Cristiani sotto attacco
Il caffè geopolitico – Egitto, 03/01/2011 di Marina Calculli
L’autobomba esplosa nella notte di Capodanno ad Alessandria d’Egitto che ha provocato la morte di 21 cristiani all’uscita dalla messa di mezzanotte è solo l’ultimo anello di una catena d’odio religioso che sta drammaticamente cavalcando le fragili fratture della società in tutto Medio Oriente. In Egitto i cristiani copti costituiscono il 10% circa della popolazione: la violenza e le discriminazioni nei loro confronti, sintomo di un crescente antioccidentalismo, potrebbero causare problemi anche per la stabilità politica del regime di Mubarak?
LA CRESCENTE INTOLLERANZA CONTRO I CRISTIANI – I rapporti tra i musulmani e i cristiani, che occupano il territorio mediorientale fin dall’antichità e, dunque, precedentemente all’avvento dell’Islam nel VII secolo, è sempre stato problematico nella storia della regione. In particolare la presenza in Medio Oriente delle varie comunità cristiane, già di per sé infragilita dalla frammentazione confessionale che caratterizza tutt’oggi queste ultime, è stata sempre tollerata a patto che si sottoponesse all’autorità politica dell’Islam e non facesse proselitismo. Questa condizione è stata integrata nel passaggio dell’Islam alla modernità, precisamente nel momento di formazione degli Stati mediorientali durante il secolo scorso, attraverso la sua esplicitazione in molte delle attuali costituzioni nazionali – soprattutto in quelle dei paesi più intransigenti, come per esempio lo Yemen. Tale condizione, tuttavia, proprio nel momento in cui veniva più perentoriamente affermata, non ha impedito che si determinasse una politicizzazione della frattura religiosa tra cristiani e musulmani. Con le nuove formazioni statali e ancor più nel momento di esplosione dei nazionalismi arabi, infatti, il rapporto tra i musulmani e le minoranze cristiane ha assunto una caratterizzazione del tutto nuova, artificiale quanto storicamente contraddittoria: si cominciò infatti ad associare il Cristianesimo al rifiuto del colonialismo occidentale, secondo un procedimento concettuale che ignorava strumentalmente il differente percorso storico dei cristiani mediorientali rispetto alla comunità occidentale e coloniale. E’ importante, infatti, ricordare che, sebbene la storia dell’Occidente sia impregnata di un fondamento giudaico-cristiano (nella cui origine ovviamente tutti gli appartenenti a questa confessione si riconoscono), le comunità cristiane mediorientali sono dotate di un’oggettiva condizione di autonomia e non partecipazione rispetto alla storia dell’Occidente.
Eppure dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e in misura crescente fino ad oggi, l’associazione tra l’esperienza coloniale, ideologicamente condannata, e la presenza cristiana sul territorio arabo e musulmano è estremamente operativa. E’ evidente, tuttavia, quanto questa operazione abbia un carattere del tutto strumentale rispetto alla volontà politica dell’Islam di omogeneizzare sul piano religioso il tessuto sociale dei paesi musulmani. E’ per questo che a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale la vita dei cristiani in Oriente è stata resa via via più complicata dal montare dell’intolleranza religiosa che ha peraltro innescato un esodo silenzioso quanto cospicuo (vedi Un chicco in più).
Ed è esattamente su questa stessa linea interpretativa che dobbiamo leggere gli atti di violenza perpetrati ai danni delle comunità cristiane d’oriente negli ultimi mesi. I recenti bagni di sangue che dall’Iraq, alla Nigeria all’Egitto hanno sostanziato una nuova drammatica pagina dell’intolleranza religiosa, infatti, si iscrivono all’interno di un crescente radicalismo islamico nutrito di odio anti-occidentale, peraltro proprio nel frangente storico in cui l’Occidente non fa che collezionare fallimenti rispetto al tentativo di dialogare con il mondo musulmano.
IL CONTESTO EGIZIANO – Non è d’altra parte un caso che in Egitto il montare dell’intolleranza contro i cristiani-copti, che costituiscono circa il 10% del totale della popolazione, prenda piede in seguito alle elezioni dalla legittimità molto dubbia che hanno riconfermato, attraverso un processo elettorale depredato di ogni contenuto democratico, il presidente Mubarak. Quest’ultimo è vissuto dalla popolazione come alleato fedele degli americani e nonostante gli Stati Uniti abbiano condannato le palesi irregolarità elettorali messe in atto dal suo partito, la Casa Bianca in termini strategici non ha potuto far altro che gradire la sua rielezione. Nel contesto di una tendenza generalizzata all’affrancamento dai dettami di Washington da parte dei paesi mediorientali storicamente legati agli Stati Uniti, infatti, Hosni Mubarak, se non proprio alleato ideale, è percepito comunque come estremamente prezioso; inoltre, gli americani guardano di buon occhio il molto probabile passaggio di potere al figlio Gamal, formatosi in America e ancora più filo-occidentale del padre. Come si sa, molti degli esponenti dei Fratelli Musulmani erano stati arrestati prima del primo turno elettorale e, dopo aver denunciato il governo di brogli, avevano deciso per protesta di non partecipare neppure al secondo turno, che alla fine ha portato al Partito Nazional Democratico guidato dal presidente Mubarak, ben 419 seggi su 508. Le recenti elezioni, dunque, nell’aver messo programmaticamente fuori gioco i Fratelli Musulmani, i quali invece stanno acquisendo sempre maggior consenso tra la popolazione – in Egitto come nel resto dei paesi arabi – non hanno fatto altro che alimentare il nesso tra l’arroganza del potere e la legittimazione esterna ed occidentale di cui esso gode. Tale nesso, per di più, a fronte della assoluta mancanza di legittimazione interna, viene facilmente percepito come il prodotto di un atteggiamento neo-coloniale da contrastare con tutti i mezzi.
E’ in questo duplice contesto – regionale e interno – che si deve collocare l’escalation delle tensioni sfociate nell’attentato di Capodanno contro i cristiani d’Egitto. Questi ultimi, infatti, già vittime di una crescente intolleranza su scala regionale, che associa il Cristianesimo al nemico occidentale, all’interno del loro paese stanno subendo gli effetti di una radicalizzazione islamica nutrita ancor più che altrove da un sentimento antioccidentale. Circostanza ironica per il più importante alleato arabo degli Stati Uniti. Come in fondo ironico è anche il carattere peculiare dell’antioccidentalismo egiziano, fondato proprio sulla legittimazione che l’Occidente fornisce ad un potere arrogante, oppressivo e per di più tenuto in piedi da dinamiche del tutto estranee a quella democrazia che esso stesso ha tanta pretesa di insegnare agli altri.