

da «Il Fatto Quotidiano», mercoledì 1 giugno 2011_

The Tree of Life

La famiglia di The Tree of Life deve fare i conti con un creatore che esige sacrifici e non conosce pietà. Ma questa mirabile avventura non è un modo mirabile per mettere a posto le coscienze?

 

di Evelina Santangelo_

Basterebbe leggere le recensioni uscite sulle testate più varie, italiane ed estere, per avere una qualche misura di quanto siano variegati, spesso inconciliabili, i giudizi sull’ultimo film di Terrence Malick, The Tree of Life, Palma D’oro al Festival di Cannes. «Un capolavoro contenuto e quasi imprigionato in una crisi mistica di arduo fascino» (Curzio Maltese, La Repubblica). «Affascinante, ambiziosissimo, irrisolto» (Federico Pontiggia Il Fatto Quotidiano). «Un film che rischia d’entrare di slancio nella disagiata categoria dei capolavori mancati» (Valerio Caprara Il Mattino). «Film folle e magnifico… grandissimo cinema» (Peter Bradshaw, The Guardian). «Una parodia di Malick fatta da uno che lo detesta» (Sukhdev Sandhu, The Telegraph). Giusto per citarne solo una piccolissima parte.
Giudizi così divisi esigono, se non altro, un atteggiamento aperto, affatto liquidatorio. Con quest’animo dunque sono andata a vedere The Tree of Life.

Meraviglia e stupore, e anche un senso sconcertante di inadeguatezza dinanzi all’immensità e alla potenza delle immagini, sono i sentimenti immediati che si provano alle prime sequenze.
Il nocciolo umano del film – la vicenda di una famiglia texana degli anni ’50 colpita da un lutto inaccettabile e insensato come la morte di un figlio – è infatti calato, (e reso più vero, direi) in una visione cosmica e panica dove tutto ha un che di abissale: abissi microbiologici, abissi marini, abissi galattici, abissi temporali, dalla notte dei tempi a una modernità vertiginosa e arrogante che compete con la vertigine della natura o è forse – come suggerisce il protagonista, Jack (Sean Penn) – la più proterva manifestazione di un inappagato desiderio di dominio, di quella hybris insomma (superbia, prevaricazione) che è la peggiore delle colpe dell’uomo al cospetto di qualsiasi dio.
Ammirazione è poi il sentimento che meglio esprime quel che si prova dinanzi ai movimenti imprevedibili della macchia da presa, che riesce a fissare i sentimenti più intimi nelle velature di un viso o a suggerire lo slancio del desiderio d’assoluto in scalate verso il cielo tra chiostri di tronchi. Un cinema veggente, l’ha definito qualche critico. Un cinema visionario, sicuramente, e onirico, che non narra, ma preferisce suggerire piuttosto, attraverso analogie, assonanze, richiami emotivi, complice una musica «portentosa», ora solenne come un requiem ora impalpabile come un richiamo fatto di puro spirito.
Ed è proprio su quel che questo film suggerisce che vorrei soffermarmi, partendo da quel nocciolo umano, appunto, in cui è messo in scena un microcosmo familiare in un tempo preciso: l’America della middle class degli anni ’50 – con le sue grettezze, il suo pragmatismo omocentrico, il suo culto del focolare domestico. In questo microcosmo cresce Jack, diviso dolorosamente tra gli insegnamenti di un padre duro (Brad Pitt), o meglio indurito e frustrato, che pronuncia frasi come questa: «Ci vuole una volontà di ferro per farsi avanti in questo mondo», e una madre che: «se non ami, – dice, – la tua vita passerà in un lampo». E, quando questa stessa madre (Jessica Chastain) suggerisce come affrontare l’esistenza, non contempla che due precise possibilità: «Ci sono due vie per affrontare la vita. La via della natura e la via della grazia. Sta a te scegliere quale delle due seguire».

Sarebbe un errore pensare che la «via della natura» coincida in tutto e per tutto con la via proposta dal padre, che è semmai la via più modesta di un piccolo uomo inchiodato al suo mediocre destino. La via della natura è piuttosto quella dell’infanzia che Jack vive insieme ai fratelli in un intreccio di conflitti interiori, frustrazioni, rancori inespressi, desideri indicibili, piccole vendette cui fa da contraltare la mitezza angelica del fratello destinato al sacrificio inesplicabile della sua morte precoce. Un personaggio, quest’ultimo, che nei tratti fisici così come nei tratti umani è la quintessenza della grazia. La grazia di una creatura bambina, resa ancora più innocente dal sacrificio che l’attende. Quella stessa grazia di cui la madre è la manifestazione più sensuale ma non meno pura, di quella purezza e bellezza disadorna, spirituale, che ricorda la Venere del Botticelli.

Né sembra ci possano essere dubbi che queste due figure così fortemente idealizzate, così estranee alle dinamiche dell’esistenza quotidiana (a ogni forma di miseria o mediocrità), perché non corrotte dalla vita, siano le creature che più si avvicinano a quell’integrità ideale cui non può che volgersi il desiderio dell’uomo nella ricerca di senso. «Un giorno cadremo e verseremo lacrime… E capiremo tutto. Ogni cosa». «Guidaci sino alla fine del tempo». Questo dice la voce fuori campo, mentre Jack (ormai adulto) affronta il labirinto che lo porterà alla spiaggia dei giusti. E infatti il Dio cui si rivolge l’uomo di Malick è proprio il Dio del Libro di Giobbe, il Dio abissale, dalla volontà insondabile, del Vecchio Testamento, che esige sacrifici umani e non conosce pietà, né ha mai sperimentato d’altro canto la miseria dell’essere uomo.
È proprio questo il punto, per chi abbia voglia di chiedersi quale orizzonte umano, spirituale, quale orizzonte culturale si profili nel «capolavoro» di Malick. Non è semplicemente una questione di fede. E meno che mai di ateismo. Quel che lascia davvero ammutoliti è proprio l’idea che il «senso» dell’umano si possa manifestare in creature angeliche o angelicate, in bambini efebici e donne «non con uman volto»; che il «senso» della vita si debba tornare a cercalo in quell’Entità lì impenetrabile e distante, o ancora nell’espiazione di un sacrificio di cui non è dato chiedere conto… e non piuttosto nel cuore stesso dell’esistenza dove, proprio in quegli stessi anni ’50, una donna, un’afro-americana (Rosa Parks), si rifiutava di cedere il posto a un bianco in un autobus e un reverendo di nome Martin Luther King predicava la giustizia terrena pronunciando parole come queste: «Se avremo aiutato una sola persona a sperare, non saremo vissuti invano», «la legge e l’ordine saranno rispettati solo quando si concederà la giustizia a tutti indistintamente».
È davvero quella proposta da Malick l’«avventura impervia e radicale» di questo nostro tempo? È davvero quell’Entità il Dio cui rivolgere le nostre domande di uomini che, credenti e non credenti o diversamente credenti, hanno conosciuto anche un altro Dio capace di farsi uomo tra gli uomini… O non è forse, quell’avventura spirituale mirabile, un modo altrettanto mirabile per mettere a posto le nostre coscienze?