L'angolo dello scrittore

Giuseppe Verdi a Uhuru Park

L’incontro in musica tra la nostra tradizione e la gente di Nairobi

di Patrizia Soffientini

 

Il pomeriggio del 9 luglio all’Uhruru Park di Nairobi tutto è più chiaro. In quell’aria colore della cenere con cinquecento artisti italiani e africani sul palcoscenico e i bambini impazienti di esibirsi e glia crobati di far capriole e i tamburi e i violini di espandere il loro suono, con il maestro Riccardo Muti che, voltandosi come si farebbe fra amici senza formalità, invita il pubblico a cantare insieme il Va’ Pensiero, cercando se possibile di non stonare, con le autorità civili e religiose e il vice presidente Kalonzo Musyoka in prima fila e cinquemila persone accomodate sull’erba o compostamente sedute sulle poltroncine all’aperto, mentre la città festeggia l’indipendenza del Sud Sudan e osa esprimere quello che abitualmente tace, in quel quadro irreale proviamo un senso di meraviglia, di calma, di compiutezza. Come davanti a un prodigio. La nostra lucente babele, dopo averci imposto un prezzo molto alto, ora ci sta nutrendo, ci insegna una libertà nuova, il guardare avanti insieme. Dentro la stessa musica, fatta di melodramma e di percussioni.

Lo scorrere dei mesi di preparazione, infine delle ore e dei minuti doveva inchiodarsi lì, su quel tappeto di note. E tutto a un tratto, diventiamo una comunità empatica. Allegria e passione riprendono il sopravvento. L’atmosfera epica, al tempo stesso così naturale di quei momenti di conquista e agisce come il miglior cardiotonico.

Il concerto più valoroso e pionieristico delle Vie dell’Amicizia che da diciassette anni percorrono il mondo sulla straordinaria spinta del Ravenna Festival, scorre davanti a noi mentre pensiamo, ascoltando arie da Il Trovatore eLa Forzadel Destino, come tutte le nostre storie africane e italiane da un anno e più si siano intrecciate fino a quel momento con enormi slanci di generosità e brutali cadute, con agguati, improvvise schiarite e ancor più minacciosi temporali intorno a questo enorme evento, lasciandoci stanchi e confusi. Invece, in quel pomeriggio pieno d’attesa e come racchiuso in una boule de neige, tutto torna al suo posto. Non manca nessuno all’appello, compresi gli amici assenti. I fili si riannodano intorno a una musica eroica, emotiva, qual è quella di Verdi e di Bellini, ai salti mortali del Koinonia Children Team, ai plastici ballerini zambiani, allo sguardo nostalgico e stupito dei missionari cattolici, alla curiosità seria della borghesia nera, felice di partecipare a un rito insolito e stravagante, al languore dei bambini in braccio alle mamme, alla compostezza metafisica della gente arrivata da Libera, la grande baraccopoli, dove su tutti i pali della luce lungo le strade più simili a fognature che a vie di scorrimento, campeggia l’elegante locandina del maestro Muti con la bacchetta alzata e lo sguardo elevato. Mai contrasto fu più impagabile.

Il sogno nato nel camerino del maestro nel dicembre 2009 al Teatro Municipale di Piacenza esce dal cono d’ombra, si fa realtà portando con sé la straziante onda d’urto che scuote i legami tra Nord e Sud del pianeta. Esattamente questo dà profondità al nostro concerto, non più semplice rappresentazione musicale, ma frammento di storia a tutto tondo.

Ci siamo riconosciuti. Abbiamo condiviso molto. Ecco cosa abbiamo condiviso: la tragedia consumatasi nelle acque dei lidi di Ravenna con la morte di Marco Colombaioni e Gorge Munyua Gathuru, il volontario italiano 28enne che avrebbe dovuto raccontare il concerto con i suoi disegni e l’artista 15enne, il primo teso a salvare l’altro, e ciò accade il 2 luglio 2011, appena dopo l’arrivo in Italia del Koinonia Team; Ravenna scossa, assegna una medaglia al valor civile al generoso Marco, e le prove, nella tristezza, vanno avanti. Appena la sera successiva al Teatro Alighieri di Ravenna, ci raduniamo per assistere al Flauto Magico Impempe Yomlingo, sud africano, che trascina verso l’alto, come su un aquilone, l’umore della truppa. Ci ritroviamo a Piacenza nei giorni successivi, con premurosi volontari e i ragazzi di padre Kizito accolti dalle famiglie della parrocchia del Preziosissimo Sangue, le quali non sanno parlare inglese, ma sfornano i migliori piatti della tradizione contadina, i pisarei e i tortelli, per chi è pieno di appetito. Lungo un’intera giornata, la più spensierata di tutte, giochiamo nella fattoria dei Vegezzi a Turro con biciclette impazzite che fendono i campi padani di pomodori. A Piacenza sul palcoscenico di Palazzo Gotico, il 5 luglio, il presidente di Amani, Gian Marco Elia, racconta ancora una volta il senso del nostro viaggio e ci commuoviamo nel ricordo di Marco e Gorge insieme a un pubblico enorme e il sindaco Roberto Reggi annuncia due borse di studio alla loro memoria dalla comunità piacentina. Quella sera la messa in scena di Simba Na Mende di Paolo Comentale ci ricorda il valore dell’acqua in Africa e la saggezza degli anziani. Il 6 luglio, a teatro, siamo intorpiditi ancora nello spirito, ma la visita dell’ambasciatrice keniana ci conforta e ci risveglia e il concerto al Municipale è grandissimo, applaudito come non mai, con Padre Kizito seduto in un palchetto e Riccardo muti che tiene un discorso. Dice che non ci sarà un bis, perché non è una serata di piacere, quella, ma è stata attraversata da una luce, un lampo in fondo al buio e da una necessità che ha vinto tutti quanti, spingendoci ad andare avanti. La festa della musica rivela energie segrete, questo può bastare. Condividiamo saluti e addii, con qualcuno la promessa di rivederci già la sera successiva, il 7 luglio, di fronte stavolta al pubblico del Pala De Andrè a Ravenna, più di quattromila persone come le bandiere che brillano sul palco e i cori e i cantanti ela Cherubiniancor più carichi e il Koinonia Children Team non a corto di respiro né di speranza a ricostruire piramidi umane, un altro trionfo. E l’amicizia cresce e così le scene d’inimmaginabili complicità: ecco Ismahael, giovane keniano dalla picaresca furbizia, discutere con il maestro chiamandolo “Riccardo”. E poi l’8 luglio siamo ancora insieme nella burrascosa partenza dall’Italia, dove rimangono a terra alcuni degli amici più cari, con l’aereo che d’improvviso sparisce, inghiottito in qualche avaria burocratica. Arriviamo comunque, con un aereo di fortuna ma più piccolo, miracolosamente scovato a Londra nel giro di poche ore dal Ravenna Festival e a Nairobi consoliamo la delusione degli organizzatori di Koinonia a Shalom House: aspettano centinaia di persone  cena, sotto i tendoni circensi, le avranno a colazione il mattino dopo.

Il 9 luglio a Nairobi condividiamo la preparazione finale, il crescendo rossiniano d’attesa, il viaggio sui matatu verso Uhuru Park, la vicinanza delle nostre donne maasai, con Juliet, la prima che sarà medico, vestita come una piccola regina. E, naturalmente, lo stupefacente concerto, seguito da una festa spontanea a bordo palcoscenico fra i giovani musicisti della Cherubini e gli africani. Più tardi, ancora eccitati, al ricevimento dell’ambasciata italiana sentiamo, al di là del sipario, come il Kenya stia lentamente passando da una dimensione post-coloniale a una multietnica senza l’equità sociale che questo valico esige. A mezzanotte è già tempo per la fulminea ripartenza verso l’Italia delle orchestre, dello stuolo di giornalisti, del Maestro Muti e della nostra amica più di tutti,Cristina Muti Mazzavillani. E fina dalle prime ore dopo il concerto, per Padre Kizito e per Francesca Lipeti abbiamo netta la sensazione che alcune delle gravi difficoltà pratiche legate all’esercizio della loro missione, siano in parte medicate grazie all’attenzione pubblica e istituzionale sollevata quel giorno. Questo ci rende sereni. Questo ci ha uniti. Questo abbiamo condiviso. E la musica non è finita.