Futuro Remoto, I racconti Futuro remoto

Futuro lontano: decrescita o barbarie, prima o dopo il crollo?_Serge Latouche

_Traduzione di Barbara Caron

Le previsioni sono particolarmente delicate per il futuro, per il passato, sono molto più semplici! Paradossalmente (e fortunatamente) è più facile prevedere il lungo termine (e ovviamente, anticipare il breve) che il medio termine (1).

E questo, per motivi abbastanza facili da comprendere. Le previsioni a medio termine sono intrappolate tra la «dittatura del presente» e le incertezze circa le decisioni dei protagonisti principali. Per quanto riguarda il lungo termine, di sicuro abbiamo la certezza che saremo tutti morti, secondo le parole di Keynes; e poi abbiamo le caratteristiche geofisiche, le tendenze pesanti dall’evoluzione lenta, come la demografia. Abbiamo anche i dati tecnici in termini di risorse naturali: le superfici di terre disponibili e aride, le capacità di rigenerazione della biosfera, la prospettiva della fine del petrolio – geologicamente programmata – e il tempo di dispersione dei gas a effetto serra, il tutto compreso in un intervallo tra i cinquanta e i settant’anni.

Tutto questo ha indotto evoluzioni irreversibili, come l’innalzamento della temperatura di due gradi – almeno da qui alla fine del secolo -, dato ormai certo in base al quinto rapporto GIEC (o IPCC). Si rischia anche facilmente di arrivare ad un innalzamento di cinque o sei gradi, se continuiamo a non fare nulla per evitarlo. Ebbene, due gradi sono già una catastrofe. Questo significa milioni di migranti per cause di tipo ambientale. Che destino avranno centocinquanta milioni di Bengalesi quando siamo incapaci di accogliere cinquanta migranti africani? Alcuni sembrano preconizzare la riapertura d’urgenza di Auschwitz – e di campi dello stesso tipo – per far fronte all’invasione dei barbari: Senegalesi, Turchi, Afghani, di etnia Rom oltre, ovviamente, alle probabili orde di Asiatici…

In vista del prevedibile crollo dell’impero lo scenario di fondo si potrebbe basare sulle previsioni degli esperti del MIT delineati nel loro terzo rapporto al Club di Roma, Limits to growth. The 30 year update. Il modello sistemico «World 3», testato per più di un secolo, è un buon mezzo per prevedere le tendenze pesanti (2). Il citato terzo rapporto precisa che nulla – pare – possa evitarci il crollo, il collasso, salvo l’intraprendere la rivoluzione della decrescita. A seconda che si prendano o meno delle misure correttive più o meno serie, la data di questo collasso è da situare tra il 2030 e il 2070: nel 2030, a causa della crisi delle risorse non rinnovabili (petrolio, gas, carbone, uranio, terre rare, altri minerali e anche l’acqua); nel 2040, a causa dell’inquinamento, dei cambiamenti climatici, della morte degli oceani; nel 2070, a seguito della crisi dell’alimentazione, della desertificazione, della deforestazione nel mondo – in un mondo che conterà tra nove e dieci miliardi di abitanti.

Tuttavia, anche se il tracollo dell’impero non si è prodotto nel 2012 e non si realizzerà – come nel film di fantascienza omonimo – non credo che ciò potrebbe mai avvenire nella forma di un gigantesco cataclisma, un’Apocalypse now. Anche se, in ultima analisi, i profeti di sventura potrebbero avere ragione. L’astronomo reale Sir Martin Rees, autore di “Il nostro ultimo secolo” (Our Final Century), dà una possibilità su due all’umanità di sopravvivere al ventunesimo secolo (3).

Più pessimista ancora, a 86 anni, il grande studioso ecologista, Sir James Lovelock, con “La vendetta di Gaia” (The Revenge of Gaia), non lascia alcuna speranza alla nostra civilizzazione e solamente poche, stentate, possibilità di sopravvivenza nelle zone polari, per un massimo di 500 milioni d’individui (4).

Non mettendo in discussione la società dello sviluppo non si potrà sfuggire al caos. È evidente: decrescita o barbarie. Come organizzare la nuova era di un mondo politicamente esploso ed ecologicamente devastato? A meno di non mettere in discussione la società della crescita, è molto probabile che la volontà di mantenere lo «stile di vita americano» trasformi le post-democrazie in Stati o mini-Stati totalitari o in anarchie mafiose, sotto lo sguardo sempre meno benevolo di video-sorveglianza del Grande Fratello.

Fra le due grandi tendenze d’evoluzione contemporanea – in parte complementari, in parte contraddittorie – l’unificazione globale e la frammentazione all’infinito delle entità sociali è, in ultimo, la seconda che, a lungo termine, prevarrà sul rendimento decrescente del sistema e sul costo insostenibile della complessità dei grandi raggruppamenti (5).

Il solo modo per l’Europa e per il mondo per sfuggire alle barbarie causate dalla dittatura dei mercati è dunque la via della decrescita. Fortunatamente, i movimenti «anti-sistemici» – per usare la terminologia d’Immanuel Wallerstein – sono anche molto probabili e altamente auspicabili.

Ne possiamo già vedere le premesse nella periferia latino-americana, in Bolivia e in Ecuador e nei movimenti di resistenza nella stessa direzione sviluppatisi altrove: in Messico, Venezuela, Uruguay etcc. Tali Paesi si stanno avviando verso il buen vivir – il buon vivere. «I movimenti anti-sistemici si sviluppano anche da noi, ma in misura ridotta e più locali, più parziali, nelle città in trasformazione, nelle città lente, nelle città virtuose, le città post-carbone, nelle AMAP, le monete locali… ». Si possono immaginare delle eco o bio-regioni autonome, che vivono secondo una democrazia ecologica e un sistema eco-socialista, fondati sulle «8 R» dell’utopia concreta della decrescita (6).

Per concludere: la costruzione di quest’avvenire si farà prima o dopo il collasso? La domanda è piuttosto retorica, perché il collasso non si verificherà mai tutto insieme e perché esso, in realtà, è già cominciato. Soprattutto, per molti, secondo la lezione di Joseph Tainter, il collasso può essere auspicabile nella misura in cui esso abbia la capacità di nuocere ai grandi predatori e favorire uno sviluppo delle capacità di resilienza delle popolazioni, e dunque la messa in opera dell’abbondanza frugale, conforme al progetto della società della decrescita.

(1) Ho tentato, nonostante tutto, di descrivere una situazione da quadro impressionista, sotto forma di mosaico o di puzzle con dei buchi o degli spazi lasciati in bianco in diversi punti in un saggio intitolato : La chute de l’Empire romain n’aura pas lieu, mais l’Europe de Charlemagne va éclater, in Serge Latouche, Yves Cochet, Jean-Pierre Dupuy, Susan George, Dove va il mondo? Un decennio sull’orlo della catastrofe, Bollati Boringhieri, 2013. (Où va le monde ? 2012-2022: une décennie au devant des catastrophes, Mille et une nuits/Fayard, 2012).

(2) Cfr. Donella Meadows, Dennis Meadows, Jorden Randers, Limits to Growth The 30-year Update, Chelsea Green, 2004 e Christian Araud, Modèliser le monde, prévoir le futur, Entropia, Rivista teorica e politica del declino n°4, Parangon, Lyon 2008.

(3) Sir Martin Rees, Notre dernier siècle? (Our Final Century?), J.C. Lattes 2004.

(4) James Lovolock, The Revenge of Gaïa. Earth’s Climate Crisis and the Fate of Humanity, Allen Lane, London 2006. Trad. Francese: La Revanche de Gaïa. Pourquoi la terre riposte-t-elle?, Flammarion, 2007.

(5) Secondo la lezione di Joseph A. Tainter, L’effondrement des sociétés complexes, Ed. Le retour aux sources, 2013.

(6) Per le regole fondamentali di tutte le società liberate dall’ossessione dello sviluppo, abbiamo proposto di formalizzare la rottura attraverso un «circolo virtuoso» di sobrietà scegliendo le 8 “R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti sono stati scelti perché disegnano un’utopia nel senso migliore del termine: la costruzione intellettuale di un funzionamento ideale. Quest’utopia è – però – anche concreta, in quanto parte da dati esistenti e delle evoluzioni auspicabili per tentare di costruire un nuovo mondo, una nuova civilizzazione.