I racconti del Premio letterario Energheia

Diario di un pellegrino_Maria Benevento, Tricarico(MT)

_Racconto finalista terza edizione Premio Energheia 1996.

 

 

Ancora non riesco a spiegarmi come siano riusciti a trascinarmi in quell’esperienza. Sono un tipo intraprendente, ambizioso e anche assetato di conoscenza, ma la capacità di adattamento non fa parte delle mie doti e quel viaggio ne richiedeva una dose davvero abbondante.

Il mio scetticismo raggiunse il culmine quando compresi che gli spostamenti sarebbero avvenuti in auto-stop, col sacco a pelo in spalla, attraversare mezza Europa con questa prassi mi pareva a dir poco un’utopia. Cercai mille scuse per sottrarmi a quell’impresa, ma non ci furono ragioni: i miei amici avevano deciso che si “doveva” partire e che io “dovevo” far parte della spedizione. Consapevole di non poter più sfuggire a quel destino, cominciai ad immaginare ciò che mi aspettava lungo il cammino che conduce in Bulgaria; mi chiedevo perché, poi, avessero scelto proprio quella nazione, così distante da noi e dalle nostre mentalità di ventenni.

Iniziammo l’avventura all’alba di un tiepido lunedì, sotto un cielo cupo e immobile, dalle nuvole minacciose. L’atmosfera aveva un non so che di grave che rafforzava i miei cattivi presagi circa il viaggio e che irritava non poco gli altri “esploratori”. In quell’occasione ero senza dubbio l’elemento passivo della compagnia, tanto da rendermi irriconoscibile agli occhi di chi era abituato a vedermi sempre così allegro e partecipe. Non era colpa mia se quello stato d’animo, misto d’angoscia e repulsione, mi stringeva in una morsa: sarei stato felicissimo, io per primo, di liberarmene. Invece, più passavano i giorni, più venivo assalito dal tedio. Ad ogni ostacolo non mancavo di proporre un capovolgimento di fronte, ma nessuno mi dava ascolto, neanche attraversare l’inferno jugoslavo intimoriva il resto della truppa. Io, invece, ero tanto spaventato ma la mia paura era ben diversa, gli incubi mi perseguitavano. Ogni notte, sia negli accampamenti di fortuna, sia negli alberghi a tre stelle, incontravo una ragazza velata che mi invitava ad avvicinarmi e mi sussurrava poche parole in una lingua incomprensibile. Appena la sfioravo, scompariva. Al suo posto ritrovavo un cesto di cui non riconoscevo il contenuto. A quel punto sussultavo nel sonno, suscitando preoccupazione in coloro che mi stavano accanto. Molte volte i miei amici avevano tentato di capire ciò che mi stesse succedendo ma, ormai certi che non avevo voglia di dividere con loro la mia ansia, si erano arresi ed avevano smesso di interrogarmi. Mi sentivo isolato, distaccato ed un po’ colpevole, poiché ero conscio di essere il solo responsabile della mia solitudine interiore.

Passavo il tempo a domandarmi cosa mi riservasse il futuro, chi fosse quel fantasma persecutore che non mi aveva mai abbandonato lungo il tragitto, quando finalmente valicammo i Balcani occidentali e varcammo il confine bulgaro. Mentre discendevamo il versante settentrionale, approssimandoci al Danubio, venivo rapito dal fascino delle poco frequenti foreste di faggi. Quel paesaggio mi infondeva una pace profonda e mistica. Tornai ad essere un po’ più sereno, quasi assimilandomi alla natura circostante; adoravo perfino le doline, gli inghiottitoi ed i fiumi sotterranei che, di tanto in tanto, affioravano alla superficie, bruciata dall’arsura delle zone carsiche che prendevano il passo alle macchie di vegetazione. Il caldo sole estivo illuminava quello splendore e scaldava il mio cuore.

Avevamo già trascorso diversi giorni lontano dai centri abitati, quando decidemmo di dirigerci verso un grazioso villaggio alle pendici del Botev. Alcuni viandanti ci avevano incuriosito, proferendo buffe parole nella loro lingua che avevamo associate a strane rappresentazioni o cerimonie tradizionali. Stimolati sia dall’idea del contatto umano che dall’effettivo interesse verso quegli eventi, ci accodammo al corteo inneggiante che portava in processione un fantoccio di piccole dimensioni. Lo seguimmo fino al fiumiciattolo dove si arrestò. Sempre più stupiti, assistemmo all’immersione ed al successivo incenerimento del fantoccio. Solo in seguito, e con non pochi problemi, apprendemmo che raffigurava la “regina delle messi” e che le sue ceneri sarebbero state sparse nei campi al fine di invocare piogge abbondanti. Allo stesso informatore chiesi di narrarmi qualche leggenda locale, poiché la mia curiosità era stata stuzzicata da quell’aspetto delle tradizioni bulgare. Felice della mia richiesta, il vecchio non tardò a parlarmi del mistero della signora di Pliska, il cui suicidio aveva sconcertato i cortigiani nonché i coloni dei suoi latifondi. Impazzito dal dolore, suo marito, barone di Pliska, l’aveva seguita nel suo tragico destino, lasciando ogni possedimento alla sorellastra. Con la voce rotta dalla commozione, proseguendo nel suo pessimo tedesco, il vecchio mi spiegò come per la scomparsa della giovane donna, sua nonna, dama di compagnia della signora, fosse sparita nel nulla. Dai racconti di famiglia l’uomo aveva preso contatto con quella realtà lontana duecento anni.

Rimasi molto colpito da quella leggenda che restò nella mia mente per tutto il pomeriggio. Mi rammaricavo di non aver chiesto delucidazioni sulla localizzazione del castello di Pliska, tanto da rompere, per la prima volta dall’inizio del viaggio, il silenzio che avvolgeva la mia inventiva: proposi di porci alla ricerca della residenza della donna misteriosa.

Una luce nuova illuminava i miei pensieri, uno scopo imprescindibile si era posto come obiettivo del mio fare. Mi sentivo stranamente legato a quel personaggio così ambiguamente avvicinato tramite un racconto indiretto; era come se quella fosse stata la forza superiore che mi aveva spinto in quell’avventura senza l’assenso della mia volontà. I miei amici non erano stati che banali strumenti nelle mani di un destino superiore alla nostra condizione umana. Questa “scoperta” m’aveva, per altri versi, turbato. La fiducia illimitata nei miei istinti mi poneva di fronte ad un quesito inquietante: se la mia presenza in quel posto era così indispensabile, perché avevo insistentemente cercato di oppormi al compimento di quella fatalità? Un turbine di sensazioni contrastanti mi investiva, scuotendo il mio corpo incapace di reagire con un flusso di fremiti. In relazione alla gravità delle ipotesi vagliate mentalmente, l’adrenalina si riversava nel mio sangue e giungeva fino alle mie cellule nervose lasciando in me solo la certezza della necessità di trovare quel luogo. Non chiusi occhio per tutta la notte. La luna piena era alta nel cielo tenebroso e rischiarava gli impervi sentieri rocciosi del massiccio circostante.

Tormentato dai miei pensieri, intrapresi il cammino che, verso ovest, conduceva alla gola più profonda dell’intero sistema balcanico. I miei passi svelti accarezzavano furtivi il suolo ruvido del pendio, sicuri e decisi come quelli di un esperto abitante della montagna. Mi facevo strada tra gli arbusti ed i cespugli spinosi, volgendo di tanto in tanto lo sguardo alla mia compagna luna, temendo quasi che potesse lasciarmi solo col buio senza che me ne accorgessi. Invece non accadeva, col suo candido pallore mi indicava il percorso che portava allo strapiombo. Non sapevo cosa stessi cercando, ma non desistevo affatto dal mio intento. Il freddo della notte mi intirizziva le ossa e mi gelava il sangue, senza però impaurirmi con la sua aggressività. Finalmente raggiunsi la mia meta. Ansimando e col peso della salita sulle gambe, mi avvicinai al baratro per gettare uno sguardo nel vallone. Scorsi un elemento in contrasto con quell’ambiente selvaggio; mi sporsi ancora un po’ per verificare l’esattezza delle mie ipotesi che volevano quell’elemento come il castello che cercavo.

In un attimo, l’incedere sicuro dei miei passi si tramutò in una corsa vorticosa verso la profondità della gola. Incassavo colpi in ogni parte del corpo, senza a riuscire a fermare la mia discesa sfrenata, finché arrivai, privo di sensi, al capolinea. Ripresi coscienza solo dopo qualche ora. Riaprii gli occhi, frastornato, cercando di realizzare quanto mi era accaduto. Era l’alba. Una venatura rossastra coloriva il limpido cielo mattutino, scontrandosi con la cupa oscurità dei monti, sfumata perfettamente dal pennello della Natura.

Tentai di raddrizzarmi e solo allora riconobbi nei lividi che avevo il frutto della mia incoscienza. Associai la caduta al castello e, istintivamente, lo cercai nei paraggi. Che stupido ero stato, mi ero lasciato suggestionare dai miei desideri materializzandoli con l’immaginazione.

Proprio mentre mi biasimavo con queste considerazioni, un raggio di luce schiarì l’orizzonte e la facciata di un castello in pietra. Semplice e austero, sfiorava le rocce sovrastanti con i suoi merli. Il portale era contornato da sculture, rifinite fino al dettaglio. Sui cardini arrugginiti ruotava l’enorme imposta lignea. Dal primo sguardo, non dubitai più che si trattasse del castello che avevo cercato affannosamente nottetempo.

Raccolsi tutte le mie forze e cercai di riprendere la posizione eretta, costeggiando la parete, mi trascinai dinanzi all’imponente costruzione. Sebbene l’emozione e la stanchezza rallentassero i miei riflessi e la mia capacità di valutare, ritenni logico e inevitabile il mio ingresso nell’edificio. Cercai uno strumento qualsiasi per segnalare la mia presenza al custode. Il mio vecchio informatore mi aveva assicurato che ce n’era uno che faceva anche da guida ai visitatori. Dopo ripetuti colpi riversati con violenza su quella superficie inattaccabile, un omino, minuto e claudicante, apparve al mio cospetto. Aveva l’aria trasecolata, i bianchi capelli spettinati e la barba incolta. I suoi vestiti sembravano reduci da una lunga astinenza dal bucato e così le sue scarpe parevano testimoniare parecchi anni di sfruttamento. Compresi subito che tra noi non si sarebbe mai potuto instaurare un dialogo, poiché se di certo egli non conosceva l’italiano e il tedesco, la mia conoscenza del bulgaro si limitava a scarne formule di saluto. Feci ricorso, allora, alla fantasia che mi restava e gesticolai per parecchi minuti, prima che il custode ritenesse soddisfacente la mia mimica e mi permettesse di varcare la soglia. Scelsi di non avvalermi della sua consulenza di guida, così da poter rimanere solo con quelle mura impregnate di mistero. Avrei voluto interrogarle per ricavare la descrizione del suicidio della proprietaria di quello splendore. Mi astenni, però, da quella manifestazione di squilibrio mentale, limitandomi ad ammirare quanto mi circondava per carpire l’essenza meravigliosa che conteneva.

Mi sforzavo di allungare lo sguardo nella profondità dell’atrio ma il portale, richiudendosi, aveva rapito ogni cosa alla mia vista.

Brancolavo nel buio pesto, quando una mano gelida e ossuta si posò sulla mia spalla. Trasalii, ma non persi il mio straordinario autocontrollo. Mi voltai lentamente e, schiarito dal pallido chiarore di una torcia, riconobbi il volto del custode. Tirò fuori da un tascone dei pantaloni una torcia simile alla sua e me la porse. Per l’impazienza di restare solo, non gli avevo dato modo di fornirmi gli strumenti indispensabili per la visita. Lo vidi sventolare anche un foglio ingiallito, dopo avermelo mostrato, me lo chiuse nel pugno e restò lì ad osservare la mia reazione. Credo si aspettasse una mancia o qualcosa del genere, ma io avevo lasciato il portafogli, insieme a tutti i miei effetti personali, in tenda. Con non poco imbarazzo, girai le spalle al povero malcapitato e mi avviai verso la scalinata che avevo intravisto.

Mi accasciai al primo gradino per esaminare il foglio che avevo ricevuto. Doveva essere una mappa planimetrica del castello. Non potevo capire il significato delle parole, ma i simboli mi aiutavano nell’orientamento. Ero nel salone che dava accesso a tutte le stanze, comprese quelle dei sotterranei. Decisi di iniziare l’escursione dai piani superiori. La luce ovattata della torcia non era sufficiente ad evitare gli scontri con la ringhiera sgangherata. Un forte tanfo di muffa opprimeva le mie narici. Finalmente mi resi conto, tastando il pavimento, che il piano proseguiva orizzontalmente. Vidi un barlume di chiarore giungere da un’angusta finestrella, protetta da inferriate. Potei scorgere un po’ meglio, allora, diverse entrate aprirsi alle estremità del corridoio che si dipartiva. Senza troppe indecisioni, mi diressi verso quella più vicina. Un finestrone rischiarava completamente l’interno di quella che doveva essere stata, necessariamente, una stanza da letto. Non che fossi un intenditore, ma quello davanti a me non poteva che essere un baldacchino. Dall’imponente struttura cesellata, era però visibilmente logorato. Resti di tendaggio di chissà quale pregio pendevano slabbrati dalle aste corrose. Brividi di ribrezzo mi scossero quando associai quella corrosione alla presenza di roditori. Vinsi quella sensazione e mi accostai alla toilette. Erano la “sua” stanza e le “sue” suppellettili. Ero emozionato al pensiero di trovarmi, anche se a distanza di secoli, dove aveva dimorato la mia chimera.

Uno scricchiolio mi distolse da quelle considerazioni. Tornai indietro richiudendo delicatamente l’uscio alle mie spalle e mi misi in ascolto per percepire ancora quel rumore. Lo sentii ripetersi e lo inseguii lungo l’ala est. Calato com’ero nel mio ruolo d’investigatore privato, mi muovevo furtivamente, alla stregua di un agente speciale. Riflettei un attimo e mi resi conto che non ero l’unico visitatore e che ad ogni modo avevo una mappa per orientarmi. Già, ma dove l’avevo lasciata? Peccando di presunzione, avevo inconsciamente ritenuto di non averne più bisogno.

Seguivo la luce che proveniva a tratti dalle aperture più o meno grandi della parete. Incuriosito, mi approssimai ad una tra le più grandi e, di lì, riconobbi il sentiero che mi aveva condotto in quel luogo. Il sole era alto nel cielo. Dovevo essere lì da almeno sei ore.

Ripresi la mia strada e giunsi al termine del corridoio. Aprii l’ennesima porta e mi ritrovai oltre ogni ragionevole dubbio, in una biblioteca. Questa stanza era lunga circa tre volte più della precedente, e almeno due volte più larga. Quanto all’altezza, poi, era così elevata che non riuscivo a vedere l’ultimo scaffale delle librerie, forse anche a causa delle ragnatele che costituivano un fitto telone tra i vari mobili.

Improvvisamente mi accorsi di non essere solo, qualcuno stava sfogliando le pagine ingiallite di uno di quei libri. Mi guardai intorno e finalmente riconobbi i contorni di una figura umana, in fondo alla sala. Mi avvicinai meccanicamente a quella presenza che emanava una fortissima tensione. Mi voltava le spalle, sprofondata nella sedia a dondolo che, in quel momento, riprodusse nitido lo scricchiolio che avevo avvertito dalla stanza da letto.

Quando le fui ormai molto prossimo, distinsi nettamente il volto femminile che si girò per guardarmi. Due splendidi occhi di un verde vitreo mi squadrarono da capo a piedi, fissandosi nei miei. Rimasi pietrificato da quello sguardo, senza riuscire ad infrangere l’incantesimo di quell’istante. Fu quella stupenda creatura a rompere il silenzio.

-Finalmente un compagno di viaggio – disse riponendo il libro che aveva tra le mani.

Sorridendo, feci per risponderle con assoluta naturalezza, quando realizzai che non era così normale trovare qualcuno che conoscesse l’italiano nel cuore della Bulgaria, e poi, cosa aveva testimoniato la mia appartenenza etnica? Mentre questi pensieri si affollavano nella mia mente, la ragazza lesse ancora nei miei occhi, suppongo, la confusione che dimorava.

-Non fare quella faccia. Solo un italiano può vestire all’americana indossando un berretto col tricolore.-

Istintivamente sfilai il cappello nero con la bandiera italiana, sventolandoglielo orgoglioso ad un palmo dal naso.

-Complimenti, sei un’attenta osservatrice. Quanto all’abbigliamento, però, sappi che l’ho scelto solo per comodità- Ribattei lustrando i jeans strappati e la t-shirt degli Yankees.

-E tu da dove vieni? Non saremo mica compatrioti?- Ripresi.

-No, affatto, il mio italiano è frutto di uno studio puramente teorico-

Mi rispose regalandomi un sorriso.

-Sei ancora più in gamba, allora. Dì un po’, cosa stavi leggendo?- Mi informai.

-Qualcosa come una biografia- Disse indicando il testo che aveva conservato.

Mentre ascoltavo le sue parole, osservai attentamente la sua lunga coda di capelli biondi. I suoi vestiti si intonavano perfettamente ad essi e alla chiarissima pelle del suo viso. Era alta quasi quanto me, graziosamente proporzionata nelle forme e delicata in ogni movimento del corpo.

-Che c’è ? – Mi distolse da quell’attività.

-Nulla, – mi affrettai a rispondere, un po’ imbarazzato. -Conosci per caso la leggenda della regina di questo palazzo?- Tentai di cambiare discorso.

La scelta, da parte mia casuale, di questo tema, la fece, però, impallidire.

-Qualcosa non va? -Chiesi preoccupato.

-Tutto ok. –

-Sì, la conosco bene -Mormorò mestamente.-Vuoi che te ne parli?

-Mi piacerebbe – Risposi un po’ turbato dalla sua reazione. -Ma se tu…-

Feci per proseguire.

-Io non ho problemi a raccontartela- Mi rassicurò con un altro sorriso dolcissimo, ed incominciò il racconto.

“Durante la prima metà del Settecento, quest’angolo di paradiso apparteneva ad una coppia di giovani sposi. Erano felici, proprio come nelle favole – Proseguì la ragazza con una punta di qualcosa che avrei identificato con rimpianto, o qualcosa di simile, ma che non aveva ragione d’esistere nella sua narrazione. -Nella loro corte dimoravano l’amore e la collaborazione; ovunque risuonava la fama della sua prosperità. Poi, in un oscuro giorno di tempesta, la sposa andò a visitare la torre di guardia, quella più alta, con alcune serve e la cognata. Fu allora che, malauguratamente, precipitò giù nel fossato.-

-Ma come, non si era tolta la vita di sua volontà?- Proruppi stupito.

-Non saprei dirti come fece a cadere, ma di certo non si spinse autonomamente -. Disse.

Rimasi poco convinto, addirittura scettico.

Posai nuovamente lo sguardo sulla mia interlocutrice, quasi bastasse a verificare la veridicità del suo dire. In particolare, non mi spiegavo perché apparisse così turbata da una leggenda a lei, dopo tutto, lontana.

Ruppi il silenzio, allora, per chiederle di condurmi sulla torre in questione, quasi a sfidare la sua disponibilità. Mormorandomi il suo consenso, mi fece strada verso il corridoio. Il suo passo leggero mi precedeva di un paio di metri, quando imboccammo uno stretto tornante di scale. Al termine di quella faticosa salita, ci trovammo di fronte una porticina di ferro. La mia compagna girò con risolutezza il chiavistello ed entrammo nella stanzetta. Era sorprendente la dimestichezza che la mia guida aveva con quel posto. Squadrai ben bene l’ambiente nel quale ci eravamo introdotti. La sua forma circolare sminuiva ancor più la sua ampiezza; la nudità delle sue pareti e l’assenza di mobilio accentuavano ulteriormente il suo squallore, focalizzando l’attenzione sull’unica apertura rivolta all’esterno.

-Eccola: è questa la finestra di cui ti ho parlato- Mi annunciò tristemente.

Io mi avvicinai per guardare di sotto; lo strapiombo era davvero spaventoso.

-Caspita che volo!- Esclamai.

Non sentendo giungere risposta, mi voltai a cercare la ragazza. Non la vidi. Feci per chiamarla. Solo allora mi resi conto di non conoscere il suo nome. Tornai indietro, percorrendo a ritroso lo stesso tragitto, con in più un carico di ansia. Cominciai a correre, preoccupato e, al contempo, speranzoso di ritrovare la mia amica in biblioteca. Invece non era lì. Mi accostai al luogo esatto in cui, poco prima, l’avevo incontrata. Cercai il libro che era stato tra le sue candide mani, ma ricavai solo una gran confusione, avendone fatti cadere diversi altri. Affannosamente tentai di ristabilire l’ordine, quando un titolo tutto in italiano balzò alla mia vista. “Il mistero del castello” era la scritta che recava sulla copertina purpurea. Riflettei un attimo sul perché di un’opera italiana in una biblioteca bulgara, per di più, il nome dell’autore appariva come una scritta pre-inumidita cancellata con un batuffolo imbevuto d’alcool.

Istintivamente, soffiai per asportare un po’ di polvere ed infilai il volume sotto la maglia, all’altezza della cintura dei jeans. Ormai certo di non rivedere più quella dolce creatura, mi avviai lentamente verso l’uscita. Ripassando per lo stesso corridoio, notai dalle stesse finestre, che era già sera. Soltanto quella constatazione mi fece rammentare degli amici che avevo abbandonati senza alcuna spiegazione. Probabilmente mi stavano cercando, sparpagliati tra la valle ed il massiccio circostanti. Una vena di senso di colpa attraversò i miei pensieri.

Improvvisamente ricollegavo le gentilezze e la disponibilità che mi avevano mostrate ad una sorta di preoccupazione. Io, invece, ero stato troppo impegnato a curarmi di me stesso per accorgermene. Preso dalla frenesia, sgattaiolai giù per le scale, ritrovandomi nell’atrio dove aveva avuto inizio la mia perlustrazione. Cercai il custode, per salutarlo, ma la consapevolezza del reato commesso mi convinse ad andar via.

La luce rossastra del tramonto imprimeva un’aria sinistra al paesaggio. Gli alberi, a tratti illuminati, a tratti avvolti dall’oscurità, si ergevano minacciosi in ogni dove. Disorientato, rallentai per riacquistare un minimo di cognizione spaziale. Alla mia sinistra c’era una fitta boscaglia, a destra la rupe che riconobbi responsabile dei miei lividi, davanti a me un sentiero che si perdeva nel vallone. Non poco combattuto, decisi di affrontare nuovamente la rupe, dal versante opposto però, e cioè in salita. In meno di un quarto d’ora, le tenebre avevano rapito ogni cosa e, questa volta, non potevo contare neppure sulla luce lunare. Per la prima volta fui colto da un sentimento d’angoscia e di paura: temevo di non farcela. Combattei con questa sensazione e uscì vincitrice la parte di me che voleva tornare all’accampamento, se non altro per riflettere sull’accaduto. Decisi che il metodo migliore e più rapido sarebbe stato una veloce corsa. Mi lanciai così, verso l’alto, senza guardarmi indietro. Raggiunsi la vetta quasi senza accorgermene. Il volto della ragazza tornò impetuosamente tra i miei pensieri. Solo allora mi voltai indietro. Fu soltanto per un attimo; poi ripresi il sentiero che conduceva al campo, ma ero come allucinato, agivo senza ben connettere quello che facevo. Non so come, mi ritrovai nel luogo dell’accampamento, rischiarato a mala pena da uno sfumante fuoco, soffocato dalla cenere. Mi avvicinai ulteriormente per capire, come avevo visto fare tante volte nei films, da quanto tempo era stato abbandonato a se stesso. I mozziconi reduci, sebbene spenti, erano ancora scottanti. Mi alzai di scatto, allora, lasciando cadere così il libro di cui mi ero dimenticato. Mi chinai nuovamente per raccattarlo. Fu allora che sentii battermi sulla scapola destra. Mi sollevai, ma ricaddi subito dopo, atterrato da un potente pugno. Tutto dolorante, alzai lo sguardo per identificare chi mi avesse colpito. Con gran sorpresa, riconobbi uno dei miei amici, spalleggiato dal resto della comitiva. Subii oltre un quarto d’ora di insulti e rimproveri circa la mia incoscienza e la mancata correttezza del mio comportamento nei loro confronti. Solo alla fine mi comunicarono che era tempo di partire. Non ribattei, anche perché, a quel punto, la mia opinione sarebbe valsa a ben poco. Mi piegai a raccogliere il libro, riflettendo amaramente sul fatto che non avrei mai più rivisto quella splendida ragazza, né sentito più parlare del fantasma del castello. Mi stupivo del senso di vuoto che stavo provando, confrontandolo con la reticenza che avevo avuto al momento della partenza. Avrei dovuto essere felice ora, invece continuavo a sistemare le mie cose con una meccanicità esasperante. A mezzogiorno eravamo già pronti a partire; nessuno aveva voluto dirmi perché il nostro rientro era stato anticipato.

Carichi come muli da soma, ci avviammo verso il piccolo villaggio della cerimonia propiziatoria. Ultima ruota del carro, seguivo gli altri con apatia e insoddisfazione, continuando a non capire perché i nostri programmi erano cambiati. Il paesaggio circostante mi appariva triste e malinconico, come se si duolesse della mia partenza.

Il sole era stato coperto da una fitta coltre di nebbia che avviluppava gradatamente ogni cosa; a stento raggiungemmo il familiare centro abitato. Fu allora che appresi da una conversazione telefonica che abbandonavo quella terra per la disgrazia che aveva colpito la famiglia di uno dei miei amici. Smisi di provare rancore nei loro confronti, tramutai il mio risentimento in rassegnazione. Prima di sera eravamo all’aeroporto di Sofia, con, in pugno le carte d’imbarco. Sentivo di aver lasciato una parte di me in quel castello e, soprattutto, avevo l’impressione di aver lasciato qualcosa di incompiuto, spezzato.

Quando l’aereo decollò, volsi lo sguardo, per l’ultima volta, a quei monti. Le luci della pista, l’oscurità di quelle sagome, l’opacità del cielo si sovrapponevano nella mia mente formando immagini confuse. La notte avanzava superba, inghiottendo anche me. Il cambiamento di pressione mi provocava non pochi fastidi, forse anche la stanchezza contribuiva ad offuscarmi la vista. Chiusi gli occhi al mondo esterno e li rivolsi dentro di me, spingendo lo sguardo nel profondo della mia anima. Nel viaggio in cui ero stato trascinato, nella vita dalla quale mi lasciavo vivere, vedevo il mio ruolo come, solo e sempre, quello dello spettatore. Mai avevo realizzato, forse mai ne avevo avuti di così travolgenti, i miei sogni. Provai, per un attimo, ad immaginare che l’aereo precipitasse. Cosa avrei lasciato al mondo di me? Sobbalzai. Ora avevo una missione da compiere.

Scosso dalla funesta ipotesi, preso dalla frenesia e dal desiderio di recuperare il tempo perso, mi alzai tralasciando le norme di sicurezza e tentai di estrarre, dal bagaglio a mano, il libro che avevo sottratto alla biblioteca del castello. Poco dopo ero ri-sprofondato nella mia poltrona, assorto nell’esame del volume. Il tempo aveva cancellato ogni riferimento alla data di stesura o di pubblicazione, solo una nota dell’autore appariva ancora leggera al fondo della prima pagina. L’opera aveva fondamento reale, diceva. Non potei proseguire la lettura, poiché il mio travaglio interiore mi aveva estraniato da ogni cognizione spazio-temporale, ma di ore ne erano passate e già stavamo virando verso la Malpensa. La voce anonima di quello che si proclamava il comandante ma, l’avevo intravisto dietro la tenda, era solo un assistente di volo, ci comunicò che dovevamo riallacciare le cinture e restare seduti. Fulmineamente conservai il libro e tornai a sedere. La mia curiosità cresceva incommensurabilmente. Gettai uno sguardo dall’oblò. Sebbene fossi nell’aeroporto per la prima volta, riconobbi i familiarissimi e onnipresenti banchi di nebbia.

Le prime luci dell’alba tentavano timidamente di lacerare la loro consistenza incorporea. Dopo varie frenate e assestamenti, fummo pronti allo sbarco. Nuovamente sopraffatto dal peso dei miei bagagli, mi accodai alla fila dei passeggeri assonnati che lentamente si accingevano a scendere. Non cercai i miei amici, inserendomi solo come una pedina di quello strano gioco. Camminavo assente, come un alieno in quello che invece era proprio il mio ambiente. Quando mi fui liberato di quella pesante massa di figure simili a zombies, riconobbi alle mie spalle i miei amici.

Ci separammo subito dopo, ognuno nel suo taxi, ciascuno nella sua vita. Ero tornato ad essere me stesso, un giovane studente fuorisede che vive solo in una metropoli sconfinata, senza tempo per pensare, sbattuto qua e là dagli impegni di studio. Il taxi aveva rapidamente coperto la distanza tra l’aeroporto e la periferia, ma ora procedeva a singhiozzo nel traffico mattutino. Da lontano, il sole gettava una luce opaca su quei casermoni di cemento, sui negri ai semafori, gli albanesi agli angoli delle strade, gli impiegati in doppiopetto sulle vespe. Una ventata gelida filtrò dal finestrino e giunse a ghiacciarmi la nuca. La vettura si arrestò ed il conducente mi comunicò che il mio viaggio era proprio finito.

Mi trascinai faticosamente fino al portone e poi, su per la prima rampa di scale, giunto trionfante all’ascensore, fui costretto a constatare che, al solito, era guasto. Né la mia espressione supplichevole, né il mio sinistro poderoso lo convinsero a funzionare. Sì, ero proprio a casa, mi ripetevo ad ogni gradino che superavo. Sfinito, girai la chiave nella toppa e mi trovai di fronte il mio appartamento. Lo stereo, i dischi, la foto del Che, tutto era esattamente dove l’avevo lasciato. Per un attimo ebbi l’impressione di non essermi mai mosso di lì. Striracchiandomi, mi preparai un caffè ristrettissimo e andai a consumarlo sul mio letto, dietro al fatidico libro. Sfogliai alcune pagine, ma saltai immediatamente alle ultime, come sempre avevo l’abitudine di fare, dopo che parole quali “Pliska, mistero, morte”, lette un po’ ovunque, mi ebbero confermato che nel libro si parlava del mio “castello”.

“La principessa avanzava affannosamente per la ripida scala, sospinta con violenza dalla sorellastra acquisita. I verdi occhi cercavano conforto in quelli dell’ancella, ma solo il vuoto della rupe offrì loro rifugio. Il pianto disperato si liberò con i biondi capelli nella caduta, mentre il cesto di frutti abbandonava la candida mano. L’ancella, fedele e devota, continuò ad adempiere al suo dovere seguendo la dama.”

Mentre le parole scorrevano sotto i miei occhi, i sogni che per tanto tempo mi avevano ossessionato, si materializzavano nella mente come immagini di quel racconto. Ogni cosa recuperava il suo posto, come i tasselli di un mosaico: il cesto, la donna, la torre. L’ancella, allora, doveva essere stata la nonna del vecchio che mi aveva parlato della leggenda e la ragazza, sì la ragazza era la splendida creatura della biblioteca. Non potevo crederci: era impossibile, inconcepibile, fuori da ogni logica. E allora, la principessa non si era suicidata, la sorellastra del consorte l’aveva spinta dalla torretta, ed aveva ucciso anche la dama di compagnia, testimone scomoda. Tutto questo, però, non era plausibile. Cercavo di convincermi che si trattava solo di un racconto, col quale io non avevo a che fare. Perché proprio io poi! Decisi di andare comunque fino in fondo e terminai la lettura:

“Nessuno ha scagionato la principessa dalla colpa di essersi tolta la vita e la sua anima pura vagherà senza pace, finché qualcuno cancellerà quella macchia da quella creatura innocente. Non un mago potrà compiere questo sortilegio, ma un giovane altrettanto puro che, contro la sua volontà, il fato condurrà ai piedi della roccia.”

Costernato, sbattei il libro sul pavimento, mandando all’aria tazzina e caffè, e corsi allo specchio. Mi scrutavo cercando nel mio viso i connotati di una persona dall’animo puro. Tra i tanti aggettivi che mi erano stati affibbiati, non c’era mai stato quello di “puro”. Una vita onesta e dei sani principi non bastano per rendere un uomo tale, neanche la sofferenza per la perdita di una persona cara. Però troppi particolari coincidevano, troppe sensazioni apparentemente immotivate trovarono una spiegazione. Cercai di acquistare lucidità con l’impatto con l’acqua fredda, ma la verità non restò nel lavandino, pronta a farsi cogliere. Dovevo tornare laggiù per raggiungerla.

Nessuno sapeva del mio ritorno, sicché nessuno avrebbe saputo della mia nuova partenza. Telefonai all’agenzia e prenotai un posto sul primo volo diretto a Sofia per quello stesso pomeriggio. Riempii l’attesa con un sonno irrequieto e tormentato finché, quasi senza rendermene conto, mi ritrovai di nuovo all’aeroporto, di nuovo in processione verso un boeing. Questo secondo viaggio mi appariva molto diverso dal precedente, avrei voluto vincere l’impatto dell’atmosfera con la forza della mia volontà per giungere più velocemente a destinazione. Solcavo le nuvole con un impeto ben maggiore di quello dell’aereo che mi trasportava. Il cielo terso sposava il candore inconsistente di quei nembi, mentre il vento li forgiava nelle forme più strane e asimmetriche.

Il percorso interminabile si concluse, finalmente, lasciandomi solo sul sentiero che porta a nord fino al castello di Pliska. Una notte di cammino ininterrotto mi riportò ai suoi piedi. Con la dimestichezza di chi conosceva bene quei luoghi, giunsi al portale e, subito dopo, mi immersi nelle tenebre dell’edificio. Sostai, attendendo l’arrivo del custode, mordendomi rabbiosamente il labbro inferiore. Stanco di aspettarlo, tirai fuori la mia torcia elettrica e, sistemato il berretto, mi diressi verso la scalinata. Tutte le superfici facevano eco ai miei passi titubanti, stavolta lenti su quei gradini corrosi.

Più salivo, più mi pareva di sprofondare in una dimensione sconosciuta, a tratti attraente a tratti spaventosa. Il tempo, lo spazio, la realtà non mi appartenevano, persi ogni contatto con quei riferimenti puramente convenzionali. Erano privi di senso per me. Durante un giorno che mi sembrava infinito, vagai come un’anima in pena misurando il castello a lunghi passi e per tutta la sua estensione, senza rintracciare la ragazza, né il vecchio. La notte aveva già posato il suo manto scuro sull’ambiente esterno, quando giunsi alla torretta. Mi affacciai al finestrone e fu allora che, in un attimo di sconfinata eternità, specchiai la mia anima nei suoi occhi. Leggiadra come un angelo, la principessa era apparsa silenziosamente alla mia vista, sorretta da un supporto inesistente, accompagnata da un bagliore accecante. La contemplavo immobile, incapace di proferir parola, quando la sua voce ruppe il silenzio e risvegliò i miei sensi:

-Ti stavo aspettando, temevo che non saresti mai arrivato. Avevo paura che non saresti riuscito a leggere nel tuo cuore, a cogliere la tua purezza. Invece l’hai fatto, sei riuscito a liberarmi, ma hai liberato anche te stesso, superando quel triste pomeriggio d’autunno. Non fosti tu ad ucciderla. Il suo destino doveva compiersi e tu non potevi contrastarlo. Quando quell’auto si schiantò sulla vostra, non eri tu a dover morire. Hai avuto un’altra possibilità, scegli di sfruttarla.-

Distesi le braccia per cercare il suo abbraccio, ma l’angelo scomparve. Avrei voluto sapere di più, chiederle dove si trova ora il mio amore, il sogno infranto da quell’incidente mortale in cui ero morto anch’io, vinto dal dolore di essere l’unico superstite, di non avere fatto di più, di non averla salvata. Era passato un anno, ormai, e da un anno mi limitavo ad esistere. Ora quella creatura mi invitava a tornare a vivere. Salii sul parapetto della finestra e guardai verso il basso, niente di più semplice che chiudere gli occhi e rinunciare, per sempre. In bilico su quel parapetto decisi di vivere.

Avevo troppe cose da fare, il mondo aveva bisogno del mio contributo. Se fossi scomparso, nessuno avrebbe potuto sostituirmi. Se mi fossi tolto la vita, avrei ucciso anche la speranza. Invece anche la mia vita valeva la pena di essere vissuta, non potevo sprecare il dono che Dio mi aveva fatto. Ero come un pellegrino giunto al suo primo approdo, pronto a ripartire verso nuove mete.

Mi girai per scendere, voltando le spalle all’alba. Era l’alba di un giorno nuovo.