I racconti del Premio Energheia Europa

Badù e Halil, Eleni Oikonomou

Menzione Premio Energheia Grecia 2023

“21 luglio 1702. Sul ponte piove, piove, piove…”.

Era da una settimana che quella pioggia non si arrendeva, nemmeno per un “Signore abbi pietà”. Soffocava l’anima, ammuffiva la mente. Il tetto delle stive, la base del ponte, non era resistente, imbarcava acqua. Il capitano aveva stivato cinquemila schiavi sulla sua nave. Le stive erano così piene che gli sfortunati africani riuscivano a malapena a muoversi. Il loro viaggio sarebbe durato due mesi…

Sul tavolo spiccavano quattro oggetti. Un consunto manuale su una migliore e più efficiente sistemazione degli schiavi, al fine di risparmiare spazio; due documenti, parzialmente sovrapposti l’uno all’altro; uno del governo spagnolo che dichiarava di aver concesso alla compagnia “Assiento” il privilegio speciale di “importare negri” in Sud America, e uno francese, che aveva offerto alla compagnia la nave da guerra Aquila e il suo equipaggio addestrato, e infine il diario del mercante di schiavi, inframmezzato da alcune ricevute per l’olio delle lampade.

La nave squarciava il mare nervosamente e spingeva con sé soluzioni inumane in un ambiente incontrollato. Il negriero respirava pesantemente e aveva uno sguardo fiero, avvolto nel lusso della noia. Era un uomo ricco, un uomo del mondo, ma mentre rifletteva sui giorni trascorsi, i suoi occhi avevano lo sguardo annebbiato di un uomo impoverito, smarrito e rude. Nella sua mente vorticava vividamente il ricordo del capotribù.

Dal porto di La Rochelle, in Francia, era arrivato in Guinea, in Africa, carico di bollitori di rame, barili di polvere da sparo, catene d’oro, spade, lenzuola blu e rosse, specchi, coltelli, trombe, gioielli, stoffe di cotone, campane e persino barili di alcol – anche se, questi ultimi, i negri raramente li consideravano come una merce di scambio – li onoravano solo se venivano offerti a loro come regali…

Il capotribù, lì, non era un bianco europeo, ma un nero, ed era lui stesso a supervisionare il trasporto dei suoi connazionali verso le piantagioni del Sud America. Viveva in una capanna con pareti di pali e un tetto di paglia. Quello era il suo “palazzo” e, benché fosse povero, non mancavano i lussi europei. Il suo “trono” era ricoperto di stoffe di seta e decorato con bordi dorati. Il fatto che il mercante di schiavi fosse venuto a fargli visita per chiedergli il permesso -addirittura in modo cerimoniale – gli aveva riempito l’animo di disgusto e repulsione, sebbene fosse già stato un traditore diverse volte…

“Non mi interessa nessuna felicità costruita sul dolore di un altro uomo!” aveva detto appassionatamente il capotribù nella sua lingua, stropicciandosi le labbra con evidente disprezzo.

Ma poi notò i nuovi “tesori”, i luccicanti “gingilli” destinati a lui, solo a lui! Una mente superiore vince sull’emozione. Una inferiore la ricatta. Il negriero si chinò sul suo diario e aggiunse:

“Poi gli presentammo i regali che il re gli aveva inviato: un mantello di colore rosso intenso, un caftano e un cappello ornato di piume bianche. Il negro, abbagliato da tutte queste belle cose, ci ha ringraziato a modo suo e ci ha promesso che ci avrebbe dato ogni aiuto possibile per il nostro commercio!”.

Così, in modo facile ed economico, avevano comprato la collaborazione del capotribù africano, che non esitò in seguito anche ad assistere, completamente tranquillo, alla tragica processione di queste migliaia di suoi simili, che arrivavano al porto, legati a due a due per il collo, con pali di bambù.

Erano stati gettati nella stiva, incatenati ognuno con altri quattro, davanti, dietro, a destra e a sinistra, tutti disposti in colonne di sette, perpendicolari all’asse principale della nave, seduti, con le ginocchia piegate al petto. Così, era come se ogni schiavo si trovasse al centro di una bussola, dove i quattro punti principali dell’orizzonte erano altri schiavi, ma tutti gli altri raggi della bussola indicavano centinaia di schiavi – un modo crudele e subdolo di abituare il negro al fatto che, qualunque direzione prendesse, il corso della sua vita era inevitabilmente diretto verso la schiavitù… Lo spazio era così stretto che solo una fila alla volta poteva sdraiarsi. I piedi di uno schiavo poggiavano sulla testa di un altro. Laggiù si insegnavano l’un l’altro come ci si trasforma da uomo a ombra, e vivevano, senza riserve, sul loro piscio e sulla loro sporcizia, come se il loro sangue, la loro urina e i loro escrementi, avessero potuto mescolarsi in qualcosa di fertile, così che la storia, il viaggio, la condizione di schiavitù, le persone, i padroni e gli schiavi, tutti potessero assumere un’aria rigenerante. Eppure, chi potrebbe mai credere che in questo squallore due persone possano davvero incontrarsi?

Lo schiavo aveva labbra carnose e occhi grandi, che gli conferivano il fascino di un’anima poco appariscente, che sa fare un passo indietro e placarsi, raccogliersi nell’adorazione del potere della luce. Ed era davvero un respiro dell’anima guardare in quegli occhi. Com’era diverso il sentimento che si provava, fuori dal degrado e dalla decadenza dei giorni cupi, nel profondo sguardo dei suoi occhi! Lì potevano fiorire l’umiltà e la pazienza, e quelli erano gli occhi che poteva avere Gesù Cristo. Quel fascino, ma anche quella salute, facevano sì che il giovane schiavo valesse un’intera unità indiana, e per questo era stato scambiato con cento bollitori di rame.

L’altro privilegio di Badù era fuori di lui. Ma era fondamentale per la sua personalità! Era l’amicizia con Halil. Halil non era solo il suo vicino di stiva, il suo vicino più prossimo e aggrappato a lui, un compagno di viaggio in quella storia e sofferenza. Era q u e s t o  vicino, q u e s t a  storia, q u e s t a  sofferenza.

Tra gli africani consegnati come schiavi ai mercanti di schiavi europei, c’erano anche molti criminali e prigionieri. Le autorità locali preferivano venderli e trarne profitto, piuttosto che punirli come previsto dalla legge. Halil era tra questi. Dei quattro che circondavano Badù nella stiva, Halil era quello che gli stava di fronte, in modo che i due potessero vedersi senza ostacoli e parlare, anche di notte, in silenzio, solo muovendo le labbra. A differenza di Badù, Halil, essendo più vecchio, era un prodotto meno redditizio. Era costato solo quattro unità di mercato, o quaranta piccoli bollitori di rame, un prezzo che di solito veniva preso da bambini piccoli, ragazzi e ragazze. Le sue origini erano complesse, il suo crimine indefinito e la sua storia ancora più confusa. Ogni volta che si accingeva a raccontarla, esponeva il suo volto illeggibile in ogni versione diversa, mentre legava consapevolmente la sua esistenza a un’eredità divisa e non identificata. Solo una cosa è rimasta costante in tutta la sua mutevole epopea. La sua sete, il suo desiderio di andare avanti.

Mi chiedevo se questo suo passaggio fosse stato facile. Una stretta striscia di mare separava lo Yemen, uno dei suoi possibili luoghi di nascita, secondo lui, dalla costa dell’Etiopia. Il Golfo di Aden. Era così vicino che di giorno giurava di poter vedere la terra secca e gli alberi a occhio nudo; di notte riusciva a scorgere scintille di fuoco e voci di uomini. Come poteva salvarsi? Era un sospiro incessante di furore e di cuore, un richiamo ininterrotto – al quale, ancora una volta, aveva dato risposte diverse. Che cosa doveva fare? Sarebbe certamente arrivato in terra straniera, e anche se fosse morto lì, non gli importava: in fondo, aveva sempre considerato queste terre di stranieri come sue. Così trovò in sé i poteri rigenerativi della sua razza, lottò con l’acqua, vinse, si mescolò con gli indigeni e con la nuova vita. Arrivò fino alla Guinea. La lotta e il potere ribollivano dentro di lui. Purtroppo, però, avrebbe presto capito che le persone cadono e combattono, e imparano necessariamente a sottomettersi a ciò che non è in loro potere cambiare…

L’ottavo giorno finalmente smise di piovere e al posto delle nuvole svolazzanti spuntò un sole enorme e aggressivo. Giù nelle stive, il caldo cominciò a rendere il fetore ancora più insopportabile. Badù aprì lentamente le palpebre. Ci voleva un attimo perché i suoi begli occhi si adattassero all’oscurità della stiva. Halil era sveglio da molto tempo. Lo stava guardando.

“Stai bene?”, annuì Badù.

Lui non rispose.

“Cosa c’è che non va?”, insistette ansioso.

Halil allora gli fece cenno con gli occhi di guardare alla sua destra. Lui girò immediatamente lo sguardo verso quella direzione, come gli aveva detto l’amico. Ebbe dei brividi. Le palpebre della donna erano rimaste semiaperte e in esse i suoi occhi neri si erano persi, congelati nella loro posizione definitiva. Stavano fissando la scala di legno, l’uscita verso la luce in alto. Badù appoggiò la testa come un bambino sulla spalla rigida di lei e fece una preghiera. Dopo un attimo, due uomini robusti irruppero dall’alto e la sollevarono tra le loro braccia peccatrici come se non fosse umana. La sua testa pendeva floscia nel vuoto. I suoi occhi rimasero orribilmente socchiusi, come una protesta vivente.

“Perché? Perché?”, gridò Badù. “Perché è nera? Non ha un’anima?”.

Non gli prestarono attenzione. Salirono sul ponte e la gettarono così com’era, senza sudario in mare.

“Le persone ti sminuiscono quando loro stesse sono sminuite, Badù…”, disse Halil cercando di consolarlo e appoggiando la fronte contro la sua.

A mezzogiorno, poiché il tempo lo permetteva, anche loro furono portati per la prima volta di sopra, sul ponte, per il rancio. La luce del giorno accecò gli occhi di Halil. Questa luce, che incideva sull’aspetto di questa nave infernale, era come se avesse poco in comune con la luce del resto delle cose, del mondo… Il ponte, il legno della nave negriera, non poteva accoglierla, assorbirla – la respingeva con impeto. E tutto questo insolito gioco di luce, tagliente e disperata, che squarciava la prigione degli schiavi, ovunque,sugli alberi della nave, nella stiva, sulla ruota, che influenzava la loro forma, dando loro qualcosa di oscuro, il senso di una lotta perpetua con la morte, creava una tensione spietata.

Ma agli occhi accecati di Halil le cose erano diverse. Lì non c’era lotta, non c’era combattimento, non c’erano forze opposte, non c’era l’etica del martire. Lì, l’abuso, la rassegnazione, la sottomissione avevano ottenuto la loro vittoria, avevano raggiunto la piena sintesi dei loro elementi, il punto in cui la vita diventa una tragedia.

Hanno dato loro dei semi da mangiare e poi li hanno costretti a ballare. Credevano, insomma, che questo avrebbe preservato la condizione fisica del loro carico… Badù all’inizio ha opposto resistenza per un po’, ma due violente gomitate del nostromo lo hanno costretto a farlo all’istante. Halil ha accettato senza pensarci due volte.

“Balla, negro! Muoviti! Forza!”

La danza di Halil procedeva come le onde. Una mano passava il movimento all’altra mano, un piede all’altro piede, senza diminuire o aumentare d’intensità. Tutti sempre entro il ritmo prestabilito, tutti si alzavano e si abbassavano al momento giusto e dove dovevano, per diventare, infine, un’esaltazione da brivido: la sua grande, vorticosa capriola in aria e il suo perfetto atterraggio su una mano.

“Guardate, abbiamo un acrobata!” rise l’intero equipaggio dell’Aquila.

Uno, due, tre giorni e tutti a bordo videro il talento di Halil e aspettavano con ansia che arrivasse mezzogiorno, quando lo schiavo si sarebbe esibito. Questo rituale quotidiano, mentre si fondeva con i colori scuri e la strana luce del galleggiante mortale, era pienamente abbandonato alla sua trascendenza: sfidare la gravità. E ridevano, applaudivano, e facevano scommesse e gridavano.

Una mattina, Badù si svegliò e vide che le gambe del suo amico erano piene di sangue secco. L’ematuria era iniziata. Halil cominciò a perdere rapidamente peso. Nel giro di due giorni ha perso la metà del suo peso. Ma a nessuno importava se il povero negro stesse bene. Tutti, anche i suoi compagni di cella, che non traevano più piacere dalle sue danze frenetiche, erano interessati soltanto al fatto che il loro divertimento continuasse… Lo spingevano a ballare. Il suo talento divenne un’arma a doppio taglio.

“Cadrai! Non ballare oggi…”, implorava invano Badù.

“Tanto mi trascineranno a ballare fino a farmi cadere…” rispose Halil, e i due amici unirono le loro fronti turbate e piansero insieme.

E così, un giorno Halil cadde e non si rialzò più. Il suo braccio si piegò come un ramoscello spezzato, il suo viso sbatté con forza contro il pavimento unto del ponte, di quella martoriata pista da ballo, tutto il suo corpo si unì al legno bollente, e così fu la sua immobilità imposta con la forza. Lo hanno alzato quattro persone per portarlo nella stiva.

Il giorno dopo anche Badù si ammalò. La dissenteria colpì duramente l’Aquila.

I suoi bellissimi occhi si posarono per un attimo sugli altri volti circostanti, aspettando tranquillamente che la morte venisse a congelarli, per salvarli dal loro brutto destino, e tornarono a guardare il viso del suo amico con la profondità di occhi che hanno viaggiato molto. I fervori accendevano da una parte all’altra la virilità dei morti, di ciò che desideravano diventare. Per tutta la durata della malattia, dai suoi piedi ingialliti fino all’alto della sua testa, il buio oracolava e le ombre erano d’accordo, sì, sì, erano d’accordo con lui che questi morti un giorno sarebbero stati vendicati!

L’orribile schiavista scrisse impassibile nel suo diario:

“I nostri negri stanno morendo. Ieri sera altri due più una negra. In tutto cinque in quindici giorni. Assiento sta perdendo soldi con tutte queste morti!”.

Badù si chinò sul moribondo, come un insonne guardiano della sua salvezza, disarmato e protettivo, che ascolta i suoi respiri, acuti e finiti, uno per uno. Tutti in toni indistinti, si alzavano e si abbassavano sul suo petto con un ritmo confuso, diverso da quello che avrebbero dovuto avere. Per quanto tempo ancora, per quanto tempo ancora avrebbe tenuto questa luce stanca dentro di sé? All’improvviso, un millimetrico e debole raggio di luce cadde inaspettatamente dritto nella sua bocca. Un raggio catalizzatore, artificiale, un minuscolo raggio rigenerante, come una madre, come una grande radice di vita. Il suo labbro cominciò a tremare, tutto il suo viso cominciò a tremare, convulsamente. Singhiozzava. Era malato e paralizzato, ma lui non pregò per sé stesso. Disse: “Dio, concedi al tuo umile servo Halil di vivere…”.