I racconti del Premio Energheia Europa

I passi della lira, Damiani Koumeni

Racconto vincitore Premio Energheia Grecia 2023

Il sole stava tramontando. Dalle persiane aperte delle finestre, le case, tutte imbiancate a calce, brillavano pulitissime sotto gli ultimi raggi dorati. Ed egli si sedeva come ogni giorno a quest’ora a guardare l’orizzonte con lo sguardo spento. I ricordi andavano e venivano, risvegliati da suoni e immagini di ogni momento, di ogni genere. Gli animali scendevano dai campi, il pascolo era stato preparato per quel giorno. I campanelli sul collo delle capre e dei caproni suonavano a decine. Un suono identico a quello dei campanelli dell’archetto della lira che teneva e accarezzava. “Fratellino mio!” sospirò, e le lacrime scesero di nuovo a fiumi. “Fratello mio… “.

Fin dalla nascita soffriva, ma non si piegava. Era l’ultimo, i suoi fratelli erano vecchi quando nacque. E, quando nacque, a sua madre chiedevano: “Perché hai voluto questo bambino adesso, madre? Non vedi come il mondo ride di noi? Sulle nostre spalle ricade tutta la colpa. I tuoi capelli sono bianchi, madre, sei rugosa. Una ragazza dovrebbe avere figli. Come faranno i tuoi figli e le tue figlie a sposarsi, ora? I nostri figli avranno uno zio della stessa età?”. E lei rispose con lo stesso tono dolente: “Dio dona queste cose, figlio mio. Adesso è un bambino, ma crescerà anche lui”. Neanche il padre amò mai il bambino, non perché fosse l’ultimo, ma perché non era un ragazzo, come disse quando lo vide per la prima volta, e come disse ogni volta che lo vedeva. Mani deboli, dita sottili e lunghe, corpo sodo ma poco attraente. Solo il fratello maggiore, maturo e timido, gli mostrava amore.

Il bambino cresceva, Manolis aveva ormai dodici anni, diventava uomo, ma solo nell’anima. Vedeva suo padre e i suoi fratelli, e tutto ciò che desiderava era essere come loro, farsi spuntare una barba dura, avere braccia forti e uno sguardo feroce. Ammirava gli uomini della sua casa, ma soprattutto il fratello maggiore, che aveva un carattere feroce e corraggioso, ma aveva l’anima di un bambino e parole dolci per tutti. Era un uomo virile e intelligente, che aiutava il padre e ogni volta che aveva tempo insegnava in segreto la lira a Manolis. Sembrava che lo amasse. Quando il padre si arrabbiava, interveniva per metterlo a fare qualsiasi lavoro e toglierlo dai guai. Ricorda – eccome se lo ricorda – quel giorno in cui parlò per la prima volta al padre. Aveva deciso di parlare come un uomo, in modo schietto e sincero.

“Padre, non mi ami come gli altri miei fratelli e sorelle?”. All’inizio il padre rimase attonito, poi si scatenò. Più scuro dei suoi abiti neri, afferrò il bambino per un braccio e lo mise vicino al suo.

“Vedi? Chiedi ancora il perché? Cosa diavolo sono quelle mani e quei piedi?” gridò, e infilzò i suoi stivali bianchi accanto ai piccoli piedi dell’ultimo figlio. “Tua sorella Leniò ha braccia più robuste. Torna da tua madre, idiota! Non sono nato capitano perché i miei figli facciano i maestri. A te basta un lavoro da maestro, ma mani come quelle non possono impedirti di morire di fame. Il latte di tua madre e il cibo che mangi sono sprecati…”.

“Manolis!” disse la voce del figlio maggiore dall’interno della casa. Manolis asciugò i suoi occhi e corse dal fratello. “Magari diventassi come te, fratello mio, fosse anche l’ultima cosa che faccio” pensò, e un sorriso illuminò il suo viso infantile.

Gli anni passarono. Nessun barba cresceva sul suo viso come se lo facesse per testardaggine, le sue mani non si irrobustivano nonostante il duro lavoro, né le sue braccia si ingrossavano. Solo sulla lira migliorava sempre di più, le sue dita sottili premevano le note con un tocco delicato. Ma sempre di nascosto. Divenne un ragazzo, sempre inseparabile dal fratello. E un giorno, un’alba di agosto, il fratello gli raccontò il suo grande dolore: amava una ragazza, che aveva i capelli d’oro lunghi fino alla schiena, occhi come il mare che incantano e un corpo dritto come un cipresso. Si chiamava Irene e abitava al quartiere alto. Sua madre era vedova e aveva solo una figlia. E suo fratello la vegliava come un talismano giorno e notte. Non poteva chiedere di sposarla. Gli anni passarono, lui aveva 30 anni e la ragazza era giovane. Il fratello non sarebbe stato d’accordo. “Fratello, qualunque cosa tu pensi di fare, io sono con te, ma stai attento”, gli disse Manolis battendogli sulla spalla. Ma il fratello, ingannato dai suoi sogni dorati, come Erotocrito, pensava ad Aretousa.

Una fredda notte d’inverno, Manolis non riusciva a dormire. Si alzò dal letto per dieci volte e alla decima si rese conto che mancava uno dei suoi fratelli. Si mise sulle spalle un tessuto ricamato della madre, indossò gli stivali, infilò il coltello nella cintura e uscì. Il fratello maggiore non si vedeva da nessuna parte. Spense la candela. Non appena i suoi occhi si abituarono all’oscurità, cominciò a correre come un fantasma per le strade. Corse verso il quartiere alto. Ebbe pensieri rabbrividenti. Gli aveva solo chiesto di stare attento. “Che Dio lo benedica”. Quando girò l’angolo della casa di Irene, a un passo da lui, sentì un colpo di fucile. Gli si mozzò il fiato e il cuore gli si strappò. Riempì i polmoni d’aria e strinse i pugni. La sua testa, mezza scossa e tremante, emerse dall’angolo del muro. Una carcassa sulla strada, il grido di Irene nell’aria congelata. Accanto c’era il fratello di Irene con un fucile in una mano e i suoi capelli biondi nell’altra. Manolis corse a casa e per la prima volta le sue lunghe gambe sembrarono utili.

Il giorno dopo, la notizia si diffuse nel villaggio. Il fratello di Irene portò la carcassa al padre all’alba, sputandoci sopra. “Il prezzo è stato ripagato con il sangue, signor Giorgio, capitano”, disse dopo aver raccontato solo ciò che gli piaceva. Il padre si inginocchiò accanto al suo primogenito. Il valore, la virilità, la mascolinità erano stati spazzati via da entrambi. Né le sue braccia robuste né il suo valore potevano sconfiggere la morte, che mai si sazia. Si strappò una ciocca della sua folta barba. Guardò l’assassino. “Vai” disse con voce roca, e lasciò la madre e le figlie a piangere e a prendersi cura del corpo.

Piangeva la casa, il villaggio nel suo insieme, ma soprattutto Manolis. Teneva in mano la sua lira, quel giorno di sventura, nel pomeriggio ormai, quando il sole stava tramontando, quando dalle persiane aperte delle finestre, le case, tutte imbiancate a calce, brillavano pulitissime sotto gli ultimi raggi dorati. ”Fratellino mio!”, cantò ancora una volta, e le lacrime scorsero di nuovo. Prese la lira con affetto, come se fosse l’anima di suo fratello. Insieme ad essa erano nascoste poesie d’amore e di dolore. “Il mondo è ingiusto. E tu, povera lira, abituata a mani robuste e dita grosse, come posso farti cantare di nuovo come faceva il tuo padrone?”.Prese l’archetto tra le dita con affetto. I campanelli fatti con ossa di falco suonarono mestamente. Respirò. Le lacrime si asciugarono, il dolore si trasformò in amarezza e rabbia per il mondo ingiusto. Passò l’arco tra le corde. Una, due volte. Iniziò una melodia, una melodia che era lamentosa e infinita. Una canzone dopo l’altra e sembrava che suo fratello fosse al suo fianco con un sorriso da bambino che applaudiva. La melodia fece tremare la casa. In salotto il padre si strinse la mano nel fazzoletto. “Dannata mente. Il dolore mi ha fatto sentire i fantasmi”. La madre, inginocchiata com’era, raddrizzò il suo fazzoletto nero. Alzò lo sguardo e con le lacrime rimase per un attimo ad ascoltare la melodia. “Il mio germoglio, il mio bambino, il mio bello” sussurrò, e corse in sala. Vedendola, il padre corse al piano di sopra alla ricerca del suono. Nella stanza la lira gridava e piangeva, ma in mani sconosciute. Più sottili, più deboli. Il capitano, dieci anni più vecchio di ieri, si inginocchiò davanti a Manolis. Gli prese le mani, per la prima volta con amore, tra le sue. La dolorosa canzone cessò.

“Figliolo…”, la sua voce si interruppe. Manolis lo prese sotto braccio e lo fece sedere sul materasso accanto a lui. “Come posso chiederti perdono per averti fatto tanto male?”. Le sue mani tremavano tra le braccia di Manolis. La lira al suo fianco ormai si riposava.

“Tu sei il mio sangue, padre. E il mio sangue sono anche i miei fratelli. Non si ama per essere amati. Il tempo porta via con sé tutte le cose, ma è meglio non perdere ciò che è stato difficile ottenere, né ciò che desideriamo avere”. Si fermò. Prese la lira, la fissò di nuovo al ginocchio. Suonò e si scosse tutto. “Danza, padre!Il tempo è un suonatore di lira e noi i danzatori che vanno ovunque lui voglia. Danza con fermezza e fai tremare la terra come prima! Danza per dimenticare e per ricordare!Passi decisi nel suono della musica, mio signore, nei passi della lira…”. Il vecchio danzò. Danzava e cantava come se non esistesse fine alle passioni e ai dolori del mondo.

…I passi della lira, le corde del liuto

…dimentico e canto di questo mondo bugiardo.

O povero uomo, la tua ferita è profonda,

negli inferi si odono i tuoi sospiri…